Un mondo di mondi aperti — Parte 2

Spostamenti continui ed esplorazione limitata.

Fabrizio "Bix" Salis
Frequenza Critica
10 min readSep 28, 2020

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Geralt di Rivia con il panorama di Toussaint sullo sfondo

Due settimane fa ho chiuso la prima parte di questo speciale facendo riferimento al problema delle dimensioni spesso inutilmente enormi degli open world. Bene, è proprio da lì che riprenderò il filo del discorso, affrontando un argomento strettamente correlato.

Come al solito vi consiglio di dare un’occhiata al nostro Discord se volete discutere di questo e di tanti altri argomenti relativi all’universo dei videogiochi.

Viaggiare nel modo giusto

Parto subito affermando qualcosa che forse alcuni integralisti non accetteranno: per me il viaggio rapido negli open world non è un’eresia. Deve però essere contingentato e contestualizzato. In precedenza ho fatto riferimento a Oblivion e al suo abuso di questa meccanica. Questo abuso è neanche troppo velatamente suggerito dallo sviluppatore stesso, che ha deciso di permettere al giocatore di viaggiare rapidamente verso tutte le città fin dai primissimi minuti. Un buon modo per uccidere il piacere della scoperta nella culla. D’altro canto ci si trova quasi obbligati a ricorrere allo spostamento veloce per il semplice fatto che le distanze sono abbastanza importanti e non succede sostanzialmente niente di interessante durante il percorso, che sia compiuto a piedi o a cavallo. E il pretesto dei bei panorami non regge molto, perché questi alla lunga si rivelano ripetitivi.

Ecco, in molti open world lo spostamento è semplicemente noioso. È un’incombenza che ci tocca sopportare mentre ci dirigiamo verso i punti d’interesse, non è integrato nel gameplay.

Sono davvero pochi i giochi che possono fregiarsi di questa caratteristica, ad esempio Death Stranding, che col suo sistema di gestione dei pesi e dell’equilibrio riesce a mantenere alta l’attenzione del giocatore nonostante un ambiente naturale in larga parte (e volutamente) spoglio. Sul gioco specifico non mi dilungo perché non ho ancora avuto modo di giocarlo, ma vi rimando a quanto scritto dal Lorenzo “GOV” Sabatino sulla questione.

Sam osserva delle montagne in lontananza in Death Stranding

Un altro esempio è quello di Marvel’s Spider-Man, dove lo spostamento è la caratteristica focale del personaggio e si rivela addirittura (molto) più divertente del resto. Delle specifiche magagne della produzione Insomiac ho già parlato altrove.

Non si può ignorare neanche la rilevanza di Breath of the Wild, per cui vi lascio alle parole di Mattia “Harlequin” Mangano:

Nella produzione Nintendo la qualità degli spostamenti è elevatissima: arrampicarsi, cavalcare, improvvisare una zattera, surfare sullo scudo, planare, sono tutte azioni pulitissime e scorrevoli che si alternano con frequenza a seconda della situazione. Sembra scontato, ma donano un ritmo e una gradevolezza al moment-to-moment gameplay invidiabile. E parlando di gameplay, il sistema di fisica emergente è una soluzione che si sposa ottimamente a spazi ampi e una moltitudine di scenari differenti. Proseguendo sulla filosofia della libertà e assenza di vincoli, il giocatore può in ogni momento sfruttare ciò che si ritrova a disposizione, che sia un grosso masso poco lontano o i fulmini di un temporale imprevisto.

Il viaggio può essere reso meno tedioso anche incrementando il dinamismo del mondo di gioco. Se sai che seguendo una determinata strada questa rimane sempre identica a sé stessa sarai molto più propenso a cercare un modo per evitare il percorso. E se invece quel ponte su cui siamo passati la volta precedente è crollato e siamo costretti a cercare una via alternativa? Un passo montano potrebbe essere ostruito dalla neve durante l’inverno, oppure potremmo fare qualche incontro particolare in base alle nostre scelte o all’avanzamento della storia principale. In The Witcher 3 e Assassin’s Creed: Odyssey il fatto che ci sia una guerra in atto non viene quasi mai sfruttato, e per la maggior parte del tempo si ha l’impressione che tutto sia inciso sulla pietra, statico. In Gothic invece, andando avanti nei capitoli, strade già battute diventano più interessanti grazie alla comparsa di nuovi nemici, coerentemente con quanto sta accadendo. Non è tanto, ma è meglio di niente.

L’utilizzo eccessivo del viaggio rapido è spesso conseguenza di grosse falle nel design dei compiti che ci vengono assegnati. Capita fin troppo spesso di essere mandati dall’altra parte della mappa per completare una missione senza che ci sia una ragione apparente. È un problema che nei giochi Bethesda — tra cui Fallout 76, a cui mi sono dedicato di recente — è diventato pressoché endemico. A un certo punto non si capisce più se è lo sviluppatore che ci odia e perciò ci obbliga a fare giri lunghissimi o se è tutta colpa di un arzigogolato algoritmo pensato per far perdere tempo al giocatore.

Non voglio affermare che le missioni debbano per forza essere localizzate nelle vicinanze del punto di partenza, perché se no si perderebbe il senso stesso del mondo aperto. Semplicemente i viaggi devono avere una qualche giustificazione e ci deve essere un buon bilanciamento tra compiti a breve e lunga distanza. Idealmente, durante l’esplorazione dovremmo completarli in maniera naturale e progressiva, senza sentire la necessità di andare subito in luoghi lontanissimi. Si potrebbe visualizzare questa idea come una bolla che si espande progressivamente, salvo qualche “salto” qui e lì.

panorama di Atene in Assassin’s Creed Odyssey

Il modo migliore di inserire il viaggio rapido è integrarlo nell’ambientazione: questo vuol dire per esempio introdurre dei mezzi di trasporto coerenti col mondo di gioco. In tal senso non posso evitare di pensare ai mitici Silt Strider di Morrowind, dei veri e propri “autobus fantasty” presenti nei centri principali. Un’alternativa sono le rune/pietre di teletrasporto di Gothic, oggetti da trovare o da ottenere faticosamente solo dopo aver raggiunto e imparato a conoscere una specifica area.

Una variante altrettanto apprezzabile è quella di Dragon’s Dogma, dove sono sempre presenti delle pietre — tra l’altro ottenute in una fase piuttosto avanzata del gioco — ma è il giocatore che deve decidere dove posizionare strategicamente i punti di partenza e arrivo. Insomma, è positivo quando i sistemi di spostamento veloce sono qualcosa da guadagnare e non una comodità calata dall’alto.

Ho in particolar modo apprezzato il modo in cui il viaggio rapido è stato gestito in Red Dead Redemption 2, titolo che comunque sprona il giocatore a usarlo in maniera abbastanza limitata. Oltre che con treni e diligenze, ci si può muovere rapidamente a cavallo, ma ci si può spostare solo verso i centri urbani già visitati e questa possibilità è vincolata al raggiungimento di una certa fase dell’avventura e all’acquisto di uno specifico aggiornamento del campo (unico punto di partenza possibile). Non solo, il viaggio è davvero percepito come tale perché non si tratta di un banale caricamento, ma di un vero e proprio filmato che riassume la cavalcata del buon Arthur. Non la soluzione istantanea a cui sono abituati molti giocatori moderni, ma un modo perfetto per non rompere l’immersione nelle fasi in cui non controlliamo direttamente il personaggio.

Arthur Morgan a cavallo con una preda in Red Dead Redemption 2

Trasformare il viaggio rapido in qualcosa di concreto permette allo sviluppatore di renderlo più interessante inserendo in mezzo eventi dinamici, incontri casuali, limitazioni relative al tipo di territorio e così via. È un po’ quello che succedeva in diversi rpg classici — Arcanum e Fallout sono due produzioni che mi vengono istintivamente in mente—, dove però la componente open world era di fatto fittizia.

L’esplorazione, o il gusto della scoperta

Un open world senza una componente esplorativa ben strutturata non ha semplicemente senso, eppure in molte produzioni l’esplorazione del mondo è diventata poco importante e pertanto non meritevole di attenzione. In parecchi casi ci viene offerto tutto e subito, e arrivare in un determinato luogo è solo questione di tempo, non di sforzo intellettivo. I punti di interesse sono ben segnalati e raggiungibili senza difficoltà, oltre che inseriti in un ambiente che, di per sé, è sostanzialmente vuoto. Insomma, sembra di fare visita a una lunga serie di cattedrali nel deserto, quello che manca è una vera integrazione tra tutti gli elementi, una forma di organicità.

Il fatto che le zone d’interesse siano solitamente presenti in gran numero porta il giocatore a considerarle come dei nomi da sbarrare su una lista della spesa, dei numeri privi di significato e incapaci di rimanere impressi. Ecco, più in generale gli open world devono smettere di basarsi su liste più o meno lunghe di cose da fare meccanicamente.

la Magnum Opus di Mad Max

Molti degli aspetti migliori della componente esplorativa degli open world li troviamo in Breath of the Wild, come sottolinea Harlequin:

La morfologia di Hyrule è variegata, non banale e sempre leggibile, basta un colpo d’occhio all’orizzonte per individuare ogni volta qualcosa d’interessante, che si tratti di un sacrario, una costruzione in rovina, una conca perfetta per nascondere qualcosa, o anche un miglior punto d’osservazione. La curiosità è costantemente stimolata e premiata, rendendo più che mai spontaneo osservare, viaggiare e scoprire. E non dimentichiamolo, tutte queste azioni avvengono senza costrizioni né indicatori invasivi, chiedendo al giocatore di accendere il cervello e insegnando a godersi la ricerca. Basti pensare alle torri, ottimi punti panoramici ma che non mostrano mai tutto ciò che c’è nell’area, e chiedono in prima persona di prendere note sulla mappa anziché riempirla automaticamente di anonimi segnalini.

A concorrere alla creazione di obiettivi a breve, medio e lungo termine sono anche i vari contenuti del mondo e i suoi sistemi interni. Che sia il bisogno di legna per accendersi un fuoco dove cucinare, la necessità di procurarsi un vestito pesante per sopportare il freddo di un’alta montagna, o la ricerca di equipaggiamento e potenziamenti sempre più forti in vista dello scontro finale, il giocatore è sempre chiamato a guardarsi attorno, a comprendere la distribuzione degli ambienti e le risorse che possono offrire. Un groviglio di dipendenze e risposte a necessità che valorizzano e giustificano l’open world.

panorama iniziale di Breath of the Wild

Quella della mappa è una questione che mi sta particolarmente a cuore. Sono davvero pochi i casi in cui, come in Zelda, è un vero e proprio strumento da studiare e in cui inserire annotazioni; solitamente la apriamo giusto un attimo per decidere il prossimo posto da esplorare, da raggiungere rigorosamente attraverso un percorso lineare e scontato.

Ancora meno sono i prodotti dove la mappa (o la bussola) non è un mero elemento dell’interfaccia, ma un oggetto separato da ottenere. In Gothic per esempio è così, e addirittura nel capolavoro di Piranha Bytes non è presente una singola mappa completa, ma sono diverse e offrono livelli variabili di precisione. Perché la mappa deve essere per forza dettagliata e precisa? Può essere interessante averne a disposizione una capace di sviarci, costringendoci a non fare troppo affidamento ad essa.

In questo senso Fallout 76 è un’enorme occasione persa. La mappa del gioco è infatti riferita a quella che era l’Appalachia prima del bombardamento nucleare, per cui non sappiamo se una determinata area è davvero come viene rappresentata o se esiste ancora. Alla fine però è una questione principalmente estetica, perché la struttura dell’esplorazione rimane quella classica di Bethesda a base di segnalini e bussola onnisciente. Con in più l’aggiunta di qualche torre alla Assassin’s Creed, visto che non vogliamo farci mancare niente.

parte della mappa di Fallout 76

Un mondo ben realizzato è fondamentale per stimolare la vena esplorativa del giocatore. Per questo è importante che ci sia la mano dello sviluppatore. Elementi geografici come formazioni rocciose e montagne, oltre che strutture umane che dominano il circondario, ci permettono di capire la nostra posizione in maniera intuitiva ma non scontata, e si finisce quasi per affezionarsi agli elementi del paesaggio. Raggiungere un luogo solo sfruttando le indicazioni che ci ha dato un NPC è una soddisfazione che non si ha spesso.

Il mondo di gioco deve ovviamente essere realizzato con in mente una formula di questo tipo, non basta rimuovere artificialmente qualche aiuto lasciando inalterato il resto. La rimozione di parte dei segnalini dalla mappa non serve a molto se poi abbiamo a disposizione un falco/corvo/drone che può vedere tutto dall’alto senza particolari problemi. Di che giochi starò mai parlando?

Infine non va sottovalutato il ruolo delle musiche. Queste prima di tutto sono fondamentali nell’accompagnare l’esplorazione, che si tratti di un momento di calma o di una corsa a perdifiato. Inoltre brani ben scritti e diversificati contribuiscono a dare maggiore personalità alle zone che stiamo attraversando e al gioco stesso, rendendoli memorabili. Pezzi del calibro di Far Horizons in Skyrim e Vista Point in Gothic 3 hanno fatto scuola da questo punto di vista.

uno degli ingressi di Vengard in Gothic 3

Senza contare che la musica può essere utilizzata in modo sottile, aiutarci a capire se c’è qualcosa di interessante (o pericoloso) nelle vicinanze. È chiaramente un discorso generale, perché in alcuni casi l’assenza totale di musica può creare una forte atmosfera tanto quanto un’epica melodia orchestrale. Però la mia impressione è che negli open world più recenti l’aspetto musicale sia messo molto in secondo piano.

E con ciò siamo arrivati alla fine della seconda parte di quella che è diventata, volente o nolente, una trilogia. Tra qualche settimana tratterò due ultimi punti: dinamicità e immersività del mondo e questione tecnologica. In particolare la seconda sembra che assumerà una certa rilevanza nei mesi e negli anni a venire, visto l’arrivo della nuova generazione di console, che si porterà inevitabilmente dietro una nuova ondata di open world.

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