La guerra come rifugio dal vuoto

Cos’hanno in comune Il deserto dei Tartari e NieR: Automata?

Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica
9 min readFeb 8, 2020

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Avviso: sono presenti SPOILER sia di NieR: Automata che de Il deserto dei Tartari.

“Gli parve che la fuga del tempo si fosse fermata, il mondo ristagnava in una orizzontale apatia e gli orologi correvano inutilmente. La strada di Drogo era finita; eccolo ora sulla solitaria riva di un mare grigio e uniforme. […] Gli occhi di Drogo fissavano come non mai le giallastre pareti della fortezza. Lacrime lente e amarissime calavano giù per la pelle raggrinzita, tutto finiva miseramente e non restava più nulla da dire.”

No, non è necessario aver prestato servizio presso una base militare di confine o in territorio straniero per comprendere le lacrime che rigavano il volto del sottotenente Giovanni Drogo. La sua vita, trascorsa nella placida fissità della Fortezza Bastiani, riflette l’abulico rigore con cui si dipana il corso mortale di ciascuno di noi.

Quei Tartari, che per lungo tempo erano stati preconizzati, temuti e infine quasi desiderati dai soldati di stanza al forte, divengono allora non il semplice “nemico”, l’avversario che si frappone e minaccia il nostro percorso, bensì l’elemento che qualifica esistenze ammassate in un luogo “in attesa di”. Per questo motivo la guarnigione sviluppa una riverenza ieratica per quelle strutture antiche che presiede; per questo, decenni interi vengono trascorsi sulle mura nella speranza di scorgere un vessillo ostile dietro la linea dell’orizzonte; per questo Drogo trascorre, inevitabilmente, tutta la propria vita in cima a quella montagna arroccata, consapevole in qualche anfratto recondito della propria coscienza che “era quello il suo posto”.

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Dino Buzzati.

L’opera magistrale di Buzzati, ben lungi dall’essere un’esaltazione dell’etica bellica o dell’ideale romantico di battaglia, illustra in realtà con uno sconfortante candore, tutto post-moderno, lo spaesamento morale dell’uomo contemporaneo, orfano di Dio. Il deserto dei Tartari è in realtà un non-luogo, metafisico come lo spazio di un quadro di Dalì, nel quale la pulsione dell’essere umano verso l’infinito si scontra con la vuotezza del luogo circostante, metafora della fragilità dei valori tradizionali a cui l’uomo occidentale s’era aggrappato fino ad allora, e che ora sono vaporizzati.

Ecco che dunque la battaglia, l’adozione di una pugnace quotidianità che assorbe l’intero cono di visione del vivere di un individuo, diventa una pregnante metafora della ricerca di una raison d’etre. L’atto stesso di scontrarsi con un Nemico, con un altro-da-sé ostile e ottuso (come è ottusa una realtà aliena, e pertanto incomprensibile), assecondando un dovere interno — e dunque, infine, un’idea — rappresenta il rivestimento di senso di un’esistenza altrimenti vana. I Tartari non sono l’idealizzazione di una Guerra salvifica, bensì l’anelito contemporaneo ad una postulazione di un Dio mondano.

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“Everything that lives is designed to end. We are perpetually trapped in a never-ending spiral of life and death. Is this a curse? Or some kind of punishment? I often think about the god who blessed us with this cryptic puzzle…and wonder if we’ll ever get the chance to kill him.”

2B e 9S sono solo due pedine fra le milioni schierate dal proprio contingente in una guerra millenaria contro nemici totalmente imperscrutabili, venuti da un luogo sconosciuto, perseguendo uno scopo fuori da ogni orizzonte logico; degli alieni hanno invaso la Terra da molto tempo, attraverso i propri eserciti di macchine con nucleo biologico (delle biomacchine, come vengono denominate nell’adattamento italiano) portando all’estinzione, o quasi, il genere umano. Umanità che cerca di resistere a questa estinzione producendo androidi da battaglia (gli YoRHa) in tutto simili agli uomini: tali sono 2B e 9S, i protagonisti della nostra storia.

Come può il più abusato dei plot sci-fi essere una delle maggiori rappresentazioni videoludiche dello scacco esistenziale del genere umano?

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A ben vedere, gli schieramenti in gioco non sono i reali belligeranti: sia gli androidi che le biomacchine combattono “una guerra per altri”, perseguendo un comando dato a quel tempo. In realtà, da periodo immemorabile, sia gli umani che gli alieni non si fanno più sentire: in un certo senso, è l’eco del loro ordine a riverberarsi nelle menti di esseri generati a loro immagine e somiglianza (cosa che la stragrande maggioranza di loro, tuttavia, sa “per sentito dire”, non avendoli mai visti).

Ciononostante, questi guerrieri seguitano nel loro opporre strenua resistenza al nemico, arrivando alla morte pur di ossequiare l’ideale paterno, se non divino, in cui contornano la figura dei loro creatori. La loro intera esistenza viene racchiusa in quel ruolo etero-deciso, in quella ragione stessa della propria venuta a esistenza: che si tratti di androidi o di biomacchine, il raggiungimento dello scopo ultimo per cui essi sono stati creati prevale su qualsiasi considerazione morale o utilitaristica del loro agire.

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Combattere dà loro un senso; combattere dà loro una ragione di esistere. Cosa succederebbe, allora, se questi soldati venissero a sapere che prendono parte a una battaglia priva di qualsiasi valore?

I primi a cadere sono gli alieni, questi esseri un po’ ridicoli, totalmente omogenei fra di loro, che — non casualmente, secondo la folle ironia di Yoko Taro — ricordano dei peni. Ad averne causato la morte, sono stati gli esseri che avevano generato: le biomacchine, ascese mediante Adam ed Eve a una superiore consapevolezza — come esseri vitalisticamente perfetti (e, dunque, di fatto immortali) che si cibano della mela dell’Albero della Conoscenza — hanno tagliato il cordone ombelicale che li guidava ma, soprattutto, li limitava. Nel cammino prometeico di autonoma determinazione del proprio destino, non c’è spazio per il guinzaglio di esseri così apparentemente ottusi, come quegli stolti creatori venuti da chissà dove; invece, la cultura umana di cui è, nonostante tutto, intrisa la Terra derelitta, affascina questi esseri così “giovani”.

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Non solo Adam ed Eve. Automata a più riprese ci ricorderà il suo debito con il capolavoro di Hideaki Anno.

Sennonché la presenza degli essere umani non è meno sbiadita delle “immagini” terrene che li rappresentano: alla fine della Route B, 9S scopre che da tempo immemore gli esseri umani sono estinti, verità amara di cui sono a conoscenza unicamente i vertici del comando militare YoRHa. In altre parole, da centinaia di anni innumerevoli androidi “perdono la vita” in una lotta senza vessillo, una lotta senza ricompensa.

Per quale motivo, allora, gli YoRHa seguitano questa guerra, nascondendo a tutti i soldati impegnati la vanità delle loro azioni?

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Non casualmente gli YoRHa indossano bende sugli occhi. E non casualmente il volto di 9S è più coperto di quello di 2B; ma questa è un’altra storia.

“Nessuno combatte senza un motivo. E ci serve un dio per cui valga la pena di morire.”

Le parole del comandante sono desolatamente concise: la milizia YoRHa cadrebbe in preda allo sconforto, allo spaesamento, se venisse a sapere che gli umani, i loro creatori, sono morti da tempo. Metaforicamente, allora, l’impegno bellico diventa ancora una volta non una mera necessità biologica di sopravvivenza a un tentativo di sopraffazione, ma un’esigenza di rivalsa esistenziale: la lotta non è più il mezzo disperato con cui fronteggiare un nemico che vuole la morte altrui, bensì il fine verso cui si dirigono tutti gli sforzi fisici, morali e realizzativi. La presa di coscienza della vacuità del combattere (del vivere?) segnerebbe per gli androidi (gli uomini?) il definitivo scollamento da un’esistenza in cui sono stati gettati da un’entità genitrice imperscrutabile (Dio?); l’illusione chimerica — che uno senso vi sia — è preferibile alla lucida disperazione — per dei cieli vuoti.

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“Se vi è un destino personale, non esiste un fato superiore o, almeno, ve n’è soltanto uno, che l’uomo giudica fatale e disprezzabile. Per il resto, egli sa di essere il padrone dei propri giorni. In questo sottile momento, in cui l’uomo ritorna verso la propria vita, nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo della memoria e presto suggellato dalla morte. Così, persuaso dell’origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino. […] Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.”

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Albert Camus.

Una delle pagine più belle di Albert Camus, ne Il Mito di Sisifo, sembra creare un ponte fra NieR: Automata e il capolavoro letterario di Buzzati. In entrambe le opere è sotteso il disagio nauseante dell’uomo moderno verso una realtà che si presenta scevra di ogni trascendenza; in entrambe le opere, un valore viene recuperato nell’agire stesso dell’uomo. Sia Yoko Taro che lo scrittore bellunese proiettano questo spleen in uno scenario bellico, in cui la guerra diviene parafrasi dell’anelito verso l’infinito dell’uomo: la lotta (meglio ancora, lo stato di belligeranza) diventa la lunga attesa con cui si inganna la definitività (assurda, direbbe Camus) della morte.

Ed è per questo che alla fine Giovanni Drogo, vecchio e malato, messo da parte nel momento in cui il Nemico si approssima alle mura della Fortezza, non è un uomo sconfitto. Sul letto di morte, si rende conto infine che è stata quell’attesa dell’arrivo dei Tartari — ovvero, quella costruzione tutta umana di un’epica immanente, la quale è prima di tutto un “simulacro” del personale passaggio nel mondo — a forgiare un’esistenza che si è alimentata di quello sforzo mitico eppure così terreno. Presidiare senza sosta i bastioni di quella fortezza ai confini del regno, in attesa per tutta la vita di un evento, è stato il personale e titanico atto di ribellione, il proprio gigantesco macigno da spingere con le spalle. Il suo sorriso è quello di Sisifo.

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Yoko Taro

L’assurdità a cui si contrappone Sisifo è la medesima contro cui si scornano i personaggi di NieR: Automata. Per loro lo stato di guerra perenne diventa la fuoriuscita da un’esistenza di “sterile e futile” grigiore; la certificazione della “morte di Dio” segnerebbe, allora, lo sgretolamento di questa convinzione. Proprio la presa di coscienza del vuoto che avvolge i propri ruoli (e, da ultimo, le proprie esistenze) diventa il pretesto della presa di possesso delle proprie vite: non più una lotta per altri (o altro), ma una battaglia per se stessi. 9S, risalendo la Torre Bianca e gettando la benda posta sui propri occhi, è già al di fuori del “ciclo senza fine” che aveva vivificato l’esistenze di tutti i suoi compagni e rappresentato un “idolo” cui consacrarsi. La battaglia di 9S non è più espressione dell’illusorio asservimento a un “ideale già dato” (come quello degli androidi verso il genere umano), ma della consapevole, dignitosa e disperata affermazione di sé. La battaglia come emancipazione dal “giogo e (auto)imposizione di un’esistenza autentica; infine, liberazione dal (video)gioco e acquisizione di un proprio posto in uno scenario solidaristico e condiviso.

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Infine, 9S getta la benda.

Ma non è questa la sede per affrontare gli esiti estremi e ricchi di spunti cui giungerà la riflessione di Taro — esiti che prenderanno le distanze dalla visione buzzatiana per, infine, riecheggiare certe note già soavemente ascoltate altrove.

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Lorenzo “GOV” Sabatino
Frequenza Critica

Ci sono poche cose che meritano di esser dette e spesso manca anche la voglia.