Death Stranding: il valore della connessione

Multiplayer asincrono, legami invisibili e condivisione della fatica.

Luca “Master Hayabusa” Sapora
Frequenza Critica
9 min readNov 30, 2019

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Death Stranding è un gioco particolare, atipico, coraggioso e per questo estremamente divisivo, per quanto questo possa risultare ironicamente paradossale, visto il messaggio di fondo dell’ultima fatica di Hideo Kojima.
Ma non sono qui per parlare di quanto il titolo sia divisivo, o di quanto mi sia piaciuto (tanto), e questa non è una recensione. In effetti, sulle quasi 150 ore che ho passato a portare pacchi dal punto A al punto B ci sarebbe tanto da dire.
Potrei parlare dei chiari legami dell’opera con Neon Genesis Evangelion, con cui condivide diverse tematiche e persino alcuni richiami stilistici.
Potrei parlare di come Death Stranding riesca a ridefinire la concezione dello spazio in un open world e il suo rapporto col giocatore, o di come riesca a rendere stimolante un gameplay loop basato in larga parte su “fetch quest” e spostamenti. Potrei infine parlare delle meravigliose musiche, degli scorci regalati dal Decima Engine, o delle notevolissime performance degli attori coinvolti, Mikkelsen su tutti.

Toccherò senza dubbio alcuni di questi punti ma, anche un po’ per ricollegarmi alla conclusione del mio precedente articolo e al discorso avviato da Damaso, voglio parlare di un aspetto nello specifico: il concetto di connessione e come questo viene traslato nel gameplay.

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Strands, Bridges and Ropes

Probabilmente Kojima ha un tantino esagerato quando ha sostenuto che Death Stranding avrebbe inventato un nuovo genere, lo “Strand Game”.
Ma al di là di questo, cerchiamo di capire cosa intendesse: secondo Kojima, ogni singolo elemento del gioco è riconducibile al concetto di “Strand”, filo, inteso come un qualcosa che connette.
Connessi allo “Strand” entrano in gioco poi tutta una serie di altri simboli dello stesso concetto, dai ponti da cui prende il nome il protagonista stesso e l’organizzazione di cui fa parte (Bridges), alla “corda” che viene metaforicamente contrapposta al “bastone”, nella classica citazione di inizio gioco con cui Kojima ama presentare le tematiche che intende trattare.
Il bastone, recita, serve a tenere il male lontano, a dividere, mentre la corda serve a unire, a connettere. In altre parole, si tratta di un’altra rivisitazione delle tematiche anti-guerra tanto care a Kojima, che del resto nel 1987 con Metal Gear ha contribuito enormemente alla fondazione di un genere, lo stealth, che fa dell’evitare il nemico e, talvolta, delle soluzioni non letali i suoi marchi di fabbrica.

La Metal Gear Saga però ha sempre vissuto del contrasto tra questa filosofia di fondo e la sempre crescente quantità di soluzioni letali e violenza, facendo del resto di questo contrasto e del suo rapporto col giocatore elemento tematico (come dimenticare il celebre monologo di Liquid Snake “You enjoy all the killing”, alla fine del primo Metal Gear Solid?).
Da questo punto di vista Death Stranding fa un passo oltre. Non che manchino armi da fuoco e possibilità di uccidere, intendiamoci, ma la differenza è che in Death Stranding non c’è il benché minimo incentivo alla letalità, anzi, tutto il contrario: uccidere comporta penalità.
Il focus del gameplay non è posto sui combattimenti, pur presenti, ma sugli spostamenti, sul “connettere” tramite le consegne diverse regioni della mappa. Mappa che pian piano andrà riempiendosi di “fili”, che rappresentano i percorsi del giocatore, trasformandola in una vera e propria rete di connessioni.
Ma c’è un altro modo, più potente, in cui Death Stranding ci trasmette il senso e l’importanza delle connessioni attraverso il suo gameplay: il multiplayer asincrono.

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Tra Hidetaka Miyazaki e Jenova Chen

Per parlare del multiplayer in Death Stranding mi vengono subito in mente due riferimenti da fare, così diversi eppure entrambi in qualche modo accostabili alla concezione proposta da Kojima: Dark Souls e Journey.
Le similitudini con il capolavoro di From Software targato Miyazaki credo siano palesi per chiunque abbia giocato i due titoli: entrambi sono dotati di un multiplayer asincrono in cui i giocatori possono collaborare - tramite indicazioni, evocazioni o aiuti di altro tipo - o anche, nel caso di Dark Souls, ostacolarsi attivamente.
Sì perché una prima differenza che va citata tra i due è che, coerentemente con il messaggio del gioco, in Death Stranding non è possibile avere con gli altri giocatori interazioni che siano attivamente antagoniste.
Non che non ci sia spazio per l’egoismo o l’intralcio, ne parleremo poi, ma di base le interazioni codificate dal gioco sono esclusivamente “positive” e aiutare se stessi quasi sempre inevitabilmente porta ad aiutare gli altri.
Questa differenza riflette la diversa impostazione di fondo delle due opere: nichilista e spietata da una parte, profondamente ottimista dall’altra.

La vicinanza con Journey è invece più concettuale che concreta: nella perla di Jenova Chen (thatgamecompany) tanto per cominciare il multiplayer non è asincrono, i giocatori possono vedersi e interagire (per quanto non verbalmente) in tempo reale.
Eppure a livello comunicativo credo che il significato del multiplayer in Journey sia parzialmente vicino al significato dello stesso in Death Stranding, data l’importanza che per entrambi assume il concetto di “viaggio”, seppur in declinazioni differenti.
Insomma trovare un compagno di viaggio, senza volto né nome, con cui attraversare il deserto svolazzando non è poi così diverso dal trovare nel mezzo di una ripida salita un cartello che ci dice “Keep on keeping on”: non importa chi tu sia e da dove tu provenga, non sei solo.
La differenza qui la fa la tipologia di interazione, letteralmente agli antipodi: oltremodo minimalista in Journey, in cui il viaggio è breve, i movimenti sono semplici e le interazioni essenziali, laddove Death Stranding rende il movimento una meccanica complessa e introduce costantemente nel corso della sua lunga durata nuovi modi di interagire con l’ambiente e con gli altri.

Complessità che è ben lungi dall’essere fine a se stessa.
Death Stranding è un’opera che attraverso il viaggio ci parla della solitudine e dell’alienazione, della fatica della sopravvivenza e dell’inevitabilità dell’estinzione, in cui il vero ostacolo alla progressione è l’ambiente e i veri “nemici”, notare le virgolette, sono i fiumi da guadare, i terreni scoscesi da attraversare lentamente e le montagne da scalare.
Il fatto che ogni area vada prima attraversata in solitaria per connetterla alla rete chirale svolge un’importante funzione, così come il generale senso di fatica che l’attraversamento del mondo di gioco trasmette.
Sopravvivere è faticoso, avere sulle spalle il peso del mondo ancor di più, troppo per un singolo individuo.

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Soli contro una natura fredda e impassibile…oppure no?

Si vive insieme…o si muore soli

Quando finalmente si arriva a connettere un’area alla rete chirale, accade la magia: le due sponde del fiume dalle acque profonde che ci aveva richiesto un grosso sforzo sono ora connesse da un comodo ponte, l’altura irta di rocce su cui scivolare è raggiungibile tramite una corda ben piazzata. Sostanzialmente estendendo il funzionamento dei messaggi in Dark Souls a ogni oggetto del gioco, l’area si popola di cartelli, scale, pacchi, generatori, depositi, punti di ristoro e chi più ne ha più ne metta, tutto condiviso da altri giocatori.
A nostra volta possiamo contribuire con le nostre costruzioni, fabbricando un generatore sul ciglio di una strada o una torre di guardia con cui si possa osservare una vallata. Possiamo riparare le strutture altrui, o potenziarle per aggiungere funzioni e possibilità di personalizzazione.
O ancora possiamo decidere di donare attraverso gli armadietti condivisi degli oggetti per noi superflui, ma che potrebbero essere utili per qualcuno meno fornito di noi.
Magari possiamo fermarci a raccogliere un carico smarrito da un giocatore per consegnarlo al posto suo, o quanto meno per portarlo un po’ più vicino alla sua destinazione, di modo che qualcun altro ancora possa a sua volta raccoglierlo, creando una catena in cui ognuno dia un piccolo contributo.

Death Stranding spinge all’interazione collaborativa più di qualsiasi altro gioco abbia avuto il piacere di provare, sicuramente in un modo nient’affatto comune nel mercato tripla A.
In Dark Souls per esempio sono sempre stato il tipo di giocatore che andava per la sua strada, non evocando né facendosi evocare, vedendo il multiplayer come un’opzione carina ma trascurabile, al più utile a farsi qualche risata su un messaggio.
Death Stranding trasmette davvero il valore della collaborazione e della condivisione della fatica, e tante volte mi sono trovato a fare cose non per mio immediato vantaggio ma pensando che magari avrebbero aiutato qualcun altro.

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XFC520, GRAZIE, chiunque tu sia ❤

L’ambiente così ostile e spaventoso in solitaria viene dominato attraverso lo sforzo collettivo, il carico sulle nostre spalle viene figurativamente alleggerito dall’unione delle forze, che consente di fare ciò che da soli non si potrebbe.
Emblematico come la limitazione della banda chirale di ognuno, e quindi di quante strutture un singolo giocatore può costruire, venga aggirata attraverso le strutture altrui.
Va da sé che, se il viaggio non fosse così faticoso e l’ambiente così ostile, il messaggio non potrebbe arrivare con la stessa forza.
In Death Stranding siamo sempre soli, ma in realtà non lo siamo davvero, sempre circondati da mani invisibili che ci porgono l’aiuto di cui abbiamo bisogno, corde che ci aiutano a risalire la china, legami invisibili che ci danno la forza di andare avanti.

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Tomorrow is in our hands

Nel mondo di Death Stranding è la paura dell’estinzione che spinge l’umanità a unirsi, e non penso ci sia bisogno che sia io a sottolineare il facile collegamento tra certi elementi dell’opera e il discorso sul cambiamento climatico.
Non è un articolo sulla trama e non voglio fare spoiler, ma penso di poter dire che con l’avanzare nel gioco acquista sempre più centralità un altro dei temi tanto cari a Kojima: l’eredità, il lascito per il futuro, del resto in parte esplicitato già dalla frase promozionale più celebre: “Tomorrow is in your hands”.
Strettamente connesso ai temi dell’estinzione e della collaborazione, anche questo tema è trasmesso attraverso il gameplay, le interazioni tra giocatori e il multiplayer asincrono, oltre che dalla narrazione. Ho accennato prima che, nonostante le interazioni previste dal gioco siano unicamente collaborative, non manca lo spazio per egoismo e incuria.
E in effetti nulla impedisce a un giocatore di fare i propri comodi e costruire solo quando gli è strettamente utile (andando comunque quasi inevitabilmente ad aiutare gli altri, però), o di sfruttare gli armadietti condivisi come estensioni del proprio senza mai donare.

Ben presto ci si rende conto di come la coabitazione del mondo virtuale può anche essere fonte di caos: sfido chiunque a dire di non aver trovato autocarri lasciati in posizioni improbabili, dal bel mezzo della strada all’entrata di un avamposto, maledicendo la mancanza di attenzione per l’altro manifestata da certi giocatori.
La stessa presenza della cronopioggia ha lo scopo, accelerando la decadenza delle strutture, di mettere più facilmente in risalto i risultati dell’incuria e dell’indifferenza. Tornare in una zona dopo molto tempo può avere un effetto opposto a quello generato dalla connessione alla rete chirale: le strutture che avevamo visto comparire pian piano e che avevano cambiato la nostra percezione dell’ambiente sono spesso lasciate a loro stesse, arrugginite e non più o a malapena funzionanti.
Insomma, pur nella positività di fondo dell’opera, che indirizza il giocatore verso interazioni collaborative, Death Stranding lascia spazio anche agli aspetti non necessariamente benefici della condivisione del mondo di gioco.

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Allo stesso modo il concetto di connessione è presentato anche nei suoi aspetti più alienanti: Sam, del resto, è un individuo che soffre di aptofobia, la repulsione per il contatto fisico, che interagisce per gran parte del tempo con degli ologrammi, mentre la principale forma di espressione di approvazione/affetto (anche tra giocatori) è rappresentata dagli onnipresenti “like”. Ma l’approfondimento di questi aspetti è meglio rimandarlo a un articolo specifico.

Attraverso le sue meccaniche e le interazioni tra giocatori Death Stranding ricrea un piccolo microcosmo di una società, attraverso la fatica e la solitudine ci ricorda l’importanza della collaborazione, come solo un videogioco sa e può fare.
Il gioco, ricordiamo, è identificato come immancabile fondamento di qualsiasi cultura nel saggio Homo Ludens di Johan Huizinga, che non certo a caso ha ispirato la mascotte che fa da logo al nuovo studio di Kojima.
Non a caso in Death Stranding viene suggerito che l’Homo Ludens, colui che gioca, possa rappresentare la salvezza del mondo. Attraverso una metaforica azione di gioco, per citare le parole di Heartman, l’Homo Ludens unisce le persone creando cultura, dando forma al mondo che le circonda. Noi, insomma, interagiamo con gli altri e determiniamo il futuro.
Death Stranding è un’opera preziosa perché ci ricorda che il domani è nelle nostre mani, nel bene e nel male, e che si può costruire un mondo migliore, insieme.

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