Il Giappone di Nioh è reale ed esiste da sempre

Da dove arrivano gli Yokai messi in campo da Team Ninja?

Diego “Syd” Cinelli
Frequenza Critica
12 min readApr 9, 2020

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Il protagonista di Nioh 2 mostra la sua doppia natura di essere metà uomo e metà Yokai.

Attenzione: nell’articolo sono presenti alcuni spoiler della trama di Nioh 2.

Quando, in Giappone, la città che ora conosciamo come Kyoto era capitale e veniva chiamata Heian-kyō, si riuniva sotto il termine oni una lunga serie di creature strambe — e spesso maligne — dalle forme più disparate. Poteva capitare, se si aveva abbastanza sfortuna, di imbattersi in una hyakki yagyō, “la parata notturna dei cento oni”, che a quanto pare avevano scelto le vie e i vicoli della capitale per le loro scorribande. Va da sé che questo evento era alquanto nefasto, tanto che uno dei compiti che spettavano ai più importanti praticanti di onmyōdō (un’arte complessa, che mischiava geomanzia e divinazione, seguendo i principi di Yin e Yang) della città era proprio quello di prevedere quando queste creature sarebbero arrivate, permettendo ai cittadini di mettersi al sicuro.

Sono passati secoli da allora, ma queste creature non hanno mai davvero abbandonato la cultura popolare del Giappone. Col tempo hanno trovato però un nuovo nome, mentre oni assumeva a poco a poco il significato odierno di “demone”. Il processo, come spesso accade quando si parla di linguaggio, è stato lento e graduale ma possiamo dire che, a partire dal periodo Edo, si vede comparire con frequenza crescente il termine Yokai, usato per indicare i più disparati fenomeni che andavano al di là delle capacità di comprensione dell’uomo. Questo termine, al giorno d’oggi, è tutt’altro che sconosciuto, anche al mondo dei videogiochi. Una delle sue ultime comparse è nella serie Nioh, sviluppata da Team Ninja (e oggetto di un altro approfondimento qui su Frequenza Critica), dove gli Yokai giocano un ruolo fondamentale (principalmente quello degli antagonisti). I due giochi sono ambientati, non a caso, in un Giappone a un passo dall’entrare, seguendo il ritmo di miriadi di spade e cannoni, appunto nel periodo Edo (1600–1868).

La terra di cui ha parlato Nioh, e di cui continua a parlare anche con il secondo capitolo (inserito il mese scorso nel catalogo di PlayStation 4), esiste davvero ed esiste da secoli. È un racconto variopinto, trasposto un tempo sulle pergamene e oggi nei fumetti, con conseguenti trasposizioni televisive. Dietro uno schermo è rimasto, come intrappolato, per scivolare tra i confini interattivi di molti videogiochi. Dal momento che è difficile muoversi senza una bussola in un mondo così vasto, mi sono affidato a The Book of Yokai, scritto da Michael Foster, professore di Lingua e Cultura dell’est asiatico presso l’università di Davis, California.

Come spesso accade nella cultura popolare, una parte importante della storia degli Yokai è stata tramandata a voce: un brusio ormai lontano, che però, rimbalzando da una generazione all’altra, si è conservato — pur cambiando faccia molte volte. Una fonte molto preziosa di informazioni per chi ha voluto studiare questo mondo è stata, ironicamente, un gioco. Si tratta di un passatempo in voga nell’epoca Edo, conosciuto come hyaku-monogatari: un certo numero di persone si raccoglievano in una stanza e accendevano cento candele. Uno dei presenti raccontava una storia di terrore, o magari anche solo un aneddoto riguardante Yokai o altre creature sovrannaturali; al termine di questo, spegneva una candela. Una volta estinta l’ultima fiamma si diceva che qualcosa di strano o spaventoso sarebbe di certo accaduto.

Una storica illustrazione di una delle “processioni notturne dei cento oni”.
La hyakkiyagyo secondo Kawanabe Kyōsai (fonte: wikipedia).

Poco importa se si siano mai scatenati eventi bizzarri, al termine di questi giochi. Quello che a noi interessa è il fatto che queste storie siano state, a più riprese, imbrigliate su carta. Il supporto cartaceo, se così vogliamo chiamarlo, era già stato raggiunto dagli Yokai nel corso dell’epoca precedente, il periodo Muromachi: agli artisti di quel tempo si devono numerose emaki (pergamene illustrate) che ritraggono le creature più bizzarre, magari raccolte insieme in buffe hyakkiyagyo. Racconto e illustrazione si abbracciarono poco più tardi, nel 1712, quando un medico di Osaka, Terajima Ryōan, pubblicò i 105 volumi della Wakan Sansai Zue, dove gli Yokai si trovano descritti a fianco delle creature comuni.

A questo punto è facile pensare che il mondo di questi esseri soprannaturali sia arrivato a noi, grazie al lavoro di appassionati ed accademici, seguendo la direzione tracciata da queste — e numerose altre — opere scritte, ma la verità è ben diversa. Le cose cambiarono con l’arrivo del periodo Meiji (1868–1912), dove una ventata di illuminato raziocinio minacciò di spazzare via ogni traccia di queste credenze popolari; una delle figure simbolo di questo periodo, il filosofo buddista ed educatore Inoue Enryō, arrivò a fondare una nuova disciplina chiamata yōkaigaku, concepita per fornire una spiegazione logica a questi miti che infestavano il Giappone. Inoue, chiamato poi scherzosamente “professor Yokai”, fu davvero il primo, grande avversario che sfidò Kappa, Oni e mostri di ogni genere… al di fuori delle leggende.

A che serve uno Yokai?

Mettiamo un attimo in pausa la storia, perché c’è un altro aspetto di cui vale la pena parlare per capire come mai questa strana fetta di folclore sia riuscita a guadagnarsi un posto nella vita dei giapponesi (e non solo), in barba ai cambiamenti in atto nel “nostro” mondo. Quanto detto finora non spiega infatti per quale motivo, poco alla volta, siano nate queste credenze e si siano diffuse in un’intera nazione.

Al giorno d’oggi siamo abituati ad avere un’abbondanza di nomi per definire o descrivere qualcosa. Termini scientifici, dialettali, soprannomi da addetti ai lavori, conditi da contributi da innumerevoli dizionari ed enciclopedie. Di conseguenza, a noi serve un po’ di sforzo di immaginazione per capire cosa possa voler dire trovarsi di fronte a un qualcosa che non riusciamo a spiegare, che non ci è mai capito di vedere in precedenza e che nessun’altra persona abbia mai catalogato prima di noi. Qualcosa che non esiste su Google, insomma.

Una serie di Tsukomogami, oggetti animati, ritratti in una emaki d’epoca.
Alcuni Tsukomogami, oggetti di uso comune diventati, col tempo, Yokai (fonte: wikipedia)

Quanto accaduto in Giappone non è poi così singolare, a pensarci bene. La necessità di dare una spiegazione ai piccoli misteri quotidiani ha portato un po’ ovunque alla creazione di figure strane, che donavano un significato (spesso colorito) a qualcosa che prima non lo aveva. Questo perché, dal momento in cui una cosa ha un nome e la si può descrivere, è ben più facile pensare anche a come rapportarsi con essa. Se quindi questa rappresenta un problema — come nel caso di molti Yokai — si possono cominciare a proporre soluzioni.

Queste creature si sono andate a incastrare in un sistema variegato e ricco di sfumature, che lo Shintoismo cercò di riunire in una sorta di unico pantheon, senza successo. Questo perché c’erano grandi differenze territoriali nelle definizioni e nelle interpretazioni di simili fenomeni misteriosi, e ben poche cose rimanevano ferme nel tempo; non si trattava solo di distinguere tra creature buone e cattive, anche perché il loro rapporto con l’uomo era parte dell’equazione e, come ogni rapporto che si rispetti, assai mutevole. Prendiamo come esempio i Kami, ovvero le divinità che popolano il mondo naturale secondo la tradizione giapponese: al contrario di quanto ci possa suggerire la nostra concezione di “divino”, questo nome indicava gli spiriti che abitavano luoghi ad oggetti divenuti, per un motivo o per un altro, di particolare rilievo per la comunità.

Non bisogna neppure pensare che tutti i Kami fossero buoni o tutti gli Yokai, al contrario, cattivi; tra i Kami potevano infatti esserci presenze benevole (nigitama) così come malevole (aratama). Proprio in questo punto entravano in gioco gli esseri umani: se è vero che con il termine Yokai venivano indicate le creature viste di cattivo occhio, è altrettanto vero che se una di queste presenze si fosse messa, di punto in bianco, a compiere gesta gradite agli abitanti dell’area, sarebbe potuta diventare un Kami nel giro di qualche tempo, guadagnandosi così degli adoratori e, perché no, magari anche un piccolo tempio. Allo stesso modo, stando all’interpretazione di Yanagita Kunio (considerato il padre degli studi sul folclore giapponese), uno Yokai altro non è che un Kami “degenerato” nel corso del tempo.

Dal debunking all’accettazione dell’ambiguità

Ritorniamo al viaggio del Professor Yokai. Inoue Enryō vagò per il Giappone, dopo aver raccolto segnalazioni di fatti sovrannaturali (o presunti tali), con l’obiettivo di analizzare dal punto di vista scientifico questi fenomeni. Tuttavia la sua operazione di, per usare un termine attuale, debunking lasciò aperto ben più di uno spiraglio per qualcosa che andava oltre l’occhio analitico di un accademico: il professore divise infatti gli eventi analizzati in due categorie, mettendo da una parte i kakai (falsi misteri) e dall’altra gli shinkai (veri misteri); il vero obiettivo di Enryō era, in altre parole, passare al setaccio le credenze popolari al fine di individuare, e affrontare, quel che davvero poteva essere l’ignoto.

Una foto di Inoue Enryō, noto con il soprannome di “dottor Yokai”.
Inoue Enryō, noto con il soprannome di “dottor Yokai”.

Kami e Yokai erano comunque minacciati da una società in profondo cambiamento. Mentre la città di Edo diventava capitale e gli veniva assegnato un nuovo nome, Tokyo, dal governo spingeva perché il paese andasse incontro a una nuova civilizzazione, abbandonando (o riorganizzando in una forma più unitaria) vecchi culti e credenze. Ma per i Kami e gli Yokai c’era ancora speranza: qualche decennio più tardi rispetto ai viaggio di Inoue Enryō, il già menzionato Yanagita Kunio cominciò a lavorare per mettere al sicuro la tradizione del proprio paese. Dette vita al minzokugaku, lo studio della cultura popolare del Giappone, adottando un approccio al folclore al tempo affatto scontato, basato sulla “accettazione dell’ambiguità”: il punto, per Kunio, non era chiedersi se queste storie avessero o meno fondamento. Quello che davvero contava, per lui, era osservare e interpretare i motivi che hanno portato alla creazione di simili tradizioni. In altre parole, dal suo punto di vista, se gli Yokai avevano davvero un ruolo e un peso nella vita delle persone, allora erano degni di essere studiati.

Gli Yokai di Nioh, fra tradizione e licenze poetiche

Questa fetta di cultura popolare, evidentemente, conserva ancora oggi un suo peso. Sebbene non sia certo indispensabile per interpretare alcuni aspetti della vita di tutti i giorni, in cui molte cose un tempo straordinarie sono ormai comuni, perfino banali, il mondo popolato dagli Yokai può sempre rispondere ad alcune necessità. Nel caso di Nioh, gli Yokai sono serviti a mettere in scena il lato più cupo di un periodo storico; il Giappone conteso tra vari signori della guerra qui è letteralmente una terra dove i villaggi sono devastati, abitati solo da mostri e saccheggiatori — e, spesso, le due figure finiscono per coincidere. Le creature soprannaturali della tradizione non fanno che enfatizzare una situazione che ben poco ha di fantastico.

mazuki boss fight
Mezuki, l’inquietante demone guardiano degli inferi, nella sua veste di boss di Nioh 2.

Gli sviluppatori di Team Ninja hanno quindi collocato alcune delle figure più celebri di questo mondo variopinto in maniera strategica, giocando con la tradizione, reinterpretandola secondo le proprie necessità. Questo è chiaro fin da subito, anche e soprattutto nel secondo capitolo della serie; tra i primissimi avversari incontrati ci sono infatti due enormi creature, armate di tutto punto, chiamate Gozuki e Mezuki: secondo la tradizione giapponese, questi due demoni (uno con la testa di toro, l’altro di cavallo) erano i guardiani dell’inferno: portando di fatto l’oltretomba nel nostro mondo, questa coppia di creature comunica al giocatore che quella in cui si appresta a entrare è una terra di morte e di violenza. Non c’è da stupirsi quindi se il primo incontro con Gozuki avviene in un cimitero, mentre il duello con Mezuki si svolge di fronte all’albero gemello di quello della Transizione, un luogo di transito per i defunti nell’ambientazione di Nioh.

In alcuni casi, gli sviluppatori hanno trasposto puntualmente i materiali della tradizione. Un ottimo esempio è rappresentato da uno dei boss del secondo capitolo della serie, Kamaitachi: la versione che si trova in Nioh 2, non si limita a seguire le rappresentazioni tradizionali per quanto riguarda l’aspetto esteriore. Molto spesso legato a sferzate violente di vento, questa creatura viene raffigurata all’interno di mulinelli d’aria, che sono diventati l’attacco caratteristico dello Yokai in questa trasposizione videoludica. Un altro esempio interessante legato alle raffigurazioni riguarda lo Yokai chiamato Ubume. Nell’illustrazione del celebre pittore Toriyama Sekien, a fianco alla figura della madre con il bambino defunto in grembo troviamo i caratteri che rimandano all’equivalente figura tradizionale cinese, kokakuchō, un uccello che è l’incarnazione di una donna morta di parto. La versione di Team Ninja unisce entrambe le figure attraverso gli attacchi: ecco allora che le sue braccia diventano ali piumate e i suoi piedi, all’occorrenza, degli affilati artigli da rapace.

Una Ubume si aggira afflitta tra le risaie.
La Ubume ritratta da Toriyama Sekien (fonte: wikipedia).

Non mancano però delle licenze poetiche: è il caso della Yamanba, la strega delle montagne che, secondo la tradizione, significava morte certa per quanti avessero osato profanare la sua casa, ma che poteva diventare invece un buon auspicio qualora fosse stata lei a far visita all’abitazione di qualcuno. Nioh 2 decide di sfruttare solo il lato più cupo di questo mito, e aggiunge per di più alla sua figura un tocco diabolico, rendendole la faccia assai simile alla maschera Han’nya del teatro Noh, con tanto di corna (assenti invece nelle rappresentazioni tradizionali della Yamanba), che rappresentava un Oni femmina, caratterizzata da un’incredibile gelosia.

Ma non sono solo gli Yokai a colorare il mondo di Nioh: in loro soccorso (si fa per dire) arrivano anche gli Spiriti Guardiani. Un esempio interessante è rappresentato dalla volpe a nove code, che in questo secondo capitolo accompagna la sorella di Oda Nobunaga, Oichi. L’animale, secondo molte leggende, è in grado di prendere le sembianze di giovani e bellissime donne, ma spesso i suoi fini erano tutt'altro che positivi per l’essere umano circuito. Stando alla descrizione fornita in gioco, Oichi era una donna la cui bellezza poteva rapire così tanto un uomo da condurlo in errore; la scelta dello spirito guardiano, di conseguenza, è del tutto appropriata.

Anche i personaggi delle leggende trovano il loro posto in Nioh, creando un’epica a cavallo di più secoli. Lo stesso Abe no Seimei, praticante di onmyōdō che, in Nioh 2, funge da insegnante di arti magiche, ha una storia alle spalle che mischia realtà e finzione: la sua vita è diventata leggenda arricchendosi degli aneddoti più fantasiosi, straordinari e celebrativi. Ma lo stesso protagonista del secondo capitolo della serie è una creatura leggendaria, dopotutto: un Hanyō, unione tra uomo e demone, che in questo caso mostra il ruolo positivo che uno Yokai può avere in una storia. Se il silenzioso Hide fosse davvero esistito, probabilmente a distanza di decenni sarebbe stato adorato come un Kami.

Morte, rinascita e successo

Gli Yokai in Nioh sono stati fondamentali per ricreare e accentuare l’atmosfera di una guerra, ma quelle stesse creature fantastiche sono state quasi spazzate via da un altro grande conflitto, nel secolo scorso. La seconda guerra mondiale, come sappiamo, lasciò un segno indelebile sul Giappone, cambiando per sempre il suo volto: in un paese così martoriato, che ruolo potevano avere gli dèi e i demoni di un tempo che sembrava perduto per sempre? Una risposta importante arrivò dal mangaka Mizuki Shigheru, negli anni ’50. Con la sua serie “Kitaro dei cimiteri” (Hakaba Kitarō, o GeGeGe no Kitarō), l’autore riportò in auge le figure della cultura popolare giapponese, attingendo dal lavoro di Yanagita Kunio. Quelle tradizioni non erano mai state così distanti dal mondo presente: le due epoche erano separate da un muro di macerie, oltre il quale si guardava con una certa nostalgia. Grazie al lavoro di Shigeru, questi ricordi assunsero contorni più chiari e approdarono sui moderni mezzi di comunicazione.

La copertina del primo volume di Kitaro dei cimiteri.
La copertina del primo volume del manga Kitaro dei cimiteri.

In seguito, grazie al lavoro di un altro grande accademico, Komatsu Kazuhiko, gli Yokai tornarono a essere un elemento utile al tempo presente. Attraverso la sua riflessione su una yōkaigaku moderna, il folclore giapponese cessò di essere solo un monumento a un paese che non esisteva più: dal suo punto di vista, gli Yokai potevano essere una lente da utilizzare per osservare e comprendere gli uomini — questi demoni si trovarono quindi a essere strumenti in mano agli antropologi. Nel corso della sua attività, Kazuhiko ha creato un database moderno, esteso e facilmente accessibile che raccoglie materiali testuali e illustrazioni inerenti a questa parte della cultura orientale.

È grazie a questo genere di sforzi che, a partire dagli anni ’80, il mondo di Yokai e Kami finì al centro di una diffusione senza precedenti a livello mediatico. Le apparizioni di queste creature misteriose si fecero numerosissime; non infestavano più le strade in bizzarre processioni, ma si riversavano sulle pagine di fumetti o negli schermi delle televisioni. In qualche modo, la hyakki yagyō era tornata, trovando un nuovo territorio fertile; quella ritratta nei due capitoli di Nioh sarà forse una delle più brutali e macabre viste finora, ma questo non fa che dimostrare che, ora come un tempo, il senso che si dà a uno Yokai o a un Kami può cambiare di villaggio in villaggio, come di studio in studio.

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Diego “Syd” Cinelli
Frequenza Critica

Chiacchieratore seriale, passa buona parte del suo tempo a parlare ad altri della sua passione per i videogiochi.