La cornice del cominciamento

Calarsi nell’avatar in Dark Souls e Sekiro.

Francesco Toniolo
Frequenza Critica
9 min readMay 2, 2020

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Il presente articolo propone alcune riflessioni a partire dai momenti iniziali di Dark Souls e di Sekiro: Shadows Die Twice (abbreviato in Sekiro da qui in avanti), legate al calarsi nell’avatar e al valore della cornice.

Tutti i soulsgame di FromSoftware introducono l’istante dell’assunzione del controllo, quello in cui si può iniziare a muovere il proprio personaggio, con un filmato fortemente tematizzato sulla liminalità, sulla questione del confine fra due mondi o due stati. In Demon’s Souls è l’attraversamento della nebbia, in Dark Souls II il tuffo nel vortice del lago, in Dark Souls III il risveglio nella bara, in Bloodborne la trasfusione e il conseguente incubo.

Dark Souls e Sekiro, invece, oltre a esser piuttosto simili risultano forse meno immediati, nella comprensione di questa fase di passaggio. In entrambi i casi c’è un personaggio che, dall’alto, lascia cadere un oggetto nel luogo in cui l’avatar del giocatore è rinchiuso. Il protagonista fino a quel momento appare come dormiente, poggiato contro il muro, inerte, più un oggetto inanimato che un soggetto. C’è chiaramente un legame fra l’assunzione del controllo e il ‘risveglio’, a un primissimo livello di osservazione. Fin quando non riceve uno stimolo esterno, un input, il personaggio rimane immobile. Il livello diegetico (in cui il personaggio ha bisogno di qualcosa, un oggetto o una parola, che lo ‘riattivino’) si richiama vicendevolmente col livello extradiegetico (in cui, finché un giocatore non si dedica alla partita, il personaggio resta inerte). Fin qui non è che una declinazione peculiare degli altri videogiochi FromSoftware sopra citati, e non solo. Si pensi anche, per fare un esempio, a The Legend of Zelda: buona parte dei capitoli di questa saga iniziano con un Link dormiente, e poco dopo il suo risveglio inizia il videogioco vero e proprio. Oppure, giusto per dare un secondo esempio, si può ricordare l’inizio di ICO, in cui ci si cala nei panni del protagonista dopo che lui è riemerso da un sarcofago, in cui si trovava in una condizione di sonno/morte.

Vale però la pena osservare con maggior attenzione gli specifici casi di Dark Souls e Sekiro, in quelle che sono le loro specificità. Come accennato, le scene iniziali di questi due videogiochi presentano evidenti similarità, che in molti hanno sottolineato, spesso nell’ottica di un generico citazionismo con cui FromSoftware ammicca ai suoi fan, come del resto ha già fatto in diverse altre occasioni. Le loro differenze, tuttavia, risultano più significative dei punti di contatto, e non sono state sufficientemente esplorate.

Prima di procedere è bene ripercorrere brevemente questi due momenti, per ricordarne gli elementi utili per l’analisi. In Dark Souls, per cominciare, occorre prendere in considerazione il filmato in-game iniziale, collocato subito dopo la cutscene che riassume la cosmogonia remota di quel mondo di gioco. Una carrellata lungo il corridoio dell’Undead Asylum, con lievi oscillazioni a destra e a sinistra in concomitanza con le varie celle che si affacciano su quel luogo. La voce narrante accompagna questo momento ricordando il destino dei non morti, condotti a nord e reclusi in attesa della fine del mondo. Viene raggiunta la cella in fondo al corridoio, l’ipotetica macchina da presa passa attraverso le sbarre e mostra il chosen undead, sulla destra, adagiato contro la parete. Al suo fianco, proiettato sul muro, è ben visibile un quadrato di luce, a suggerire la presenza di una finestra. Un istante dopo c’è un cambiamento di prospettiva, la cella e il non morto vengono mostrati da un’altra angolazione, sempre attraverso delle sbarre. Non si tratta, però, della finestra di cui si intuiva la presenza grazie alla luce sul muro: non è collocata nella posizione giusta. Altro cambio, un progressivo zoom sul non morto, fino a un primo piano del suo volto che si solleva dinnanzi a un rumore. Un cadavere atterra di fronte a lui. Il chosen undead guarda in su e la telecamera segue il suo sguardo, rivelando finalmente un foro nel soffitto, un lontano rettangolo luminoso in cui è ben visibile un cavaliere.

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Passando a Sekiro, anche in questo caso il punto di interesse è preceduto da un filmato che va a riassumere gli eventi passati, questa volta non così remoti come quelli di Dark Souls. C’è un personaggio, una donna, che si avvicina a quello che viene definito “pozzo”, ma che in un primo momento può apparire come una generica apertura nel terreno. La donna lascia cadere una lettera nel pozzo. Sekiro, il protagonista, relegato laggiù, si riscuote dalla sua immobilità, rimettendosi in piedi.

Si notano subito un paio di inversioni, rispetto a Dark Souls, che pure sta palesemente citando. Innanzitutto in Sekiro viene invertito il rapporto tra esterno e interno, nel gesto di fornire un oggetto al protagonista. Nel primo videogioco si segue il suo sguardo che risale verso l’alto, cogliendo il foro nel soffitto e il cavaliere Oscar, nel secondo invece si segue la caduta verticale della lettera all’interno del pozzo. Vengono anche invertite la sinistra e la destra, per quella che è la collocazione del protagonista rispetto a certe inquadrature.

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Fin qui nulla di particolarmente nuovo, è un gioco citazionistico in cui queste modifiche non sembrano essere particolarmente rilevanti, visto che non comportano modifiche nell’effetto prodotto (sottolineare e rafforzare il momento in cui si assume il controllo del proprio avatar).

Per trovare invece una differenza rilevante bisogna ragionare sulla presenza della “finestra”. Il termine va inteso qui in un senso un pochino più ampio rispetto a quello con cui è comunemente impiegato, perché se ancora ancora si può vedere l’apertura nel soffitto dell’Undead Asylum come una finestra, di certo il foro nel pozzo di Sekiro non ne condivide le caratteristiche. Ma se in arte la finestra è «strumento e al contempo metafora essenziale per la definizione stessa di esperienza artistica» (M. Franciolli, L’artista alla finestra, in Una finestra sul mondo, Skira 2012, p. 15) — giusto per prendere uno dei tanti riferimenti possibili — si intuiscono le possibilità di estensione del campo definitorio, pensando a uno spazio liminale fra interno ed esterno ma non immediatamente transitabile (non è la soglia di una porta, insomma). E sembra esserci qualcosa di differente fra le “finestre” che aprono Dark Souls e quella che apre Sekiro.

La cella di Dark Souls presenta tre potenziali aperture, come si è detto: la porta, la finestra con le sbarre e l’apertura nel soffitto. Nessuna di queste è inizialmente percorribile in uscita, mentre il movimento dall’esterno verso l’interno è consentito. Non solo per il cadavere lasciato cadere nella cella, ma per il modo con cui il giocatore stesso entra nella stanza, attraverso la telecamera. Uno sguardo che oltrepassa una porta e penetra in uno spazio privato, cogliendo i gesti di un personaggio che non si accorge di essere osservato. I parallelismi pittorici potrebbero essere molti, fra cui la Ragazza (o Donna) che legge una lettera presso una finestra di Jan Vermeer (1657), su cui non a caso Umberto Eco e Omar Calabrese hanno detto che «si ha la sensazione di entrare in uno spazio privato, come se la scena proposta fosse un momento di vita privata, “rubato” da un osservatore indiscreto. È come se il produttore avesse guardato dalla toppa della serratura» (Le figure del tempo, Mondadori 1987, p. 104).

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Si potrebbe discutere su quanto una cella carceraria sia uno “spazio privato”, ma si tengano — come detto — dei termini un po’ ampi. La ragazza del dipinto, assorta nella lettura, si trova di fronte a una finestra spalancata, col volto riflesso nel vetro. Dietro di lei, sulla parete, l’anta della finestra getta la sua ombra su un muro chiaro, illuminato, formando un rettangolo d’ombra. In Dark Souls c’è invece il citato rettangolo di luce nell’ombra, alla sinistra del chosen undead, a sua volta assorto e con lo sguardo chino, seppur per ragioni differenti, e posto di fronte a una “finestra” con delle sbarre. Il giocatore — dopo esser entrato da «osservatore indiscreto» nella cella attraverso le sbarre della porta, osserva il protagonista anche attraverso quest’altro foro. Non guarda, invece, l’interno della cella dal foro nel soffitto, che è completamente aperto, a differenza degli altri due.

La presenza delle sbarre pone la questione della griglia, che non è peraltro assente nel quadro sopraccitato, in cui tuttavia — essendo aperta la finestra — essa non si sovrappone al limine fra interno ed esterno. Come diceva Leon Battista Alberti, «dove io debbo dipingere scrivo uno quadrangolo di retti angoli quanto grande io voglio, el quale reputo essere una finestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto» (Della Pittura, 1434, libro I paragrafo 19). E ricordando queste parole il filosofo Mauro Carbone ha anche recuperato una xilografia di Albrecht Dürer (1538) che «ben sottolinea il principio della separazione e della contrapposizione tra la rigida postura dell’artista e il corpo contorto dal desiderio della modella» (Filosofia-schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale, Cortina 2016, p. 91).

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Questi richiami rimandano a un «certo modo di vedere il mondo che è tuttora considerato dominante nella cultura occidentale e che poggia per l’appunto sulla categoria di “rappresentazione”» (Ivi, p. 90). È molto probabilmente una casualità involontaria, ma è curioso che Dark Souls, decisamente più occidentalizzato rispetto a Sekiro, presenti questa griglia/finestra nel momento in cui ci si accinge ad assumere il controllo del protagonista. Il giocatore, “artista” rigido, si accinge a «rappresentare» una “modella” ancora inerte, ma pronta ad animarsi, intendendo però il termine in un senso differente. Non una rappresentazione come riproduzione pittorica della realtà, ma come operazione ‘teatrale’, di assunzione di un ruolo.

Chi, allora, rappresenta effettivamente chi? Il giocatore prende il controllo del suo avatar, assume il ruolo del chosen undead, ma è soprattutto quest’ultimo a lasciarsi plasmare, a rappresentarsi in base a come decreta il suo controllore, sia sul piano fisico sia su quello delle scelte. L’aspetto fisico viene peraltro modellato — a differenza di altri giochi della serie — prima dell’assunzione del controllo e prima anche di questi filmati introduttivi, ma vale comunque come elemento di rinforzo di questo particolare legame. La propria “modella” digitale ha un corpo non solo agitato, mosso dal desiderio, ma anche concretamente plasmato da quel videogiocatore/artista che siede immobile oltre lo schermo, probabilmente irrigidito, manovrando levette e pulsanti al posto del pennello. Viene allora anche naturale chiedersi in che termini lo stesso schermo sia una finestra, ma questo è un aspetto di carattere generale (su cui si rimanda peraltro al citato saggio di Mauro Carbone). Tornando alla specificità di Dark Souls, le griglie indicano una irruzione personalizzabile nella realtà del personaggio/protagonista. La griglia rompe la scena, frammenta lo sguardo, genera tanti piccoli riquadri e, nel fare ciò, spalanca simbolicamente al mondo delle possibilità.

A essa si contrappone la finestra aperta, che invece caratterizza la stabilità dell’irruzione. In Dark Souls questa è lasciata esclusivamente a Oscar, un PNG, con cui il giocatore non condivide lo sguardo dall’alto (lo osserva, invece, dal fondo della cella, assumendo già il punto di vista del suo avatar). Oscar affida idealmente la missione principale, l’obiettivo fisso del chosen undead che prescinde da tutte le sue diramazioni.

E in apparenza il parallelismo funziona molto bene con Sekiro: un protagonista non personalizzabile in coincidenza con un filmato che ce lo presenta dall’alto, da quello che sarebbe il corrispettivo del punto di vista di Oscar in Dark Souls, e senza la mediazione di una griglia. Il dubbio emerge però se si pensa ai finali possibili di Sekiro, che aprono bivi perlomeno rilevanti quanto quelli degli altri Souls, se non di più. E su questo punto bisogna fare una scelta. O si stabilisce che c’è un solo true ending, relegando gli altri a variazioni sul tema, oppure si può supporre che gli elementi di discrimine e discrepanza sopraggiungano in seguito, rispetto a questa fase embrionale della propria avventura, legandosi magari all’immagine di un qualche altro oggetto, rispetto alla “finestra”. Ma questa è un’altra storia.

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