Ma VirtuaVerse è cyberpunk?

Una riflessione terminologica su un genere.

Francesco Toniolo
Frequenza Critica
5 min readJun 24, 2020

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Uno screen da Virtuaverse di Theta Division

La domanda presente nel titolo non è — lo dico subito — una sorta di accusa a Theta Division e al suo videogioco VirtuaVerse, uscito da non molto. Excusatio non petita, accusatio manifesta, va bene, ma vogliatemi credere. Mi son posto questo interrogativo al di fuori del videogioco, osservandone i discorsi dei recensori e dei semplici utenti. Più o meno chiunque definisce VirtuaVerse un videogioco “cyberpunk”, e non ho dubbio che agli occhi di tutti loro appaia effettivamente così, ma sulla definizione che fornirebbero davanti alla domanda “cos’è il cyberpunk?” immagino che le risposte risulterebbero piuttosto differenti fra loro.

Già il “cyber” presente nel termine, che risulta essere la parte più gestibile e su cui — in apparenza — si concorda appieno, richiede perlomeno un paio di cautele. Provando a uscire dalle tautologie che immediatamente vengono in mente (“cyber indica qualcosa di cibernetico”), si potrebbe dire che il “cyber” sia innanzitutto riferito a una dimensione spaziale, che deve pertanto essere necessariamente presente (e centrale) in un’opera che voglia definirsi in tal modo.

Quindi il “cyber” caratterizza uno spazio… virtuale? La tentazione di utilizzare questo termine è fortissima, ma ragionandoci sopra non è la scelta migliore. Si definisce “virtuale” un qualcosa che si presenta a livello potenziale, che non si è concretizzato, che appare come mera possibilità. Ma nelle opere cyberpunk, compreso VirtuaVerse, non funziona affatto così. Quella “realtà integrata permanente” (cito dalla pagina Steam del gioco) che costituisce uno dei presupposti dell’avventura non può esser “virtuale”: sia perché è già realizzata, ma soprattutto perché è divenuta un pilastro fondativo della nuova società che presenta il videogioco. Non una potenziale alternativa alla materia, ma un suo incremento, una versione “iper-“ (ma attenzione anche coi vari prefissi e suffissi) di quella materialità — spesso gretta e meschina, per contrasto — della dimensione urbana.

Perché il “cyberpunk”, qualunque cosa esso sia, è inevitabilmente urbano. Grattacieli tracimanti di pubblicità, pioggia perenne, barboni che rovistano fra tecnospazzatura, luci al neon, appartamenti minuscoli e dispositivi di sorveglianza. Sono in larga parte caratteri legati alla tradizione, si è iniziato a far così e si è andati avanti, un po’ come è divenuto ben più raro trovare nel post-Tolkien un elfo che sia un folletto boschivo alto quanto un puffo. Anche il sushi (che non manca in VirtuaVerse) è a modo suo un qualcosa che ‘fa’ cyberpunk, e non necessariamente perché sia un qualcosa che ora è di moda, soprattutto nelle grandi metropoli, ma perché fin dall’inizio di ciò che definiamo “cyberpunk” c’è molto di Tokyo nelle metropoli di queste opere. Tuttavia non è il sushi a definire il “cyberpunk”, così come non lo sono i barboni e le luci al neon. Nemmeno i grattacieli che si stagliano contro un cielo piovoso sono una condizione effettivamente significativa. Sono tutti attivatori immediati, cose che quando rintracciamo tutte insieme ci portano subito a dire “questo è cyberpunk”, ma questo è solo l’appiglio immediato. È un po’ come basare lo steampunk solo sulla presenza di qualche ingranaggio sui cappelli. E su questo ci sarebbe da aprire un’altra lunghissima parentesi, sia sul perché si vada fin troppo ad accostar questi due –punk, sia su come i generi finiscano per esser il più delle volte delle categorie d’uso, delle etichette di comodo che si vanno ad applicare senza pensarci troppo.

Ingranaggi, simboli dello steampunk

Per la questione specifica dello steampunk c’è un vecchio ma tuttora molto valido articolo del Duca di Baionette (da cui è anche possibile accedere ad altri quattro successivi articoli sul tema), in cui viene anche spiegato perché lo steampunk non derivi dal cyberpunk. Per la questione più ampia, sull’uso e la trasformazione dei generi, il dibattito è — come intuibile — sterminato, ma almeno restando nell’ambito della critica letteraria resta sempre una lettura fondamentale Il demone della teoria di Antoine Compagnon, pubblicato da Einaudi in traduzione italiana. Tutto questo senza nemmeno arrivare alle specifiche questioni dei generi videoludici, su cui c’è stata anche una serie di articoli qui in Frequenza Critica (le parti 1, 2 e 3) e su cui val la pena ricordare perlomeno anche l’ormai storico contributo di Dominic Arsenault.

Tornando alla città, una certa serie di sue componenti possono essere degli indizi, che spingono il fruitore a dire che si è in presenza di un “cyberpunk”, ma alla fine quel che deve esser presente è una sorta di triangolazione fra questi elementi: essere umano, città e spazio ‘iperreale’. Siamo in presenza di corpi cyborg che si interfacciano attivamente e simultaneamente con due realtà differenti: quella della metropoli in cui non si limitano a risiedere, ma con cui sono interconnessi a vari livelli, e quella dello spazio ‘altro’ che raggiungono, abitano e popolano grazie ai loro potenziamenti tecnologici. Senza un simile intreccio è facile ricadere da qualche altra parte, se solo due di queste tre componenti risultano identificabili.

VirtuaVerse le ha effettivamente tutte, per cui potrebbe esser pacifico definirlo “cyber”. Ma il “punk”? La risposta che è facile trovare, a proposito di questo pezzo del termine, è che quel legame sopra citato fra corpi e mondi ‘iperreali’ abbia le caratteristiche di una sorta di sciamanesimo tecnologico, una trascendenza determinata più dalle sostanze stupefacenti che dalla mistica. Il che può sicuramente essere una parte del «nesso che il cyberpunk intrattiene con la scena dei movimenti giovanili antagonisti» (P. Pardo, Il cyberpunk, 2001, p. 36), ma se fosse solo questo si perderebbero un po’ per strada tutti gli altri ‘qualcosapunk’ (il già citato steampunk, lo stonepunk ecc., fino allo squid punk dei Vandermeer), sarebbe un fattore troppo specifico, certamente buono per il singolo caso ma non molto di più. Parlare in termini generici di “ribellione”, del resto, è fin troppo superficiale. Come è strutturata questa ribellione? E contro cosa viene messa in campo? Ragionando in termini videoludici dovrebbe essere una ribellione contro delle aspettative costituite, ma in quest’ottica sarebbero ben pochi i videogiochi etichettati come “cyberpunk” a risultare effettivamente punk; mentre lo sarebbe sicuramente The Graveyard dei Tale of Tales. Il che dice sicuramente qualcosa sulle aspettative dei videogiocatori, ma ben poco su queste etichettature “punk”. Ragionando in termini più ampi, invece, idealmente un “cyberpunk” dovrebbe presentare la ribellione contro le regole imposte da una società che si è sviluppata con le caratteristiche indicate sopra a proposito del “cyber”. Il che molto spesso si sviluppa in maniera assai generica, con un generico potere dominante che è lo stanco epigono di un Grande Fratello consumistico, contro il quale pertanto non si può che lottare in termini altrettanto generici. Ma forse, come in tanti altri aspetti della vita, contano più la tensione verso l’obiettivo che il suo pieno raggiungimento.

Uno screen da Virtuaverse di Theta Division

Chiudo limitandomi a dire che VirtuaVerse sembra effettivamente molto “cyber” e anche abbastanza “punk”, ma almeno si ha avuto modo di riflettere un minimo su questi termini. Sul versante “punk” non si può discuterne troppo a fondo per una questione di spoiler, ma — volontariamente o meno — alcuni dei suoi aspetti più ribelli stanno forse nelle piccole cose e in certi non detti, prima e più che nella sua trama.

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