The Last of Us Parte II e il tribalismo

Voi da che parte state?

Luca “Master Hayabusa” Sapora
Frequenza Critica
8 min readAug 3, 2020

--

the-last-of-us-part-II-ellie

Questo articolo contiene spoiler su The Last of Us Parte II, Shadow of the Colossus e Spec Ops: The Line.

Mi guardo intorno e vedo scontri, ostilità, una costante e totale svalutazione del punto di vista altrui: si innescano logiche tribali, le persone hanno bisogno di identificarsi in un gruppo e difenderne l’integrità, combattendo quelli della fazione opposta. Potrei star parlando di The Last of Us Parte II, dei WLF e dei Serafiti, di Ellie e di Abby, ma potrei anche star parlando del dibattito intorno a The Last of Us Parte II. E questo è preoccupante.

Dai più innocui “ma allora non l’hai capito” per arrivare ai disgustosi insulti e alle minacce rivolte a scrittori e persino doppiatori di personaggi del gioco, la discussione si muove su binari che non portano da nessuna parte, certamente non al confronto costruttivo. Abbondano le etichette: se non ti è piaciuto sei un hater, o addirittura manchi di empatia, se ti è piaciuto sei un “normie” superficiale, nel migliore dei casi, o un SJW accecato dalla supposta “agenda di Naughty Dog”.

Non che fenomeni del genere non esistessero prima di The Last of Us Parte II, ma trovo che raramente si siano visti scenari così tossici nel mondo videoludico. E questo rende difficile parlarne serenamente.

laura-bailey-threats
Insulti e minacce rivolti a Laura Bailey, “colpevole” di aver doppiato il personaggio di Abby.

Ricorda un po’ il caso di Death Stranding l’anno scorso: un gioco che parla di connessioni e della necessità di ritrovare un contatto con gli altri che è però forse l’unico gioco altrettanto “divisivo” e altrettanto circondato da un “dialogo” tossico e desolante. In questo caso è ironico che a generare certi fenomeni che definirei tribali, caratterizzati dall’incapacità di — e anzi dal totale disinteresse a — comprendere il punto di vista altrui… sia un gioco che parla proprio di queste tematiche.

In tutta onestà non ho interesse a dare un giudizio netto sul gioco, a tentare di dimostrare che sia o che non sia il capolavoro generazionale che la critica ha incoronato più o meno all’unanimità: sarebbe sterile. The Last of Us Parte II è certamente capace di generare sensazioni contrastanti nello stesso fruitore e a maggior ragione in persone diverse, e va benissimo così. Va benissimo che ci sia chi ne sottolinea le possibili inconsistenze, va benissimo che ci sia chi invece ne mette in primo piano le qualità. Ciò che importa è capire che le diverse prospettive non si escludono, che il dialogo non può e non deve trasformarsi in una battaglia, che non essere d’accordo non significa doversi attaccare.

Piuttosto quindi mi sembra possa essere più interessante soffermarsi su uno specifico aspetto del gioco, a partire da quella che è forse la scena che più mi ha colpito: lo scontro col cecchino.

the-last-of-us-part-II-abby-tommy

Sono nel terzo giorno nei panni di Abby, diretto verso il porto, quando all’improvviso Manny mi atterra e mi dice di stare al riparo: un cecchino lo sta puntando. A dire la verità basta fermarsi a riflettere un secondo per capire chi è il cecchino, ma per qualche motivo io non l’ho fatto, non ho riflettuto: che importanza aveva chi fosse, del resto? Era solo un ostacolo da superare, o per meglio dire un nemico da abbattere. La sezione successiva, in cui ci si muove di riparo in riparo facendo ben attenzione a non restare scoperti per più di qualche secondo, è volutamente lunga, estenuante ed estremamente tesa, proprio per generare un sentimento di frustrazione e di odio verso questo nemico così irritante.

Alla fine, dopo aver visto Manny morire davanti ai miei occhi e il volto sconvolto di Abby ricoperto di sangue, riesco a raggiungere il cecchino e nella colluttazione, finalmente, vedo chi è: Tommy.

Questa scena a mio parere racchiude perfettamente il tema portante del gioco. Si dice che The Last of Us Parte II è una storia di vendetta, e indubbiamente lo è, ma io credo che in fondo la vendetta non sia che un pretesto per parlare di altro: tribalismo, prospettiva, deumanizzazione ed empatia. Se è pur vero che non si tratta certo di tematiche originali (ma devono esserlo?), e che certamente il gioco può essere tacciato di esporle in maniera talvolta eccessivamente didascalica, è anche vero che, contrariamente ad altre tematiche, queste vengono in parte espresse attraverso le peculiarità del videogioco.

the-last-of-us-part-II-joel-death

Quando dico che Tommy per me era diventato solo un nemico da abbattere lo sto guardando con gli occhi di Abby, eppure quello stesso personaggio ho imparato a conoscerlo e apprezzarlo nelle vesti di alleato nel corso di ben due giochi. Prendere le parti, identificarsi, è una tendenza umana universale che la narrativa sfrutta da ben prima dell’esistenza dei videogiochi; a differenza di altri però, il medium videoludico ha la capacità di mettere letteralmente il fruitore nei panni di un determinato personaggio, facendogli vivere il mondo dalla sua prospettiva. Da sempre, specialmente nel panorama più mainstream, questo è stato utilizzato principalmente per far vivere al giocatore una cosiddetta “power fantasy”, realizzando in maniera vicaria desideri di potenza e successo: il giocatore è l’Eroe, la sua causa è giusta, i nemici sono abietti e alla fine l’eroe avrà la meglio.

Dai classici platform anni ’80 all’affermazione del paradigma degli sparatutto a sfondo militare questo trope è stato declinato in modi diversi, ma restando uguale a se stesso nella sostanza. Anche qualora le azioni del cosiddetto “eroe” fossero discutibili, la tendenza della gran parte dei giocatori è quella di giustificarlo e di empatizzare, mentre quelle stesse azioni compiute da un personaggio diverso sarebbero considerate orrende, esecrabili, magari anche motivo di odio.

Non che non esistano opere che trovano la propria ragion d’essere proprio nel rovesciamento di questo paradigma. Penso a Shadow of the Colossus, che inizia come il più classico viaggio dell’eroe che cerca di salvare l’amata, per poi operare una brillante ricontestualizzazione delle azioni del giocatore, mostrandone la violenza e l’egoismo, decostruendo in questo modo il classico ruolo dell’eroe videoludico. O penso a Spec Ops: The Line, che inganna il giocatore proprio facendo leva sui luoghi comuni degli shooter a sfondo militaristico, per poi metterlo di fronte alla dissonanza tra le sue convinzioni e le sue azioni, costituendo in questo caso una decostruzione non solo dell’eroe, ma del genere in toto.

Nella maggior parte dei casi però il giocatore è abituato a identificare nel protagonista una forza positiva, a “tifare” per lui a prescindere dalle circostanze.

spec-ops-the-line-heroism

La particolarità di The Last of Us Parte II in questo senso sta nel raccontare la sua storia mettendo il giocatore in condizione di vedere le cose da due punti di vista differenti, opposti e complementari, spingendolo a mettere in discussione gli schemi con cui abitualmente si approccia a questo tipo di esperienze. In questo modo, idealmente, opera una disconnessione tra personaggio e giocatore, dando a quest’ultimo una prospettiva più ampia rispetto a quella relativa e limitata del personaggio.

Se è pur vero che nella rappresentazione della violenza The Last of Us Parte II può essere definito ipocrita e dissonante, perché da un lato la condanna e ne vorrebbe far sentire il peso mentre dall’altro la rende divertente e persino soddisfacente, nel mostrare le conseguenze di quella violenza da due punti di vista differenti riesce in certi casi a ricontestualizzare con successo le azioni precedenti del giocatore. Mi viene in mente il momento in cui si passa per l’ospedale controllato dai WLF nei panni di Abby, muovendoci con serenità in quegli spazi che qualche ora prima avevamo visto come un’arena, dialogando amabilmente con quelli che in quel momento sono a tutti gli effetti dei PNG pacifici, ma che poche ore prima avevamo trucidato senza pietà.

È in momenti come questo che il gioco riesce davvero a mettere sotto una luce diversa la violenza perpetrata dal giocatore, mentre purtroppo tentativi di sanare la dissonanza di un gameplay incatenato dai canoni del videogioco commerciale, come il fatto che i nemici si chiamino per nome e si disperino alla morte di un compagno, raramente raggiungono l’effetto desiderato.

the-last-of-us-part-II-psvita

La tendenza umana all’identificazione da fenomeno individuale diventa fenomeno sociale nel momento in cui si prendono in considerazione i gruppi e l’identità sociale. Sintetizzando, la teoria dell’identità sociale afferma che una parte dell’identità di un individuo è costituita dai gruppi in cui questo si identifica, che il bisogno di appartenenza porta a riconoscersi in un gruppo e percepire come più simili a sé i membri rispetto a quelli che sono al di fuori, azionando processi di favoritismo per l’in-group e svalutazione, o nel peggiore dei casi deumanizzazione, degli “altri”. Questi meccanismi sono alla base dei fenomeni più disparati, dalla console war alle dinamiche di cui ho parlato a inizio articolo, fino ad arrivare a casi ben più gravi come razzismo e discriminazioni di ogni tipo, cui assistiamo purtroppo nella vita reale tutti i giorni.

Del resto Neil Druckmann, nato e cresciuto in Israele, ha sicuramente familiarità con il conflitto tra gruppi diversi e con le discriminazioni, tant’è che non sono pochi i punti di contatto tra il conflitto fittizio WLF-Serafiti e il fin troppo reale conflitto israelo-palestinese. Lo scontro tra WLF e Serafiti serve in tal senso a mostrare le conseguenze più nefaste del tribalismo, della deumanizzazione dell’altro atta a giustificare qualsiasi atrocità commessa dalla propria fazione. Insomma: se ognuno è l’eroe della sua storia, ogni gruppo è il più virtuoso per i suoi membri.

Attraverso l’uso della prospettiva The Last of Us Parte II sembra volerci ricordare che molto dipende dal punto di vista da cui si guarda il mondo, sia all’interno di una narrazione che nel mondo reale, e che la capacità di mettersi nei panni dell’altro va coltivata ad ogni costo. Un messaggio forse banale, ma quanto mai importante in un contesto come quello attuale, in una società in cui le divisioni prosperano e il valore di una vita può dipendere dal colore della sua pelle, dove molti sembrano aver dimenticato il valore dell’empatia.

--

--