Final Fantasy VI — I 25 anni di un capolavoro

Alla riscoperta di un titolo che ha segnato la storia.

Luigi "abyssent" Peccerillo
Frequenza Critica
10 min readSep 3, 2019

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Venticinque anni fa, nel 1994, gli Oasis debuttavano con Definitely Maybe, i Nirvana pubblicavano MTV Unplugged in New York dopo la morte di Cobain e i Nine Inch Nails con The Downward Spiral segnavano per sempre la musica degli anni novanta; al cinema usciva Pulp Fiction di Tarantino e Il seme della Follia di Carpenter. Sempre più spesso, nelle case delle persone, oltre ai videoregistratori e ai lettori CD, si potevano trovare degli aggeggi squadrati e grigi sotto i televisori. Da circa un decennio, questi apparecchi permettevano di accedere dal proprio salotto a una dimensione alternativa e digitale: il videogioco. Nonostante la varietà dell’intrattenimento, mancava qualcosa che desse al videogioco una spinta per stanarlo dalla dimensione ludica, qualcosa che gli permettesse di far provare al giocatore emozioni complesse e ad ampio raggio, come quelle suscitate dalle opere citate in apertura di questo articolo. Non solo divertimento e appagamento per aver superato una sfida, ma anche gioia, amore, tristezza, disperazione. Quel qualcosa arrivò sul Super Nintendo Entertainment System nel 1994. Era Final Fantasy VI.

Un po’ di storia

Il primo capitolo della saga di Final Fantasy, ideata da Hironobu Sakaguchi e pubblicata da SquareSoft, esordì nel 1987 sul Nintendo Entertainment System; il gioco traeva ispirazione da Dragon Quest, che nel 1985 gettò le basi del genere JRPG. La SquareSoft non navigava in buone acque e Final Fantasy fu una scommessa che risultò vincente, salvando di fatto l’azienda dalla bancarotta. La grande svolta per la serie arrivò nel 1994 quando uscì Final Fantasy VI; Sakaguchi non partecipò attivamente al progetto, sì ritagliò un ruolo da produttore e supervisore, e diede le redini dello sviluppo a Yoshinori Kitase e Hiroyuki Ito. Il design dei personaggi venne curato da Yoshitaka Amano e la colonna sonora composta da Nobuo Uematsu. Conosciuto in Nord America con il nome di Final Fantasy III per questioni di localizzazione tipiche di quei tempi, Final Fantasy VI si impose come il primo colossal della storia dei videogiochi.

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Il team che lavorò a Final Fantasy VI

Cinema a 16 Bit

Oggi siamo abituati ad accostare il cinema al videogioco; il matrimonio tra i due medium si è consolidato nel corso del tempo, tanto che la contaminazione dell’uno con l’altro è quasi imprescindibile. Se il videogioco è l’allievo e il cinema il maestro, in alcuni casi possiamo addirittura dire che il primo ha superato il secondo. Uncharted 4 è il blockbuster che Hollywood si sogna e The Last of Us non avrebbe sfigurato nell’età d’oro del cinema di genere. Ma nel 1994 non c’era niente di tutto questo, era impossibile pensare che degli sprite a 16 bit potessero dar vita a situazioni degne di un film. Eppure quando all’epoca si inseriva per la prima volta la cartuccia di Final Fantasy VI nel Super Nintendo Entertainment System avveniva qualcosa di diverso, qualcosa di magico.

Dalle casse del televisore a tubo catodico risuonano le note di organo che accompagnano l’immagine di un cielo nuvoloso e oscuro squarciato da fulmini; l’inquadratura scende lentamente verso il basso, fino a che il logo del gioco si stampa sullo schermo. La musica si fa triste e misteriosa, delle scritte iniziano a raccontare gli eventi che hanno plasmato il mondo; poi il rumore di un vento forte interrompe la musica, su un promontorio arrivano due soldati — e un personaggio misterioso — che discutono dell’irruzione in una cittadina nei paraggi. Riparte la musica, l’inquadratura questa volta si sposta alle spalle dei personaggi e li riprende mentre marciano tra la neve, con i titoli di testa che appaiono in sovrimpressione. Penso che all’epoca chiunque abbia visto questa introduzione abbia pensato: “I videogiochi non iniziano in questo modo. I film iniziano così”.

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L’introduzione di Final Fantasy VI

Le ambizioni cinematografiche del progetto risiedevano innanzitutto nel background degli autori: ad esempio Kitase aveva studiato sceneggiatura ed era un grande appassionato di cinema. Non era il tempo dei filmati in computer grafica o dei full motion video — che sarebbero arrivati solo con l’avvento dell’era 3D — , quindi spettava ai movimenti di camera più essenziali, all’utilizzo del rallentatore e alle sovrimpressioni di immagini, restituire quella sensazione di cinema. Scene di fuga, di assedi, di distruzione, di ricordi, di comicità, erano valorizzate da una regia eclettica che per la prima volta riusciva quasi autonomamente a veicolare emozioni, proprio come il mezzo cinematografico.

Tutti per uno, uno per tutti

Così come molti giochi di ruolo di quel tempo, i primi capitoli della saga Final Fantasy presentavano uno schema di gioco più o meno fisso: il giocatore raduna un gruppo, va in una città, qualcuno gli dà un obiettivo, poi c’è il dungeon e infine il boss. Un ciclo ripetuto fino alla fine del gioco. Le ambientazioni e le situazioni erano quelle tipiche del genere fantasy-medievale, il gameplay e le storie erano per lo più derivati da questi contesti. L’ambientazione di Final Fantasy VI, un po’ steam-punk, un po’ ottocentesca e da rivoluzione industriale, rappresenta un primo punto di rottura con la tradizione. Alle quest monodimensionali si sostituiscono attività diversificate — ad esempio rubare delle uniformi nemiche per passare inosservati — e la necessità di utilizzare in modo attivo l’intero party, dividendolo in gruppi, controllarli in punti diversi di uno stesso dungeon e risolvere enigmi ambientali per permettere ad entrambi i gruppi di proseguire.

È nello storytelling e nei suoi personaggi che però Final Fantasy VI risplende davvero. Quando si conosce per la prima volta Locke o Edgar, due dei quattordici — avete letto bene, quattordici — personaggi giocabili, il giocatore si trova di fronte a due personalità da subito ben definite da una manciata di righe di testo e da animazioni che riuscivano a rendere vivi dei semplici sprite bidimensionali; molto più avanti nel gioco, prestando di nuovo attenzione a quei due personaggi, ci si accorge di quanto siano cambiati ma anche di come straordinariamente non abbiano tradito il modo in cui si sono presentati al giocatore. Un discorso analogo è possibile farlo con gli altri personaggi (soltanto tre di loro sono opzionali e marginali), le cui storie vanno a formare un intreccio di sottotrame che trovano nel personaggio di Terra il loro punto di raccordo. Final Fantasy VI è la storia di tutti e di nessuno: ogni personaggio è lì per una valida ragione, ma nessuno ha più diritto di un altro a starci. Se all’inizio il giocatore è invogliato a pensare che Terra sia la protagonista del gioco, andando avanti lo storytelling riesce nel compito di elevare al ruolo di protagonista gli altri personaggi. Non solo la narrazione, ma anche il gameplay fa risaltare questa sensazione. Ogni personaggio ha delle caratteristiche uniche in combattimento, nonostante tramite gli Esper sia possibile far apprendere ad ognuno le stesse magie; ci saranno dei momenti in cui il gioco imporrà al giocatore quale personaggio utilizzare e ci saranno situazioni in cui andranno utilizzati tutti i personaggi.

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Terra, Celes, Setzer, Sabin e Edgar a bordo del Falcon

Un capolavoro nel capolavoro

Il momento in cui Final Fantasy VI rompe il muro del capolavoro e si proietta nell’eternità è la scena dell’opera. Se Celes e Locke nel corso dell’intera storia non arriveranno mai a dichiarare apertamente il loro amore — mascherato da quel “Ti proteggerò io” che Locke pronuncia quando incontra per la prima volta Celes — è nella finzione di un’opera teatrale, indossando i panni di personaggi fittizi, che possono dar voce ai loro sentimenti. La storia messa in scena sul palco si sovrappone all’arco narrativo dei due personaggi, l’opera d’arte è mezzo di elevazione spirituale, strumento di indagine interiore per arrivare a capire se stessi (Celes, soldato perfetto dell’Impero, scopre il suo lato umano e il suo bisogno d’amore). La quarta parete viene rotta, forse non per la prima volta nel mondo dei videogiochi, ma mai — ieri come oggi — in modo così sontuoso ed emozionante. In questo momento trova il massimo apice anche il sodalizio tra immagini e musica, portato avanti dal genio di Nobuo Uematsu. Il compositore scrisse l’intera partitura e mise in musica le immagini che Sakaguchi aveva in testa. Il risultato è la famosa Aria di Mezzo Carattere, composizione commovente e immortale, riproposta in seguito con una traccia vocale, tradotta anche in italiano, ed eseguita dalle orchestre di tutto il mondo.

“Ti ringrazio, caro bene
Amore mio, vita mia
Al grave doler, al buio timore
Che il cuore mi turbò
Dolcemente, con amore
Hai risposto al mio gridare
Per sempre ognor, per sempre ognor
Qui a me, t’attenderò”

(Una parte del testo italiano di Aria di Mezzo Carattere)

In generale il lavoro di Uematsu per la colonna sonora di Final Fantasy VI rappresenta un capolavoro nel capolavoro. Lo stesso compositore si disse talmente soddisfatto del risultato che avrebbe potuto anche smettere di scrivere musica per i videogiochi (fortunatamente non lo fece). All’epoca la musica dei videogiochi, così come i motori grafici, doveva sottostare alle immense limitazioni tecniche delle console. La scheda audio dello SNES non permetteva ampi spazi di manovra, il limite era quello di suoni a 16 Bit; ciò nonostante il compositore nipponico torchia lo strumento e da vita a brani eccezionali, che spaziano tra generi diversi (il tema musicale di Shadow sembra una composizione di Morricone per un film di Sergio Leone) e che presentano una complessità inimmaginabile. Il brano che accompagna la battaglia finale, Dancing Mad, è una composizione d’organo costituita da 4 movimenti diversi. Siamo di fronte a una delle più fantastiche e complesse tracce della musica videoludica e non solo.

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Una scena dell’opera teatrale

Shock emotivo

La capacità di spiazzare il giocatore è un altro aspetto che rende Final Fantasy VI incredibile anche venticinque anni dopo. Nelle storie d’avventura, dove l’eroe deve salvare la principessa o il mondo intero, l’esito è il più delle volte scontato. Nei videogiochi le vicende si concludono per lo più con un trionfo — non senza un prezzo da pagare —prima di tutto per dare un senso di compimento allo sforzo del giocatore. Quando a circa la metà di Final Fantasy VI Kefka distrugge il mondo intero, il giocatore va incontro ad un game over metaforico che non aveva previsto. Gli eroi hanno fallito, il nemico ha assunto la forma e i poteri di una divinità, ha condannato il mondo intero alla morte e alla miseria. Si apre una nuova fase del gioco, che prende il nome di World of Ruin (contrapposto al precedente World of Balance), nella quale il nostro gruppo è disperso, il mondo è mutato morfologicamente e Kefka ha instaurato il suo regno del caos e del terrore. Nonostante Kefka soccomberà nella battaglia finale, la condizione in cui versa il mondo non muterà, le milioni di vite spezzate non ritorneranno. Non c’è un Endgame ristoratore, qualsiasi cosa farà il giocatore non cancellerà ciò che è successo.

Prima ancora che Final Fantasy VII facesse conoscere a un mondo di giovani giocatori la tristezza per la morte permanente di un personaggio giocante, Final Fantasy VI già elevava questa disperazione sia a livello macroscopico (il suddetto World of Ruin) sia nel presentare i singoli personaggi dopo l’apocalisse scatenata da Kefka. La scena più struggente del gioco è senza dubbio quella che vede protagonista Celes, ormai senza speranza in un mondo distrutto, per aver perso tutti, soprattutto Locke. Se non si riesce a nutrire velocemente Cid con dei pesci, questo morirà e Celes deciderà di farla finita. Salirà su un promontorio e sulle note dell’Aria di Mezzo Carattere si getterà nel vuoto, lasciando indietro le sue lacrime che, sospese nel vuoto, brilleranno. Una scena magistrale che racchiude tutta la potenza di Final Fantasy VI: narrazione, regia e musica.

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Celes si getta dal promontorio

Ridi pagliaccio

Kefka Palazzo è forse l’elemento più shockante del gioco. Il cancelliere imperiale, un pagliaccio simile al Joker di Batman, sin dalla sua apparizione appare vuoto e spietato: si impunta su questioni frivole con i suoi sottoposti (C’è della sabbia sui miei dannati stivali!) e non si fa problemi ad avvelenare una città intera. Anche dopo aver assunto il ruolo di antagonista principale, la sua mancanza di intenti continua a spiazzare il giocatore. Di solito i nemici agiscono secondo dei principi, per quanto spregevoli possano essere. Kefka è invece l’incarnazione del male puro, quello che non ha una necessità di esistere, ma esiste e basta. Assunta la forma divina, stermina per puro gusto, perché così deve essere, per puro meccanicismo. Ci ricorda della vacuità dell’esistenza, della nullità dell’uomo, di come la distruzione e la morte siano scolpite indelebilmente nell’universo. L’apocalisse scatenata da Kefka fa disperdere il gruppo creato dal giocatore, e getta i personaggi nella disperazione e nell’arrendevolezza. Da eroi si trasformano in persone qualsiasi e tali resteranno se il giocatore non deciderà di ritrovarli. Sì, perché da quel punto del gioco in poi solo alcuni personaggi si riotterranno automaticamente e saranno necessari per terminare l’avventura, gli altri andranno cercati. Oggi ci sono innumerevoli discussioni sull’Open World, sul come le mappe enormi e riempite di segnalini siano inutili, di come appesantiscano l’esperienza di gioco e mettano confusione della testa del giocatore. Nel 1994 Final Fantasy VI aveva già una parziale soluzione a questi problemi: il giocatore poteva esplorare il mondo per ritrovare gli amici sperduti e scoprire di più sul loro passato. Storytelling e gameplay si legavano assieme in modi che ancora oggi sono rari da vedere.

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Kefka Palazzo, artwork di Yoshitaka Amano

Cala il sipario

Nell’epoca delle sale giochi, dei cabinati e dei gettoni, delle prime console casalinghe e dei primi fuochi di console war tra Nintendo e SEGA, nell’epoca in cui il videogioco si apprestava a diventare industria ed era pronto a sperimentare nuove forme di intrattenimento, Final Fantasy VI prese il videogioco per mano e lo accompagnò verso l’età adulta.

Venticinque anni dopo non possiamo che dirgli ancora grazie.

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Luigi "abyssent" Peccerillo
Frequenza Critica

Nato nell’agglomerato urbano di Neo-Caserta, passa il suo tempo in un tumulo digitale tra videogiochi, film vecchi e dischi tristi.