White Night: abitare l’economia — Pt. 1

Capitalismo e idolatria nel panorama digitale.

Francesco Toniolo
Frequenza Critica
9 min readMay 15, 2020

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In questo articolo verranno più volte riprese le riflessioni che il filosofo Silvano Petrosino sta sviluppando da diversi anni, a proposito dell’abitare umano. Si tratta di testi come Capovolgimenti. La casa non è una tana, l’economia non è il business (Jaca Book, 2008); La scena umana. Grazie a Derrida e Lévinas (Jaca Book, 2010); Lo stare degli uomini. Sul senso dell’abitare e sul suo dramma, (con E. Garlaschelli, Marietti 1820, 2012). Un punto in particolare, qui, riguarda la ridefinizione del concetto di “economia” in relazione a quella che viene definita “casa”, unita a una riflessione sulle logiche del denaro e del business: Soggettività e denaro. Logica di un inganno, (Jaca Book, 2012); Elogio dell’uomo economico (Vita & Pensiero, 2013); L’idolo. Teoria di una tentazione dalla Bibbia a Lacan (Mimesis, 2015).

L’interesse verso simili tematiche è determinato anche dalla loro universalità, che le rende rintracciabili in numerose produzioni fra cui, negli ultimi anni, alcuni titoli del panorama videoludico. Nel presente testo, in particolare, si vuole prendere in considerazione un videogioco di produzione occidentale: White Night (2015), un’avventura horror in bianco e nero interamente ambientata in una antica magione, in cui i differenti elementi della vicenda (dai suoi personaggi al contrasto stesso di luci e ombre) offrono più chiavi di lettura, fra le quali non manca una prospettiva “economica”.

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La storia di White Night

Boston, 1938: mentre la Great Depression travolge l’America inizia la notte che cambierà la vita di un uomo. Il protagonista e narratore, un personaggio senza nome, abbandona il bar in cui aveva trascorso la serata e si mette alla guida della sua auto. Durante il tragitto una figura femminile attraversa all’improvviso la strada, il veicolo sbanda e l’uomo si ritrova, confuso e ferito, dinnanzi al cancello di un grande e decadente villone. Trascinatosi all’interno dell’edificio in cerca di riparo, ben presto il protagonista si scopre impossibilitato a fuggire. Intorno a lui si manifestano progressivamente due differenti presenze. La prima, luminosa e malinconica, è il fantasma di una giovane donna, Selena, una cantante jazz di origini nordeuropee legata alla presenza della luna. La seconda è uno spirito folle e vendicativo, che si annida fra le ombre notturne della villa per assalire gli sventurati con i suoi artigli spettrali.

Dai diari recuperati in giro per la casa si scopre che quella creatura inquieta, in vita, era stata Margaret Venter-Cross, madre di William Vesper, l’ultimo proprietario della magione. Facendosi strada nell’oscurità, spesso guidato soltanto dalla tenue luce dei suoi fiammiferi, il protagonista della vicenda esplora l’intera casa dalla soffitta al seminterrato, portando alla luce le tracce passate di esistenze folli e crudeli. La pazzia ha attraversato le generazioni della famiglia come una tara genetica, a fianco della sifilide e di altri oscuri malesseri, fino all’ultimo discendente William, macchiatosi dell’assassinio di numerose donne, fra cui la lunare cantante Selena, colei che avrebbe forse potuto salvarlo con la sua presenza e il suo canto. Guidato dallo spirito luminoso di quest’ultima donna, il protagonista riesce infine a uscire dalla villa e a raggiungere la sua macchina, dove scopre — aprendo il bagagliaio — il corpo privo di vita di Selena. A quella vista i ricordi riaffiorano alla sua mente, e lui realizza di essere William Vesper, l’assassino. Riacquisita questa sua identità, non può far altro che raccogliere il cadavere di Selena e adagiarlo nel cimitero della villa, davanti a una lapide recante il nome della donna. Esiste anche un finale segreto alternativo, in cui il corpo di Selena prende il volo e si dirige verso la luna, indicando una natura soprannaturale della donna. Degno di nota il fatto che questo finale sia raggiungibile portando a termine l’avventura in un giorno di luna piena.

I luoghi dell’abitare umano

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L’antica villa che domina White Night con la sua presenza continua è un ambiente per molti aspetti angosciante: privo di luce, sporco e disordinato, con bare disseppellite ammonticchiate nelle stanze e vere e proprie camere di tortura. Richiama, anche per ammissione dei creatori del videogioco, le inquietanti magioni di numerosi horror videoludici precedenti, primo fra tutti lo storico Alone in the Dark (1992). Si tratta di un “luogo” certamente disumano, teatro di atrocità fisiche (inflitte da William Vesper alle sue vittime) e psicologiche (vicendevolmente provocate dai membri della famiglia); non per questo, tuttavia, un simile luogo diventa non umano. Questa villa è al pari della biblica Torre di Babele, ossia «un luogo disumano, anche se è restato comunque un luogo dell’uomo, un luogo in cui l’umano si è messo in scena, e sebbene i babelici abbiano finito per distruggere e soprattutto per distruggersi proprio in quanto uomini, essi tuttavia hanno edificato e prodotto senso, non hanno potuto evitare di produrre senso» (Lo stare degli uomini, cit., p. 22). Oltre ad essere — banalmente — infestata da un fantasma, la villa è infatti “infestata” proprio dal senso prodotto dai suoi abitanti, e dalle tracce concrete che hanno lasciato di tale senso, così come Jacques Derrida indicava che «una città disabitata o estinta […] non è più abitata né semplicemente abbandonata, ma piuttosto invasa [infestata, hanté] dal senso e dalla cultura» (La scrittura e la differenza, Einaudi 1990, p. 6). La stessa nozione di “luogo” indicata in precedenza, del resto, implica un senso di determinatezza e presenza rispetto al termine “spazio”, verso il quale infatti il luogo «si configura necessariamente come “espressione”, vale a dire come una manifestazione, all’interno della pura dimensione spaziale, dell’esclusivo modo d’essere di quel determinato essere» (S. Petrosino, Capovolgimenti, cit., p. 35).

L’idea di un luogo “infestato dal senso” inizia a ridefinire e sfaccettare la presenza delle figure spettrali che attraversano le stanze della villa (e lo stesso avviene con le stanze dell’hotel in The Suicide of Rachel Foster). La cupa e cieca Margaret e la luminosa Selena oltre che come spiriti trapassati iniziano ad apparire come presenze o tracce di un passato. Più precisamente: Margaret e Selena configurano con le loro apparizioni una rappresentazione visiva di una presenza che in realtà attraversa tutto l’edificio; una presenza che riguarda differenti tipologie dell’abitare. Al pari dei due spiriti ogni oggetto della casa, dai quadri alle statue precolombiane, “mostra” un tassello aggiuntivo dell’immagine che va a comporsi, illustrando infine il contrasto formatosi intorno alla vita di William Vesper fra due forme dell’abitare. Illuminanti i numerosi documenti scritti reperibili per la casa in forma di “collezionabili” (ossia sparpagliati e spesso nascosti, per fornire al videogiocatore un ulteriore obiettivo attraverso il loro, pur facoltativo, recupero), come diari e articoli di giornale, ma ancor più di questi oggetti — esplicitamente ‘parlanti’ — possono davvero definirsi “infestati dal senso” altri manufatti che con la loro semplice presenza raccontano la storia di un duplice rapporto di William, con la madre da un lato e con la cantante Selena dall’altro.

Può essere utile, per introdurre questa suddivisione, presentare brevemente la tripartizione dei luoghi (o meglio dei luoghi antropologici, e dunque di forme dell’abitare umano) che Petrosino propone in Capovolgimenti, distinguendo “mondo”, “reale” e “casa”. Il primo termine indica ciò che è “a-portata-di-mano” per il soggetto, è lo «spazio che si raccoglie attorno al soggetto curvandosi secondo la misura del suo godimento. […] qui l’altro è posto, riconosciuto, considerato, apprezzato, sempre e solo a partire dal godimento dello stesso» (Capovolgimenti, p. 39). In altre parole il “mondo” è un atteggiamento del soggetto verso un luogo, basato su di una chiusura all’interno del proprio ordine; «è il singolo soggetto a porre il “mondo”, e il “mondo” è sempre il “suo mondo”, ciò che gli corrisponde perché essenzialmente gli appartiene. […] all’interno del “suo mondo” il soggetto identifica l’altro necessariamente come un “suo oggetto”» (S. Petrosino, L’idolo, p. 66). Tuttavia l’individuo, per quanto possa chiudersi in sé stesso, ripiegare il proprio “mondo” intorno a sé, sperimenta al tempo stesso quella che è l’alterità, «fa anche esperienza dell’altro come altro, vale a dire come ciò il cui essere non si risolve nell’essere un “oggetto” del proprio godimento» (Ivi). Questo secondo atteggiamento è definibile “reale”, ed esso non è una realtà esterna al “mondo”, ma al contrario è già presente all’interno di quest’ultimo, presente e raggiungibile nella dimensione di «ciò che lo eccede, come l’eccezione che si sottrae al suo stesso ordine. Il “reale” non è a-portata-di-mano del soggetto, ma non è mai fuori dalla sua esperienza» (S. Petrosino, Capovolgimenti, p. 44). Il termine “casa”, infine, indica «il luogo per eccellenza all’interno del quale il soggetto cerca di abitare ad un tempo il “qui” e il “là” che lo abitano» (Lo stare degli uomini, p. 61). Questa congiunzione è possibile proprio perché la “casa” si configura — o meglio dovrebbe configurarsi — come un luogo al tempo stesso chiuso e aperto. Una “casa” totalmente aperta sarebbe equiparabile alla “giungla”, e dunque non potrebbe offrirsi come luogo di riparo e raccoglimento. Se fosse invece totalmente chiusa sarebbe una “tana”, ossia una ossessiva e idolatrica ricerca di sicurezza, che passa attraverso la sempre più radicale chiusura rispetto all’altro, fino al suo eccesso estremo (l’unica “tana” a garantire la sicurezza massima e definitiva non è altro che una “tomba”).

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Tornando a White Night è possibile osservare come tutti i personaggi, con differenti modalità e gradazioni, abitino in una “tana”, in un ambiente pertanto in cui «si è sempre soli, anche quando si è molti, allo stesso modo [in cui] in una casa non lo si è mai, anche quando si è l’unico suo abitante» (Capovolgimenti, pp. 52–53). L’alterità non è ammessa, e gli altri individui possono essere avvicinati soltanto come oggetti del proprio godimento, e mai come soggetti. Margaret, ad esempio, ha sempre detestato suo marito Henry Vesper, considerandolo per tutta la durata del loro matrimonio soltanto come un mero strumento per raggiungere il suo scopo: ottenere un figlio che riportasse i Venter-Cross all’antica gloria ormai tramontata. Suo figlio William, allo stesso modo, è per lei uno strumento, certamente più gradito e amato di Henry, ma sempre relegato alla prospettiva di oggetto da plasmare e impiegare a proprio vantaggio. William stesso, d’altra parte, vive nella stessa ottica: odia la madre non in quanto soggetto, ma in quanto opprimente ostacolo da dover rimuovere, senza rendersi conto dell’errore di questa prospettiva. La morte di Margaret infatti non risolve nulla per lui, sia perché il fantasma della donna inizia a perseguitarlo, sia perché (o “soprattutto perché”) questo non risolve l’inquietudine che popola il suo “mondo”, e che lo spinge a rapire, torturare e uccidere prostitute (tutte dai capelli scuri come la madre) in cerca di una soluzione. Eppure in questo “mondo” esiste quel “reale” che rappresenta una alterità. Per William il «volto dell’altro […], questa sua epifania nel chiuso del “mondo”» (L’idolo, p. 69) si manifesta attraverso Selena, la cantante bianca come la luna. Una figura eterea, ma ben lontana dall’essere una «rarefatta presenza celestiale» (Ivi) o una sorta di donna angelicata; Selena è, al pari di William, debole e sola, chiusa nel suo “mondo” (e nell’alcolismo) al momento dell’incontro con lui. Per entrambi la reciproca presenza è un’occasione di apertura, in cui le rispettive “tane” si dischiudono e sopraggiunge lo stupore — ossia una «esperienza eccezionale, ma non dell’eccezionale» (S. Petrosino, Lo stupore, Interlinea, 2012, p. 95) — per la scoperta, tanto semplice e tanto profonda, di una eccedenza dell’altro, che travalica la propria ordinata e chiusa prospettiva. Questo ‘miracolo ordinario’ però, almeno nel loro caso, non è duraturo, e in William dopo poco torna a prevalere un sentimento di paura per questa apertura, così che si sente in dovere di fare nuovamente ‘ordine’ all’interno della sua “tana” e del suo “mondo”. Pugnala Selena, come aveva fatto con le diverse prostitute rapite, il cui sangue aveva offerto alla Luna, in un’ottica prettamente idolatrica: è per lui preferibile porsi al servizio di un oggetto (o meglio di un elemento naturale divinizzato e poi idolatrato, e dunque oggettivato), piuttosto che confrontarsi con — e dunque “aprirsi a” — la viva Selena, una sorta di terrena luna tanto più vicina a lui ma, proprio per questo, tanto più fonte di inquietudine per il modo con cui va ad aprire la chiusura della sua “tana”.

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