Devil May Cry 5: La rinascita

Un ritorno in grande stile per una saga storica.

Luca “Master Hayabusa” Sapora
Frequenza Critica
11 min readSep 24, 2019

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Undici anni sono davvero tanti. Difficile dire come mi sarei immaginato se mi avessero fatto la classica domanda “dove ti vedi tra undici anni?”, ma quel che è certo è che all’epoca, con la mia bella copia del quarto capitolo tra le mani, mai avrei pensato di dover aspettare tanto per Devil May Cry 5. Ripensandoci era davvero un bel periodo per gli amanti degli action.

Solo nel 2008 potemmo mettere le mani su Devil May Cry 4 e Ninja Gaiden 2, i nuovi capitoli delle due saghe action per eccellenza nella generazione precedente, mentre poco meno di due anni dopo il buon vecchio Hideki Kamiya (director del primo indimenticabile DMC), di quella Platinum Games allora quasi neo-nata dalle ceneri dei Clover Studios, avrebbe dato la luce al mitico Bayonetta.

Poi il buio. Tra capitoli poco riusciti, tentativi fallimentari di reboot e un generale scarso interesse del mercato, il genere sembrava sostanzialmente morente, se non per l’ultimo baluardo rappresentato dalla suddetta Platinum Games.
In un mercato sempre più indirizzato verso l’open world e l’inserimento di elementi adventure nella stragrande maggioranza dei titoli, sembra ci sia sempre meno spazio per esperienze puramente action, lineari, fortemente incentrate sulla rigiocabilità e sulla progressiva padronanza di un sistema di combattimento complesso e stratificato. È proprio in questo contesto, però, che Capcom ha tirato fuori dal cilindro Devil May Cry 5.

Tradizione e modernità

Devil May Cry 5 portava sulle spalle non solo il peso di una serie ma di un intero genere in declino, tanto che Itsuno stesso dichiarò di voler dimostrare che giochi simili avessero ancora un posto nel mercato.
Per fare ciò la sfida più grande era senza dubbio riuscire a rendere il titolo più appetibile per il mercato moderno, senza con questo andare a scontentare la “fanbase hardcore”, estremamente refrattaria a cambiamenti drastici. Il cambiamento più evidente riguarda chiaramente la direzione artistica: con l’adozione del RE Engine non è stato fatto solo un salto tecnologico, ma una vera e propria scelta stilistica che ha comportato il passaggio dal look molto “anime-like”, classico della serie, a un’estetica più “realistica” e dark, specie se confrontata alla sfarzosità di Fortuna nel capitolo precedente.

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A questo rinnovamento dell’estetica corrisponde anche un certo cambio di tono nella narrativa, messo in chiaro sin da subito con una sequenza iniziale che utilizza il classico espediente dell’incipit in medias res per mostrarci un Dante più in difficoltà che mai nello scontro con il nuovo misterioso Re dei demoni, Urizen.

Un inizio piuttosto “disempowering” decisamente atipico per la serie, riflesso anche nel gameplay tramite una boss fight insuperabile, e sebbene andando avanti non manchi affatto lo spirito over the top e sborone, oltre che diversi momenti comici, questo incipit inusuale illustra perfettamente la volontà di dare un tono a tratti leggermente più serioso del solito alla narrazione.
Proprio nella narrazione, eppure, Devil May Cry 5 è la quintessenza del fanservice (fatto bene). Una vera e propria lettera d’amore alla serie, che recupera elementi iconici dai capitoli più amati e li mescola sapientemente in una storia che, seppure piuttosto prevedibile, intrattiene e riesce anche a regalare diversi momenti da brividi a chiunque segua la serie da anni.

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Per i fan della serie non mancheranno le vecchie conoscenze.

And it grew both day and night,
Till it bore an apple bright.

Da un punto di vista strutturale Devil May Cry 5 si presenta come un action del tutto classico, con una campagna composta da 20 missioni piuttosto lineari da affrontare di volta in volta con un personaggio predefinito (fatto salvo per qualche specifica missione).
Questa scelta, criticata da chi avrebbe voluto poter scegliere che personaggio utilizzare in ogni missione, è secondo me funzionale a risolvere uno dei problemi che affliggevano Devil May Cry 4, in cui la seconda parte del gioco consisteva nel ripercorrere con Dante le stesse missioni già affrontate con Nero.
Il risultato era, ovviamente per limiti di tempo e/o budget, che il giocatore si ritrovava ad affrontare con Dante missioni che non erano specificamente pensate per il suo moveset, con risultati altalenanti. Al contrario, in Devil May Cry 5 ogni missione è pensata per il relativo personaggio, con un encounter design sempre azzeccato e bilanciato.

Le missioni, come detto, si caratterizzano per un level design piuttosto lineare con al più qualche deviazione opzionale o, in alcuni casi, un paio di percorsi differenti con specifici encounter e ostacoli ambientali che convergono poi in uno stesso punto. La scelta di rendere opzionale qualsiasi cosa che non siano i combattimenti serve principalmente a rendere più scorrevoli le run successive alla prima, punto cardine del genere, senza obbligare il giocatore a sequenze che rischierebbero di diventare presto stantie. Per lo più l’obiettivo è stato raggiunto, il pacing resta sempre alto e il focus è tutto sul combattimento, ma non manca qualche livello in cui si fa un po’ sentire la sensazione di star attraversando delle vere e proprie sequenze di corridoi e arene.
Anche perché laddove viene a mancare la “coerenza spaziale” di una Mallet Island (DMC) o di una Temen-ni-gru (DMC3), location uniche in cui si svolgeva l’intero gioco consentendo un “backtracking” dosato e la sensazione di trovarsi in una struttura “reale” dotata di una sua geografia e coerenza, la progressione in location non connesse non viene sfruttata per offrire quella varietà estetica presente ad esempio in DMC4, con una seconda metà della campagna che si caratterizza invece per livelli un po’ troppo simili tra loro.

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Spero vi piaccia questo panorama, perché lo vedrete parecchio.

Stile al cubo

Ma arriviamo al nocciolo della questione, perché tutti sanno che un Devil May Cry, anzi per meglio dire un action di questo tipo, vive e muore del suo sistema di combattimento.
Ed è qui che si giocava principalmente la partita tra l’esigenza di allargare la platea e il desiderio di regalare un DMC degno di questo nome ai fan, in un gioco di bilanciamento tutt’altro che scontato. D’altra parte l’approccio della serie a questa problematica è sempre stato particolare: laddove un God of War per esempio è molto facile da prendere in mano e altrettanto semplice da padroneggiare, mentre un Ninja Gaiden richiede già “all’ingresso” un impegno non indifferente per poi consentire ai veterani di raggiungere i livelli più alti, DMC ha sempre adottato la classica filosofia del “easy to learn, hard to master”, ovvero una certa accessibilità di base ma un combat system potenzialmente profondo e stratificato come nessun altro action.

La strategia di Itsuno e i suoi per Devil May Cry 5 è quindi stata semplice: mantenere praticamente intatte le potenzialità del combat system, abbassando ulteriormente la barriera d’ingresso grazie all’ammorbidimento di alcune meccaniche. È in questo senso che vanno inquadrati ribilanciamenti come quello fatto a Royal Guard (lo stile di Dante deputato ai “parry”) o all’Exceed di Nero (la possibilità di “caricare” la spada premendo il tasto apposito in concomitanza con ogni colpo), entrambe meccaniche dal timing piuttosto ristretto che in questa quinta incarnazione danno un margine leggermente più ampio rispetto al passato.
D’altro canto, a eccezione dell’eliminazione dell’inerzia che in DMC4 consentiva ai giocatori più abili rapidissimi spostamenti, le tecniche di alto livello e la grande libertà di combinazione di mosse sempre più spettacolari e folli sono tutte lì, per la gioia dei fan più dedicati (al riguardo guardate i video di donguri, storico pro gamer di DMC i cui “Combo Mad” sembrano usciti dai migliori Shonen). In ogni caso, a parte queste considerazioni generali, è impossibile fare un discorso unitario sul sistema di combattimento di Devil May Cry 5, che offre tre personaggi totalmente diversi tra loro.

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L’immancabile Red Queen, la fidata spada “sgasabile” di Nero.

Partiamo da Nero, il primo personaggio giocabile e in un certo senso il protagonista del gioco. Quando Nero fu introdotto in DMC4 venne criticato da parte della fanbase per via di un moveset che sfigurava ampiamente se confrontato a quello di Dante, oltre che per l’eccessiva centralità del Devil Bringer, il suo braccio demoniaco, che consentiva prese altamente spettacolari ma piuttosto lontane dallo spirito della serie, in cui tendenzialmente la spettacolarità va costruita tramite combinazioni non immediate.
La brillante idea del team è stata quindi di risolvere entrambi i problemi in un colpo solo, eliminando il braccio demoniaco di Nero per sostituirlo con i “Devil Breaker”, braccia meccaniche intercambiabili dotate di vari effetti.
Pur restando un personaggio decisamente più accessibile di Dante, in questo modo Nero ha guadagnato tutto un altro strato di profondità, grazie alle tante possibilità offerte da un pool di Devil Breaker altamente variegato che va dall’utilissimo Gerbera, perfetto per aumentare la mobilità e offrire una sorta di equivalente del Trickster, allo spettacolare Punchline che consente a Nero di surfare su un missile.

Insomma, le possibilità sono davvero tante e, complice anche un leggero ampliamento di base al moveset, Nero sembra più che mai un personaggio completo e dotato di una sua specificità.

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Dr.Faust in tutto il suo splendore.

La vera star dello show è però sempre lui: Dante. La base di Dante era decisamente più solida di quella di Nero, visto che l’aggiunta dello style switching in DMC4 lo aveva già reso il personaggio a mani basse più complesso di qualsiasi action. In questo caso ci troviamo quindi di fronte ad una versione rifinita dello stesso paradigma, con i quattro stili (Darkslayer non c’è più) selezionabili a piacimento tramite D-Pad, un set di armi esteso e migliorato e anche tante novità che preferisco non spoilerarvi.
L’arsenale è il migliore e più vario di sempre: Balrog rappresenta probabilmente la miglior versione delle Devil Arm alla Beowulf (DMC3), dotata di una doppia modalità (pugni-calci) con relativo moveset, ovviamente switchabile in ogni momento, mentre la Cavaliere…beh, si combatte con una moto, cavalcandola e impennando sui nemici o utilizzando le due metà come armi, c’è davvero altro da dire?

Per non citare il Dr.Faust, un cappello-arma da fuoco che spara orb rosse e addobba i nemici con identici stilosissimi cappelli. La novità più importante è però rappresentata dalla possibilità di personalizzare il loadout e decidere quindi il numero di armi da portare e l’ordine delle stesse, aggiungendo un elemento di pianificazione assente nel 4 e consentendo di prepararsi gli switch delle armi in base a specifiche combo.

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Le esecuzioni di V sanno essere alquanto soddisfacenti.

Infine la novità più attesa: V.
V si presenta da subito come un personaggio assolutamente atipico per la serie e per il genere in toto: non combatte in prima persona tramite armi, bensì dalla distanza tramite evocazioni, dovendo solo dare il colpo finale col suo fidato bastone.

Evocazioni che si dà il caso siano i cari vecchi Shadow, Griffon e Nightmare dal primo DMC, col primo che fa le veci degli attacchi corpo a corpo, il secondo delle armi da fuoco (a proposito, consigliatissimo modificare il layout dei tasti per mettere Griffon su un dorsale, consentendo un più agevole utilizzo di entrambi i minion) e il terzo da Devil Trigger.
La vulnerabilità di V in caso di morte temporanea dei minion e la necessità di dare il colpo di grazia ai nemici rendono ad alti livelli il tutto un gioco di posizionamento, richiedendo al giocatore di danzare in equilibrio costante tra le distanze, tenendo al contempo alta la fondamentale riserva di DT tramite il fidato libro di poesie.

È sicuramente una ventata di aria fresca nel genere, ma forse anche per questo si presta a più critiche rispetto agli altri personaggi, che hanno avuto due o più incarnazioni per perfezionarsi. Innanzitutto perché è il personaggio col moveset più limitato e dotato di minor profondità, oltre che di alcuni problemi di input dati dall’IA non perfetta dei minion, ma anche perché è a mani basse il più “user friendly” e, quanto meno alla difficoltà più basse, si finisce con il prendere rank altissimi anche senza sapere bene cosa si sta facendo. Resta un’aggiunta gradita e un’idea nuova assolutamente da premiare, ma non nego che sia il personaggio che trovo meno stimolante da giocare e quello che credo richieda più lavoro in futuro, se dovesse essere ripreso.

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Lucifer ci mancherà, ma è stata degnamente sostituita.

Perfezionismo maniacale

Se c’è una cosa certa con giochi di questo tipo è che la profondità del combat system è tale da non consentire di comprenderlo e padroneggiarlo in una singola run, e in questo DMC5 non fa certo eccezione, anzi. Nonostante la fondamentale aggiunta di una modalità di allenamento, chiamata “The Void”, che rende possibile sperimentare in tranquillità con i vari personaggi, il vero banco di prova per qualsiasi appassionato è dato dal rigiocare il titolo a difficoltà sempre maggiori (in questo caso, come nei due DMC precedenti, sono presenti ben 6 livelli di difficoltà), inseguendo valutazioni sempre più alte.
In questo senso il bilanciamento del sistema di ranking è sempre stato un elemento fondamentale per incentivare la rigiocabilità e il miglioramento costante del giocatore, ma purtroppo in questo ambito non si può dire che DMC5 sia privo di difetti.
Il nuovo sistema di ranking si distanzia non poco dai precedenti nella serie, abbandonando del tutto i parametri di tempo e orb raccolti e basandosi solo su un fattore: lo stile. A questa modifica tutto sommato condivisibile se ne aggiunge un’altra ben più controversa: il rank di un capitolo non dipende più da una somma dei rank dei singoli scontri, ma dalla media di questi.
Il grosso problema è che, banalmente, in questo modo determinati scontri, specialmente quelli con un numero ridotto di nemici non particolarmente resistenti, finiscono solo con l’abbassare la media e spingono il giocatore a evitarli, cosa che va totalmente in contrasto con la filosofia della serie.
In aggiunta a questo il ranking è probabilmente il punto in cui la voglia di allargare la platea si fa sentire di più, con le difficoltà di base (già di per sé molto più facili dei precedenti DMC) che praticamente regalano S come se fosse niente. Fortunatamente passando ai livelli di difficoltà più elevati la musica cambia, ma certe criticità come il parametro della media permangono e rendono questo punto uno dei più controversi del titolo, purtroppo.

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Il ritorno del Re

Devil May Cry 5 è letteralmente un sogno che si avvera per gli appassionati di action, un titolo che con il suo combat system sopraffino saprà tenerli incollati per decine se non centinaia di ore e che si candida prepotentemente tra i migliori capitoli della serie.
Nonostante alcune problematiche più o meno rilevanti Capcom è riuscita nel non facile intento di riportare in vita una delle sue serie storiche, dosando sapientemente concessioni all’accessibilità e innovazioni, ma restando fedele alla vera anima delle serie lì dove conta.
Un vero e proprio ritorno in grande stile che con oltre due milioni di copie vendute e l’entusiasmo dei fan storici ha saputo far felici quasi tutti, riportando il Re degli action dove merita.
Sarà banale, ma è proprio il caso di dirlo…

Jackpot!

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