Need For Speed: Heat guida piano e non va lontano

Di ben altro livello rispetto a Payback, ma essere mediocri non è una vittoria

Marco "Thresher3253" Accogli
Frequenza Critica
9 min readDec 10, 2019

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Tempi duri per Need For Speed: il franchise di giochi di guida più iconico di sempre si trova ormai da anni richiuso in un pozzo di tentativi mediocri di infondere nuova linfa alla serie, esponenti dimenticabili e titoli che, seppur discretamente riusciti, non riescono a mantenere il passo rispetto alle innovazioni introdotte nei loro rispettivi sottogeneri da altri validi giochi quali Wreckfest, Forza Horizon e Assetto Corsa. Titoli differenti che appartengono a diverse fasce secondarie di mercato, ma che nei loro rispettivi ambiti hanno saputo offrire qualità elevata e relativa innovazione, introducendo componenti di gameplay più moderne o alzando l’asticella nelle produzioni di questo tipo.

Visti i presupposti, Ghost Games ha preferito evitare di combattere i mostri sacri del genere che negli anni si sono affermati con successo e ha percorso strade già battute, evitando di sforare dai classici binari già collaudati dai capitoli di maggior successo nella serie: Underground, Most Wanted e Carbon.

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La Polestar 1 è la cover car di questo capitolo, ma non esaltatevi: è persa dopo il prologo.

La struttura di base è grossomodo la stessa dell’era PS2 della serie: si corre in gare clandestine, circuiti e altri tracciati per ottenere soldi e reputazione, che consentono di sbloccare e acquistare nuove auto e pezzi di elaborazione sempre più potenti mentre assistiamo a una trama contornata da niente di diverso da quello che ci si può aspettare dalla serie. Il plot è infatti una esplosione di cliché e di trash che neanche una serata in compagnia di Cristiano Malgioglio, Mara Venier e fiumi di cocaina. Abbiamo poliziotti fascisti che si ritrovano costretti a combattere la piaga delle gare clandestine, e giustamente il miglior modo per farlo è quello di fare frontali con i ragazzini che corrono per strada. Abbiamo un festival legale della velocità che si tiene in città (un saluto a Playground Games) durante le ore diurne, nel quale il protagonista e la sua “criù” vogliono entrare a far parte della cosiddetta élite. Abbiamo una manica di sedicenni risvoltinati inspiegabilmente proprietari di supercar che dovrebbero avere un ruolo prominente nella storia, ma di fatto appaiono in due filmati e senza mai spiccicare una parola. Abbiamo insomma una coerente rappresentazione del mondo dei motori underground, se per mondo di motori underground intendiamo quello immaginato da un adolescente senza patente e che si sposta in giro con uno Zip con la marmitta bucata. Need For Speed: Heat non si gioca per la narrazione, questo è certo.

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Questo gioco è g-g-giovaneh!

Ma se lo stesso tipo di considerazioni le possiamo fare anche per i mostri sacri del franchise, possiamo dire la stessa cosa del gameplay? Aspettate un attimo che finisco di ridere.

Quasi ogni componente di Need For Speed: Heat mi ha dato modo di criticarlo in qualche modo, anche dove ci sono le buone idee. Vedasi ad esempio il ciclo giorno/notte, che una volta tanto viene utilizzato anche in maniera non esclusivamente estetica. La progressione degli eventi è legata infatti al completamento delle varie missioni e competizioni disponibili durante le due fasi della giornata: in quella diurna parteciperemo a degli eventi legali per ottenere denaro e la polizia nelle fasi di free roaming sarà docile e mansueta salvo se il giocatore si comporta in maniera davvero aggressiva. In qualsiasi momento è possibile aprire la mappa e premere un pulsante per passare alla notte, dove le cose si fanno serie: di notte le competizioni sono illegali e consentono di ricevere reputazione, utile a sbloccare ricambi acquistabili con i soldi vinti durante il giorno, ma in compenso la polizia è sempre in caccia di trasgressori, anche se alla fine il giocatore è l’unico sfigato che viene attaccato a vista perché le altre auto che corrono in giro vengono bellamente ignorate. Durante la notte è attivo un moltiplicatore che cresce al completamento degli eventi e in seguito alla fuga da un inseguimento. Maggiore il moltiplicatore, maggiore la reputazione che si andrà a ottenere una volta tornati alla base a finalizzare i progressi accumulati durante la sessione, ma parallelamente gli inseguimenti saranno più pericolosi e aggressivi, crescendo mano mano di difficoltà. Aldilà delle gare e degli inseguimenti, la città da esplorare è sostanzialmente priva di cose da fare se non raccogliere una serie di collezionabili cretini. Il nostro Omegashin ha la sua opinione riguardo il free roaming nei giochi di guida, a tal proposito.

Sfortunatamente dividere in due parti la progressione ha reso inevitabile la presenza di un problema secondario: adesso bisogna farmare non una, ma ben due risorse (denaro e reputazione) e il progressivo aumento dei requisiti per gareggiare rende indispensabile una corsa finalizzata al miglioramento del parco auto a nostra disposizione; un compito tutt’altro che semplice visto che si guadagna meno di quanti eventi si vanno a sbloccare ogni volta, con la conseguenza che per stare al passo bisogna ripetere più e più volte le stesse gare per ottenere il livello reputazione richiesto o per accumulare abbastanza denaro per acquistare auto e ricambi. E se si viene beccati dalla polizia durante una sessione notturna (cosa molto facile perché i poliziotti sono davvero tenaci) si perdono tutti i progressi accumulati in quella notte e si ricomincia da capo. A questo punto, la tattica migliore da utilizzare è completare a ruota le gare più remunerative ignorando quelle più tirchie, tornando alla base prima che il livello ricercato salga in maniera eccessiva.

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Abituatevi a spostarvi manualmente perché il fast travel è possibile solo tra i rifugi e solo di giorno.

Tutto ciò non sarebbe eccessivamente un guaio se il modello di guida fosse divertente da padroneggiare, ma purtroppo qui entriamo nel reame della stupidità di livello superiore. La fisica delle auto è puramente arcade, come da tradizione, ma è davvero incoerente e per nulla verosimile, che stona fortemente col fatto che in Need For Speed: Heat alla fine della fiera non si va poi così tanto veloci. Fossimo in un Burnout o in un Wipeout potrei capire il modo bizzarro con il quale si pilotano le auto a disposizione, ma questa meccanica della derapata che hanno pensato di implementare (modificando il sistema di derapate già presente in Need For Speed 2015 e Payback) è strutturata in barbaro modo: in curva, quando si ruota lo sterzo, è possibile staccare l’acceleratore e ripremerlo immediatamente per entrare in derapata. Pad alla mano si intuisce subito perché mi lamento di questo sistema: se per caso, come sono abituato a fare in altri giochi, voglio modulare l’acceleratore senza ricorrere al freno premo rapidamente R2 per regolare la velocità in curva, ma in Need For Speed: Heat finisco spesso per mandare l’auto in derapata anche se non voglio. Fortunatamente ho notato dopo qualche ora che tramite il (poco intuitivo) menù rapido richiamabile con la croce direzionale del pad è possibile assegnare il controllo della derapata al freno, invece che all’acceleratore. Messa così la situazione migliora, ma a quel punto ci si accorge facilmente che comunque il sistema resta rotto: a volte l’auto derapa anche senza input del giocatore o sterzando in maniera eccessiva anche su auto che NON dovrebbero esibire questo tipo di comportamento (per esempio la Honda Civic a trazione anteriore) e comunque il freno è così inefficace che è inutile cercare di guidare pulito. Si tratta di un modello di guida su cui non si riesce mai ad avere una sensazione di controllo, perché fin troppo imprevedibile.

Tutto questo discorso, sul quale Ghost Games crede di andare davvero orgogliosa visto che il gioco spesso ci suggerirà di utilizzare la derapata per sterzare, è volato fuori dalla finestra quando ho scoperto che il freno a mano ha proprietà magiche. Il freno a mano è infatti il Pulsante Vittoria di Need For Speed: Heat perché basta un breve tocco per affrontare senza problemi la maggior parte delle curve grazie alla sua esagerata capacità frenante. Nelle curve realmente complicate, come quelle a gomito o i tornanti, è sufficiente tenere premuto il tasto mezzo secondo in più per decelerare come un dragster e facilitare enormemente qualunque gara, purché siate del livello giusto.

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Ecco, mi sarei anche rotto delle solite Mustang e M3 nei giochi di guida. Qualche auto un po’ meno rappresentata?

L’indice di potenza, o in qualunque altro modo l’abbiano chiamato perché io non me lo ricordo, indica le prestazioni generali delle automobili disponibili, che naturalmente cresce all’aumentare dell’efficacia dei pezzi installati. Un’idea ormai scontata nei giochi di guida con un sistema di crescita simil-GDR, ma che in questo caso è stata gestita in maniera piuttosto bislacca: affrontare gli eventi al livello consigliato significa piegarsi al trial & error visto che basta uscire un minimo dal tracciato per farsi superare e conseguentemente seminare, perché una volta che un avversario va in testa nei pressi dell’ultimo giro diventa un missile irraggiungibile. Ho abbassato la difficoltà da Difficile a Medio, ma c’è sempre qualcuno a cui viene il pepe al culo a metà gara e decide improvvisamente di imitare Verstappen. Ma in ogni caso perdere una gara è cosa da poco, salvo quando il primo posto è espressamente richiesto durante un evento della campagna: a qualunque piazzamento il gioco considera la gara completata e paga diligentemente il premio indicato. Si, avete letto correttamente.

Il sistema di personalizzazione è invece qualcosa su cui posso affermare con sicurezza di essere rimasto soddisfatto. La maggior parte delle auto possiede tutta una serie di pezzi dedicati con il quale sbizzarrirsi nella “tamarrizzazione” dei propri carrelli della spesa. Spoiler, paraurti, minigonne, cerchi e scarichi sono ormai degli evergreen, così come un ricco sistema per disegnare le livree e curare con attenzione certosina la verniciatura delle auto, ma ci sono opzioni anche meno ordinarie del solito, come la capacità di modificare il suono proveniente dagli scarichi del motore regolando appositi valori. Il sistema è ripreso pari pari dal reboot del 2015, controlli compresi, ed è stato espanso con nuovi pezzi da installare e nuovi dettagli.

Anche entrando in officina ci si accorge del miglioramento rispetto al passato: è ora possibile installare nuovi motori con delle caratteristiche non progressivamente migliori, ma improntati a modificare lo stile di guida che si vuole adottare. La scelta varia tra grossi V8 turbo, boxer aspirati, duemila turbo da rally e tanto altro, in aggiunta ai classici componenti che consentono direttamente di aumentare le prestazioni che non sto qui a elencare perché se no diventiamo Frequenza Ruote. Notevole anche la possibilità di influenzare la guidabilità su vari tipi di tracciati, installando mescole, sospensioni e barre antirollio per un comportamento più appropriato per la corsa su circuito, su strada, in derapata o fuoristrada, anche se non c’è modifica che risollevi il tremendo modello di guida. Apprezzerei tantissimo un “mechanic mode” dove è possibile modificare liberamente le auto dentro e fuori e portarle in giro a testarle senza preoccuparsi di seguire trame sceme, derapate brutte, eventi irrilevanti e dialoghi ignoranti. Ghost Games facci sognare.

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Si, è possibile modificare la targa e si, è possibile metterci delle bestemmie con un po’ di inventiva.

Ma a me truccare un’auto non basta, specialmente se poi tutto il resto risulta essere terribile. Il problema maggiore di Need For Speed: Heat è proprio il suo essere eccessivamente formulaico, tentando di ricopiare la struttura che ha lasciato un’impronta maggiore nel cuore dei fan della saga invece di perseguire nuovi traguardi. Ed è proprio per via del forte effetto nostalgia presente nella percezione di titoli come Need For Speed: Underground 2 che forse sarebbe meglio accantonare il brand una volta per tutte, invece di cercare ogni anno di riconquistare in qualche modo la folla soccombendo ogni volta all’inevitabile confronto con i classici. Che sia un reboot, una produzione originale o una nuova direzione, ogni volta “it’s just not the same”.

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