Life is Strange 2: America on the road

Da Seattle a Puerto Lobos.

Fabrizio "Bix" Salis
Frequenza Critica
8 min readJan 20, 2020

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La prima stagione di Life is Strange è stata per il sottoscritto un’esperienza totalizzante, capace di lasciare un segno profondo e indelebile non solo nel videogiocatore, ma anche nella persona. Tutto merito di un’ambientazione studiata fin nei minimi dettagli, di un cast composto da personaggi affascinanti, di una storia che mischiava alla perfezione drammi adolescenziali, thriller e soprannaturale e di una colonna sonora di una qualità quasi sconcertante, capace di farmi scoprire e amare un nuovo genere musicale. Sono pienamente cosciente dei limiti della produzione Dontnod, che calava di qualità nella seconda metà e si concludeva in maniera insoddisfacente dopo un episodio finale inutilmente contorto, ai limiti dell’incomprensibile. Un gioco largamente perfettibile insomma. Eppure uno dei miei preferiti in assoluto.

Dopo il buon prequel Before The Storm (realizzato da una diversa software house), l’annuncio di una vera e propria seconda stagione mi ha lasciato parecchio dubbioso: sarebbe stata una mera operazione commerciale per far contenti i fan più accaniti o un prodotto sensato? La lunga gestazione di Life is Strange 2, i cui episodi sono stati pubblicati nell’arco di quasi un anno e mezzo, e le vendite apparentemente non esaltanti mi hanno fatto temere che non avrebbe neanche visto una conclusione, e che Dontnod sarebbe caduta in disgrazia come Telltale nel giro di poco tempo.

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Oggi posso dire che per fortuna le mie preoccupazioni erano in gran parte infondate: Life is Strange 2 è un videogioco di qualità e con una personalità assolutamente distinta dall’illustre predecessore. Lo sviluppatore francese ha infatti scelto coraggiosamente di creare una storia completamente indipendente, pur se ambientata nello stesso universo narrativo. I riferimenti e le strizzate d’occhio ai fan ovviamente ci sono (e sono pure parecchio grossi), ma il gioco è assolutamente godibile anche da chi vi si approccia senza alcuna conoscenza pregressa. La stessa impostazione della narrazione è agli antipodi rispetto alla prima stagione: se Life is Strange presentava una singola ambientazione che veniva sviscerata di episodio in episodio, il suo seguito è invece un lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti. Una simile scelta porta per forza di cose a un impegno produttivo maggiore da parte dello sviluppatore, che non può riutilizzare certe componenti per velocizzare il lavoro, e al conseguente dilatarsi dei tempi di realizzazione.

Life is Strange 2 è la storia dei due giovani fratelli, Sean e Daniel, cittadini americani di origine messicana che vivono col padre nella periferia di Seattle. La loro vita quotidiana è però sconvolta da un tragico incidente, che costringe i due a fare rapidamente le valige e fuggire verso la terra natia del genitore con la polizia alle costole. Anche in questo caso c’è di mezzo un misterioso e inspiegabile potere, ma stavolta non si tratta della manipolazione del tempo, bensì della telecinesi. Qui arriva un’altra enorme differenza rispetto alla prima stagione: noi controlliamo Sean, il fratello grande, ma è Daniel, quello piccolo, a possedere il dono che gli permette di manipolare gli oggetti con la mente. Niente di così sorprendente, direte voi. E invece no, perché questa particolarità ha delle importanti conseguenze sullo svolgimento della storia e sul sistema di scelte e conseguenze, che in questo titolo è più importante che mai.

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Il viaggio dei due ragazzi è in primo luogo un viaggio di formazione, un percorso fisico e mentale verso l’età adulta. Sean si trova volente o nolente a fare da genitore al fratello più piccolo, influenzandone il comportamento e l’approccio nei confronti del mondo che lo circonda. Tra i vari dilemmi morali quello più pregnante riguarda senza dubbio l’utilizzo del potere di Daniel, argomento trattato a mio avviso con un approccio simile a quanto visto nel film Man of Steel. Potremo insegnargli che è meglio tenerlo nascosto per non attirare l’attenzione, anche a costo di lasciare che altre persone soffrano, oppure farglielo usare come meglio crede, magari per atti non esattamente legali. In mezzo a questi estremi non mancano varie sfumature di grigio. La questione però non è così semplice e lineare come sembra, perché Daniel a volte deciderà di fare di testa sua, anche in base a come si è sviluppato il rapporto col fratello maggiore e con conseguenti svolte inattese della narrazione. Non solo, può essere influenzato anche da scelte e situazioni che non lo riguardano direttamente.

Il legame tra i due fratelli è insomma il fulcro tanto della narrazione quanto del gameplay ed è sviluppato in maniera davvero encomiabile. Per rendere l’idea posso dire che era dai tempi di Lee e Clementine che non mi affezionavo così tanto a una coppia di personaggi di questo tipo. Tutti i nodi di questo complicato e appassionante rapporto vengono al pettine nella splendida scena finale, degna del migliore road movie, i cui esiti sono profondamente influenzati dal modo in cui Daniel è cresciuto durante la vicenda. Niente a che vedere coi rigidi finali della prima stagione, che finivano per rendere irrilevanti i fatti avvenuti in precedenza.

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Dontnod non si è però accontentata di raccontare una storia personale, ma ha deciso di affrontare alcuni problemi fondamentali dell’America di oggi. Se la prima stagione offriva soprattutto uno spaccato della vita in provincia di un gruppo di adolescenti, qui le cose si fanno molto più politiche. Gli USA raccontati dallo sviluppatore sono quelli che hanno eletto Donald Trump alla presidenza, per cui risulta quasi inevitabile avere a che fare con temi scottanti come il razzismo, le sette religiose e la legalizzazione delle droghe leggere. Diversamente da quanto accaduto altrove, qui le questioni sono affrontate di petto, in maniera esplicita e cruda e senza provare a nascondere la posizione dello sviluppatore. Spoilerare qualcosa vorrebbe dire rovinare alcuni dei momenti più forti dell’intera vicenda, che probabilmente mi rimarranno impressi negli anni a venire. Alcuni potrebbero accusare Dontnod di ipocrisia, dato che lo sviluppatore è francese e non americano, ma personalmente ritengo che, in un modo globalizzato come quello attuale, simili critiche abbiano davvero poco senso.

Attenzione, quanto detto nei paragrafi precedenti non sta a significare che Life is Strange 2 sia un gioco con una narrazione sempre serrata e frenetica. È anzi vero il contrario: il ritmo della vicenda resta nel complesso molto rilassato, come suggeriscono anche i salti temporali non indifferenti tra un episodio e l’altro. A volte questa lentezza può risultare quasi esasperante e ciò rende la produzione Square Enix non adatta a tutti i palati. Se, come il sottoscritto, non disdegnate i momenti contemplativi, qui ne troverete a bizzeffe. Dopo poco verrà quasi naturale esplorare ogni area per scoprirne tutti i retroscena, facendo poi sedere Sean da qualche parte per ascoltare le sue riflessioni e magari fargli ritrarre ciò che lo circonda nel suo inseparabile quaderno (dove tiene anche un interessante diario, che consiglio vivamente di leggere).

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Proprio le fantastiche ambientazioni sono le coprotagoniste delle vicenda. Il pretesto del viaggio verso il Messico ha infatti permesso allo sviluppatore di esplorare aree geografiche molto diverse degli USA. Alle prime zone, che ricordano non poco l’Arcadia Bay del primo episodio, si aggiungono ben presto boschi innevati, foreste di sequoie, deserti e spettacolari canyon, dove Daniel e Sean avranno la possibilità di ammirare le stelle stando ben lontani dalla civiltà. Se i panorami sono abbastanza ampi, lo stesso non si può dire per le aree di gioco vere e proprie, che rimangono abbastanza lineari e circoscritte, a volte pure da qualche muro invisibile più o meno evidente. Niente di diverso da quanto ci si può aspettare un gioco di questo tipo, comunque.

Ad accompagnarci nelle nostre peregrinazioni c’è sempre l’ottima colonna sonora, curata anche stavolta da Jonathan Moral, frontman del gruppo indie folk Syd Matters. Rispetto al lavoro precedente, mi è sembrato che si sia deciso di puntare meno su pezzi non originali, inoltre si presentano più sporadicamente quei momenti di perfetta armonia tra musica, storia e ambientazioni che avevano fatto grande Life is Strange.

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Ho parlato abbastanza a lungo del rapporto tra i due fratelli, ma gli altri personaggi? Qui le cose si fanno più complesse. La natura volutamente frammentaria della storia e i continui spostamenti impediscono presenze fisse, per cui c’è meno tempo per delineare i comprimari. Alcuni di questi avrebbero sicuramente beneficiato di un maggiore approfondimento, in particolare i membri del gruppo a cui i protagonisti si uniscono durante il terzo episodio. Nel complesso il lavoro fatto non è comunque disprezzabile, anche perché, tra un episodio e l’altro, avremo la possibilità di ottenere notizie sulle persone incontrante in precedenza, cosa che permette di ridurre notevolmente l’effetto “avventura della settimana”. Lo stesso finale può avere sfumature diverse in base alle relazioni che abbiano intessuto.

La longevità di Life is Strange 2 si attesta su livelli più che buoni: per arrivare ai titoli di coda ci vogliono una quindicina di ore abbondanti. Queste non sono però distribuite in maniera uniforme tra i cinque episodi, infatti gli ultimi due si rivelano più brevi del previsto e con qualche scappatoia narrativa di troppo, segno di una certa fretta nel concludere. Siamo comunque lontani da quanto accaduto nella prima stagione, nella quale il problema non era tanto una conclusione troppo affrettata, quanto una certa confusione degli scrittori nel momento di tirare le fila della vicenda. In questo senso, il non dover affrontare le conseguenze — e i paradossi — tipici dei viaggi temporali ha sicuramente aiutato.

Mentre ascolto questa canzone, mi chiedo se Life is Strange 2 è riuscito non solo a intrattenermi superficialmente, ma anche a lasciarmi qualcosa. Il fatto che la melodia mi faccia provare un senso di nostalgia può essere indicativo. Oggi, pochi giorni dopo aver assistito alla conclusione del loro viaggio, sento già che Daniel e Sean mi mancano. Ne vorrei ancora.

Vorrà pur dire qualcosa.

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