Il Retrogaming e l’importanza della preservazione del media videoludico

Perché il gaming racconta di noi e merita un posto nella nostra storia.

Paolo "n0l4n" Ferró
Frequenza Critica
13 min readApr 30, 2021

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un Commodore 64

1994, ho 12 anni. Di ritorno da scuola mi fermo in edicola, è uscito il nuovo numero di The Games Machine e non vedo l’ora di immergermi nella lettura e scoprire quali novità usciranno per il mio amato Amiga 500. A casa ho già 3 scatole piene di floppy disk generosamente elargite dall’amico di mio padre che gestisce il videonoleggio all’angolo. La legalità sta nell’angolo ancora dopo, girata di spalle.

La copertina illustra un’astronave persa nello spazio profondo, con alle spalle un’esplosione. Che gioco sarà? Che genere sarà? Come si giocherà? L’immaginazione corre veloce mentre l’occhio esplora il resto della copertina: “L’ultra veloce esperienza futuristica della Bethesda Softworks!” cita la scritta a destra dell’illustrazione. E il mio occhio cade sul riquadro in alto a destra, dice “PC — AMIGA”. Non riesco a fermare un’espressione di disappunto.
Da qualche numero la mia rivista di informazione videoludica preferita ha invertito l’ordine delle due piattaforme di cui si occupa principalmente, come a dire “il PC è più importante!”.

La copertina di The Games Machine, Luglio 1994

E no, non potevo accettarlo. Non avevo e non avrei avuto il PC per molti anni ancora e l’amichetta di casa Commodore era, come si addice al nome stesso, una fidata compagna di giochi alla quale ero affezionato più della maggior parte dei miei compagni di scuola. Sapevo però già da allora che il PC avrebbe preso sempre più piede nelle nostre vite, era una macchina in continua evoluzione, era il futuro inesorabile. Alcuni miei amici già vantavano di possedere computer dalla potenza inimmaginabile per i tempi. Si parlava di SoundBlaster, di grande spazio di archiviazione, di sistemi operativi con una vera interfaccia grafica e facevano capolino, nelle riviste di settore e nei salotti dedicati, le prime immagini di Windows 95, che avrebbe rivoluzionato il nostro modo di vivere l’informatica casalinga, dicevano.

A me, francamente, importava poco. Quello che volevo erano nuove avventure, non nuove tecnologie. Nuovi mondi da salvare, nuovi tesori da scoprire, nuove storie in cui perdermi e da raccontare con entusiasmo ai miei amici. Il genere stesso che più amavo portava il nome di ciò che maggiormente cercavo in un videogame: “Avventure Grafiche”. Uno dei pochi termini “tecnici” che conoscevo da bambino. Letto e subito imparato proprio lì, sulle pagine di The Games Machine e che nella mia mente era legato a doppio filo con la mia Amiga. Chi se ne fregava dei mille floppy disk, dei lunghi tempi di caricamento, del continuo rischio di danneggiamento dei supporti magnetici o di copie fallaci che potevano abbandonarti proprio sul più bello, quello era il prezzo per quell’esperienza meravigliosa e non lo mettevo in discussione.

Alcune dei migliori esponenti nella categoria delle avventure grafiche
Alcune dei migliori giochi della LucasArts

Volevo qualcosa che avesse profondità narrativa, non di campo visivo. Non qualità dell’immagine ma qualità di scrittura. Che sapesse catturarmi e portarmi via dal mondo in cui vivevo, anche solo per qualche minuto. Che mi permettesse di immergermi in un altro universo interattivo e che non mettesse necessariamente alla prova le mie abilità di riflessi e coordinazione, ma che anzi mi accogliesse e mi lasciasse usare la mente in maniera rilassata.

Ricordo quando il mio compagno di classe più benestante mi portò a vedere il suo nuovo computer fiammante che chiamava insistentemente “il 486” detto con la voce fiera di chi ha appena comprato una portaerei, come se io dovessi dedurre chissà quale grandezza da quelle cifre. Ricordo che mi mostrò Doom. Era la prima volta che vedevo Doom con i miei occhi su un vero computer dopo averne letto a riguardo sulle pagine che lasciavo per ultime di TGM, quelle riguardanti il gaming per PC. Non riuscivo a capire cosa stessi guardando. Era veloce, pieno di sangue e di esplosioni, di musica metal e di mostri. Era qualcosa di mai visto prima: rimasi impressionato, lo ammetto. Allo stesso modo in cui rimani impressionato quando ti mostrano una bottiglia di vino da diecimila euro, ma tu sei astemio.

Era il futuro e c’era poco da fare per fermarlo, sarebbe arrivato comunque.

Un po’ come quel nuovo cabinato aggressivamente grosso e arrogante che avevano appena aggiunto alla sala giochi giù all’angolo, tra la pizzeria e l’alimentari (sì, la mia città era piena di angoli, ok?). Si chiamava con un nome strano, una roba con due K, cos’era? Ah sì… Tekken. A malapena riuscivo a leggere il nome là in alto, tra le teste di tutti i ragazzi che si affollavano lì attorno in attesa del loro turno per fare una partita.
Quello che vedevo nello schermo di quel cabinato era rozzo, grossolano, ma era 3D. Un 3D alle prime armi e che non teneva minimamente testa al livello raggiunto dalla grafica 2D di quegli anni, ma non importava: era il futuro e sarebbe arrivato comunque, e con esso le sue innovazioni ma anche tutte le sue restrizioni. Giochi sempre più belli ma sempre più simili, generi, settori, classificazioni, competizioni. Io invece avevo scoperto solo pochi anni prima che il gaming poteva essere altro. Successe quando trovai mio padre intento a giocare a Zack Mc Kracken and the Alien Mindbenders, su quel Commodore 64 le cui cassettine intasavano i cassetti di casa, piene di numeretti scritti sopra a penna, tra un “Notti Magiche” cantata dalla Nannini e una Guerra del Golfo che stava per iniziare.

Zack Mc Kracken and the Alien Mindbenders per Commodore 64
Zack Mc Kracken and the Alien Mindbenders per Commodore 64

Ricordo che per una volta, quella sera, non era intento a far saltare, correre e sparare i personaggi a schermo, ma stava lì a fissarli, pensando a cosa dovesse fare per far proseguire il gioco. Inizialmente pensai che il gioco fosse rotto o avesse dei problemi, ma in realtà era proprio quella l’esperienza: immergersi, immedesimarsi, pensare, capire. Come un buon libro che ti rapisce e ti porta via dalla realtà trascinandoti nel suo mondo, con la differenza che in questo caso, ogni singola pagina della storia dovevi guadagnartela.

Fu lì che imparai ad amare il videogame, quando scoprii che non era solo un mezzo per competere e primeggiare, ma anche per raccontare e interagire con una storia in un modo che non era mai stato possibile fino a quel momento nella storia della nostra specie. Capii che quel mezzo di intrattenimento teneva conto anche di me e di chi, come me, guardava oltre ciò che veniva comunemente offerto e cercava di offrire qualcosa di nuovo, di diverso. E mi fece capire che se c’erano generi di videogiochi come quello, voleva dire che c’era un mercato per essi. Non ero solo.

Ma già all’epoca quando iniziai a realizzare quello che sto scrivendo, questi pensieri risuonavano nella mente come antiquati. L’innovazione era già alle porte, un’intera ondata di nuove tecnologie, piattaforme, console e generazioni videoludiche avrebbero sconvolto il mercato nella seconda metà degli anni ’90 con la forza di un’onda che spazza via tutto ciò che trova sul suo cammino senza curarsene minimamente. La seconda metà della decade cancellò e rese obsoleta nel giro di pochi anni la maggior parte dei giochi che rappresentavano il mio intrattenimento quotidiano, oltre che a un sacco di abbigliamento e musica di dubbio gusto. Dall’oggi al domani era impensabile trovare qualcuno che fornisse assistenza per macchine quali l’Amiga 500, figuriamoci il Commodore 64 o tutto quello che l’aveva preceduto. E sembrava davvero andare bene così a tutti quanti, tanto eravamo estasiati e felici dell’espansione dell’industria dell’intrattenimento videoludico e del suo sempre più veloce affermarsi all’interno di ciò che veniva universalmente riconosciuto come “mainstream”. Lontani erano ormai i tempi in cui “nerd” era considerato un insulto. Era, anzi, la rivalsa di una intera generazione. Il passato era alle spalle.

un’Amiga 500

E che vi devo dire, sarà che essere nostalgico mi è sempre venuto tremendamente naturale, ma mi mancava la mentalità senza limiti che aveva caratterizzato il gaming degli anni passati, sul mio home computer ormai obsoleto, che riusciva a spaziare da uno strategico a un platform a un’avventura grafica senza farsi troppi problemi. Ora invece console di nuova generazione portavano avanti nuove tecnologie sempre più impressionanti ma senza mai perdere d’occhio la commerciabilità di un prodotto. Non si voleva far sfigurare una nuova piattaforma e quindi si osava sempre di meno, creando prodotti che riuscissero a fare appello a un pubblico sempre più ampio, favorendo così l’accessibilità ma diminuendo la creatività. La vita e l’adolescenza nel tempo mi allontanarono dal videogioco, la piega che l’industria riguardante aveva preso non mi piaceva. Ero deluso che venisse data priorità all’aspetto che meno mi interessava del gaming e iniziai a pensare che, in fin dei conti, con l’ascesa al mainstream del settore videoludico, per quelli come me ci sarebbe stato sempre meno spazio.

Negli anni a seguire i miei ricordi del gaming dei primi anni ’90 sarebbero stati solo un simpatico argomento di discussione con gli amici, un “ma ti ricordi di quel gioco…” sporadico, per buttare là un argomento di conversazione, ma lentamente qualcosa iniziò ad accadere. Le risposte divennero sempre meno dei disinteressati “eh sì…” e sempre più degli incuriositi “ehi, mi manca, mi piacerebbe rigiocarlo!” finché un giorno dei primi 2000 un amico mi passò un CD. Era un CD masterizzato con su scritto sgarbatamente, a pennarello “MAME”. Mi disse che era illegale, era pirateria e non avrei in alcun modo dovuto diffonderlo altrimenti chissà cosa sarebbe successo!

Il logo del MAME

Sorrisi, pensando alle mie tre scatole di floppy disk che ancora avevano un posto d’onore in camera mia, sotto a tre dita di polvere. Arrivato a casa misi il CD nel computer e vidi decine, centinaia di titoli da sala giochi tutti lì, pronti per essere giocati, tutti dentro a un singolo Compact Disk. Il primo pensiero non andò alla pirateria. Il primo pensiero andò al giorno in cui, pochi anni prima, la sala giochi a pochi passi da casa mia chiuse per venire rimpiazzata da un triste pseudo-saloon pieno di slot machine. Quel CD non rappresentava l’illegalità, rappresentava il ricordo e il desiderio di ricordare. Per la prima volta nella storia però, stava ritornando il ricordo di un media interattivo e la sua interattività andava preservata.

Quel CD sporco e graffiato era il primo monito del fatto che la preservazione del retrogaming avrebbe preso sempre più piede e che la gente si sarebbe adoperata per mantenerne vivo non solo il ricordo, ma l’interazione stessa che è il fulcro dell’esperienza videoludica. E fu quello il momento in cui mi riavvicinai al gaming, perché capii che per quanto si potesse spingere le masse verso le nuove tecnologie, le nostre radici erano fermamente e inequivocabilmente ancorate in quei “vecchi” giochi e in quelle esperienze che per la prima volta nella nostra storia potevano essere rivissute interagendo allo stesso identico modo in cui interagivamo con quei giochi dieci o venti anni prima. C’è una famosa frase che mi ha sempre colpito, talmente famosa che non ho idea di chi l’abbia detta, che dice “ai tempi del fascismo, non sapevo di vivere ai tempi del fascismo”. È una frase che da tempo mi fa riflettere sulla differenza tra la storia e le persone che vivono un dato momento, intente a portare avanti le proprie vite, i propri problemi personali e a intrattenersi nei modi che più preferiscono. Ed è proprio l’intrattenimento che riesce a raccontare le persone nel proprio contesto storico molto di più di quanto non riesca a fare un libro di storia.

Andate a leggere un romanzo o guardate un film e immediatamente sarete proiettati nel periodo storico in cui l’autore di questi è vissuto o in cui il film è stato realizzato, indipendentemente dall’ambientazione e dal momento storico in cui la storia stessa è basata. Questo perché i valori, i principi, il modo di esprimersi e di parlare, le problematiche sociali esposte e le generali priorità espresse dalla società nel periodo storico in cui viviamo saranno comunque parte dell’opera che creiamo, che lo vogliamo o meno. Queste sensazioni possono essere tratte, come dicevo, da un libro, un film o qualsivoglia altra espressione di un media di intrattenimento, compreso quello che più di tutti è cresciuto assieme a me e che considero come un vecchio amico che ho perso di vista per qualche anno per poi ritrovarlo, cresciuto, sposato e con figli: il videogame.

E noi nati tra gli anni ’70 e gli anni ’90 siamo un po’ così, ancorati a quella concezione di gaming che, accettiamolo, non esiste più a livello commerciale, ma esistiamo noi, ancora vivi e relativamente giovani, figli di una fetta di storia in cui la tecnologia cresceva così velocemente da riuscire a farci sentire vecchi con solo pochi anni di differenza di età.

The Secret of Money Island

C’è profondità dietro alla giusta ispirazione, per quanto sommaria sia la rappresentazione visiva di essa, si potrà sempre guardare oltre a essa e perdersi nell’universo narrativo in cui questa è ambientata. E questo è un principio che vale per molti media, non solo per quello del videogioco. Una bella storia può essere stampata su carta riciclata e di bassa qualità così come può essere realizzata da una troupe televisiva con un bassissimo budget, ma resterà comunque una bella storia. Il caso del videogioco però è sensibilmente più complesso: il videogioco è un media interattivo. Il videogioco richiede interazione e non solo: richiede capacità. Richiede che tu sia all’altezza di esso, ti mette alla prova, sia essa una prova di abilità o di ragionamento. Ricordo lo sketch di un comico inglese che diceva “immaginate se un disco si rifiutasse di suonare finché non gli dimostrate di essere in grado di ballare la sua musica”. E di fatto il gaming è così. I primi videogiochi ci misero alla prova in un epoca in cui nessun altro media lo faceva e noi ne rimanemmo affascinati, alcuni perché volevamo superare loro stessi, altri perché volevamo vedere come continuava il gioco e altri ancora perché, che cacchio, lo hai comprato e ora te lo fai durare che non è che possiamo svaligiare una banca, qua.

Quello che voglio dire, battute a parte, è che ancora oggi, mettendoci alla prova con quel quoziente variabile di difficoltà imposto dai giochi degli anni ‘80-’90, ritornano alla mente quegli anni, se li si è vissuti naturalmente, o in caso contrario si può comunque avere un piccolo estratto della vita di quegli anni vissuta da chi ha programmato quei giochi all’epoca, alla stregua dei valori, principi e toni inavvertitamente imposti dalla propria epoca su di uno scrittore, indipendentemente dalla storia che vuole raccontare.

E questa è una cosa che trovo affascinante: pensare che questi gesti, movimenti e azioni che uso per controllare un dato personaggio in un vecchio videogame siano stati pensati, concepiti e realizzati tutti quegli anni fa da persone che mentre aspettavano che il proprio costosissimo e appena comprato Vic 20 renderizzasse un immagine di 10 pixel, seguivano al telegiornale la caduta del muro di Berlino, per poi passare a una puntata de “I ragazzi della terza C”.

I ragazzi della III C

L’intrattenimento ci racconta come persone, racconta della nostra creatività, i nostri limiti e i modi che abbiamo utilizzato per superarli e raccontare di noi e un media che ci permette di interagire con esso allo stesso esatto modo e secondo gli stessi canoni e limiti imposti dai suoi creatori 30 anni fa merita il giusto posto nella storia della nostra specie, con rispetto per il significato che ricopre e la quantità di informazioni storiche e culturali che mantiene a imperitura memoria al suo interno.

Una pagina di Wikipedia potrà dirvi chi ha realizzato Super Mario Bros. e quanti livelli contiene, ma prendete il controller in mano e avrete in mano l’eterno testamento dell’esperienza intesa dai programmatori nei suoi pregi, nei suoi difetti e nei suoi segreti: tutti elementi che ci rendono umani, cosi come lo sono stati e lo sono i creatori e i programmatori del gioco nel 1985.

Con la differenza, però, che dubito che in Giappone trasmettessero “I ragazzi della terza C”.

Alla luce di tutto questo, oggi, nel 2021, tra una mascherina usata e una live su Twitch, la preservazione videoludica esiste, persiste e combatte le stesse battaglie etiche e legali di quel vecchio CD masterizzato con su scritto MAME, e se io sono qua a parlarne è perché sebbene il futuro sia ancora là davanti che sgomita inesorabile, con i suoi caschetti VR, il suo cloud gaming e l’abbandono del supporto fisico, la preservazione storica del retro gaming è, fortunatamente, un dato di fatto per il quale grandi quantitativi di persone online si danno da fare quotidianamente per darci la possibilità di ritrovare e riprovare i videogiochi della nostra infanzia; fossero anche i più sconosciuti e introvabili, da qualche parte su internet troverai un emulatore e una rom. Illegali, senza licenza? Sì, probabilmente. Ma se non esiste una soluzione ufficiale per rimettere le mani su un gioco di quegli anni, è davvero importante? Se l’alternativa è cedere alle formalità e alla burocrazia e perdere il ricordo di una parte di noi stessi, ne vale davvero la pena?

Non offro risposte, è un discorso affrontato centinaia di volte da persone più competenti di me, ma vi offro un dato di fatto: se sempre più case produttrici ritornano sui loro vecchi titoli, se esistono intere organizzazioni di persone online atte alla preservazione del media videoludico senza alcuno scopo di lucro, significa che altri, come me, ne riconoscono il valore storico e ne valorizzano la preservazione nell’unico modo che si addice al media stesso e compatibilmente con i mezzi messi a disposizione dalla tecnologia contemporanea.

Una fan art del popolare multi emulatore Retroarch
Una fan art del popolare multi emulatore Retroarch

In fin dei conti, checché ne pensi mamma Sony con la sua chiusura dei server di PS3 e PS Vita — annunciata qualche giorno fa e presto riconsiderata — , ci saranno sempre persone che, in barba al fatto che sia legale o meno, vorranno preservare l’accessibilità a quei titoli che sono stati importanti per loro o per i loro cari, come una parte integrante e interattiva della loro vita e che vorranno magari poter riprovare con mano, alla stregua del riaprire il loro romanzo preferito o riguardare un film che significa molto per loro. E non so voi, ma questo semplice dato di fatto ha permesso che io sia ancora qua, appassionato di videogiochi e amante di un media che corre veloce come il vento, ma che ogni tanto riesce ancora a voltarsi e a guardare con rispetto verso il proprio passato.

L’eterno valore della preservazione del media non guarda in faccia a licenze e burocrazia, diventa sempre più importante ogni giorno che passa e sarà un testamento senza precedenti del nostro passaggio su questo pianeta.

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