It Takes Two: la gioia della semplicità

Il terzo tentativo è spesso quello giusto e Hazelight Studios non è stata da meno.

Marco "Thresher3253" Accogli
Frequenza Critica
6 min readJun 7, 2021

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I due protagonisti di It Takes Two in azione

I giocatori di vecchia data come il sottoscritto hanno potuto assistere a una generale evoluzione delle meccaniche di gioco rispetto a quel concetto che oggi definiamo “classico”, iniziata negli anni della generazione PS3/360. Mi riferisco in particolare ad ambiti quali il level design e la progressione delle abilità del personaggio (e per estensione del giocatore): in un mondo dove ci si aspetta di esplorare open world sconfinati, di avere equipaggiamento sempre più potente da sbloccare e risorse a non finire sparse in giro, giocare un livello con un traguardo ben delineato e costruito in modo tale che ogni muro sia posizionato con uno scopo ben preciso sembra un concetto ormai andato perduto da molti team di sviluppo. Non sono più abituato a meccaniche semplici e immediate che oggi definiamo “vecchia scuola” e non riesco a immergermi nel titolo di turno senza che il mio cervello si distragga, ignorando uno scenario magari ben costruito per infilare il naso in ogni angolo cieco in cerca di chissà quale collezionabile.

it takes two gameplay 01

Su questo concetto ruota invece l’esperienza di It Takes Two, raccogliendo a piene mani l’esperienza accumulata con Brothers: A Tale of Two Sons e A Way Out, i due precedenti lavori di Hazelight capitanati da quell’adorabile minchione di Josef Fares. Due titoli che, per quanto interessanti, avevano delle limitazioni dal punto di vista del puro gameplay, risultando a conti fatti poco più che dei walking simulator con delle parti un po’ più movimentate. Non è questo il caso di It Takes Two, che invece adotta una struttura a metà tra un classico gioco di piattaforme alla Super Mario 64 e gli spezzoni adrenalinici di un Uncharted, amalgamati da meccaniche così semplici, ma anche così ben sfruttate che ho finito per restare impressionato dal risultato finale.

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Che carino! Ne prendiamo uno?

Protagonisti di questa storia l’ormai ex coppia di coniugi Cody e May, agli sgoccioli di un traumatico divorzio e tramutati in bamboline rispettivamente di creta e di pezza in seguito a un incantesimo inconsapevolmente lanciato dalla figlia dei due. Come per i due precedenti lavori di Hazelight, anche in questo caso il titolo adotta come tema principale il significato del termine “famiglia” e l’importanza di collaborare insieme per superare gli ostacoli. Nulla di particolarmente innovativo per il genere, ma stilisticamente parlando la storia è capace di intrattenere grazie al cast di personaggi ben scritto e ad alcuni colpi di scena che non mi sarei aspettato da una trama rivolta anche ai più piccini. L’ottima regia dei filmati intervalla con furbizia i livelli veri e propri, approfittando anche delle transizioni da un luogo all’altro per far battibeccare i protagonisti ed espandere le loro personalità, svelandone qualità e più spesso difetti.

it takes two cody e may

L’ambientazione ci vedrà attraversare i dintorni e gli interni dell’abitazione di famiglia, e non è il solito setup da protagonisti miniaturizzati che devono far fronte a un mondo improvvisamente diventato gigantesco: It Takes Two non nasconde il suo lato fiabesco fin da subito, personificando un libro per la terapia di coppia in uno psicoterapeuta che aiuterà — a suo modo — Cody e May a sistemare il loro rapporto prima di avere l’occasione di ritornare umani. Da questa premessa partono i setpiece, animati da situazioni quali scoiattoli guerrafondai, aspirapolveri con la sindrome dell’abbandono, vespe robotizzate e attrezzi da lavoro antropomorfi. Si, esatto.

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Cody (a destra) deve sistemare il giocattolo azionabile da May all’esterno, ed è solo uno dei tanti esempi di cooperazione.

Il folle setup che costituisce l’ambientazione ha permesso a It Takes Two di variare in continuazione l’offerta proposta al giocatore, senza mai complicare inutilmente la formula basilare di un qualsiasi gioco di piattaforme in 3D: il salto, la schivata e il pulsante per l’interazione contestuale è tutto quello che serve per giocare e il level design fa pieno utilizzo di questa semplicità. Partendo da ordinarie fasi platform in cui è necessario saltare senza precipitare nel vuoto (e a volte facendosi assistere da tubi di aspirazione o montacarichi azionati a manovella), l’azione spicca il volo con le numerose situazioni in cui è necessaria una stretta collaborazione tra i due giocatori, i cui schermi sono visibili contemporaneamente nella maggior parte del tempo.

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Un motore ciascuno e via subito a schiantarsi malamente sul fondale.

Che si tratti di coordinarsi per abbattere i nemici nelle sezioni di combattimento, aprirsi la strada creando piattaforme o pilotare barche e altri veicoli, il gioco prende semplici elementi da altri giochi per variare in continuazione quello che ai giocatori viene richiesto di fare. È tutto molto immediato e It Takes Two si rifiuta di piazzare collezionabili, punti esperienza e altre amenità non necessarie ai fini della narrazione e dell’immediato gameplay rendendolo molto più simile a un titolo di vecchia generazione, di quelli in cui l’ingresso in una nuova area ci portava a esplorare ed esaminare in giro solo per il gusto di farlo, e non per riempire una barra di completamento o scovare qualche risorsa.

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Uno dei tanti segmenti che divide la prospettiva in base alle esigenze: in questo caso l’inquadratura fissa laterale per Cody, mentre May attende sul muro a sinistra con l’inquadratura 3D.

Naturalmente, il succo del gameplay vero e proprio vede utilizzare tali meccaniche per poter proseguire nell’avventura, spesso tramite abilità che vengono acquisite solo temporaneamente e che sono in linea con l’ambientazione del livello. Gli enigmi richiedono rapida capacità di analisi e sincronizzazione tra i protagonisti ed è necessario assistersi a vicenda per sopravvivere ai combattimenti; gli schermi si uniscono nel caso di attività i cui controlli sono divisi tra entrambi, mentre in altre occasioni la prospettiva viene incontro alle necessità dettate dal ruolo occupato in quel momento. C’è un’affinità non indifferente che si va a creare tra i due giocatori, non solo durante gli enigmi e gli scontri ma anche nelle numerose occasioni in cui possono intrattenersi in attività di contorno, come esaminare qualche oggetto la cui unica funzione è strappare una risata o far scattare alcune linee di dialogo, per non parlare dei minigiochi piazzati nei livelli. Questi ultimi, gli unici di cui il gioco tiene realmente traccia, offrono delle occasioni per staccare un po’ dalla progressione dell’avventura concedendo divertenti occasioni per competere l’un l’altro, in maniera sia asimmetrica (come l’Acchiappa la Talpa, solo che la talpa è Cody) che simmetrica.

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Il castello è uno di quei livelli che potrebbe essere terminato in cinque minuti, ma si può perdere tempo assistendo alle interazioni sparse in giro.

Non mancano gli scontri con dei boss, i quali — come per il resto del gioco — esibiscono una notevole capacità nel variare l’azione, passando da momenti in cui si combatte in maniera più diretta ad altre in cui bisogna intuire al volo il modo giusto per arrecare loro danni evitando gli attacchi in arrivo. Ci sono dei dettagli che non voglio svelare per evitare spoiler, ma vi assicuro che It Takes Two sa portare in campo delle sorprese, e più volte sarà in grado di strappare un sorriso grazie a certi richiami ad altri platform di questo genere.

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C’è pure la parentesi Diablo, che fa tanto citazione agée.

Insomma, It Takes Two è un’avventura ben studiata e strutturata attorno a una esperienza dove i giocatori sono al centro e tutto il processo di sviluppo ruota attorno a loro: capire come si comporteranno e come si aspetteranno di poter interagire, il tutto in un impianto audiovisivo pensato per lasciare l’impronta e rendersi conto di cosa serve per creare collaborazione senza forzarla e senza spingere sugli elementi punitivi. La terza opera di Hazelight si preoccupa di non rendersi mai scontata e mette al bando modelli economici di monetizzazione, studi improbabili di marketing e orpelli inutili per estendere la longevità, scegliendo di portare un’esperienza che sia il più genuina possibile. In altre parole, It Takes Two è il titolo che più mi sentirei di rappresentare sul dizionario alla voce “videogioco”, nella sua più pura ed infantile forma. Sembrerà stupido, ma oggi non lo darei così per scontato.

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