Come stiamo trasformando i lettori in contributor

Annalisa Monfreda
Garage DonnaModerna
7 min readJan 22, 2017

C’è chi lo chiama crowdsourcing. Tradotto: informazione dal basso. Una parola nuova per un concetto vecchio. Perché da sempre i giornalisti si sono avvalsi del materiale inviato o raccontato loro da lettori/testimoni. A un certo punto, però, questi ultimi non hanno avuto più bisogno del megafono offerto dai media: potevano pubblicare autonomamente i loro contenuti sul web. E così il giornalista si è trasformato in un segugio a caccia di testimonianze online. Abile perlustratore degli abissi della rete per trovare il tweet di chi c’era, il video amatoriale sul quale apporre il logo del proprio brand giornalistico. Tanta parte del lavoro di redazione, oggi, consiste nel cercare, controllare, chiedere autorizzazione, pubblicare.

Niente da ridire. Eppure, come suggerisce Stuart Allan, professore di giornalismo alla Cardiff University, e autore di Citizen Witnessing: Revisioning Journalism in Times of Crisis,

«si potrebbero stabilire relazioni più innovative e collaborative con i lettori, ascoltatori o spettatori».

Noi di Donna Moderna ci stiamo provando. E qui vi racconto tre casi particolarmente significativi.

Il caso “artrite reumatoide”

Il 30 luglio 2016 muore Anna Marchesini a causa di una malattia autoimmune: l’artrite reumatoide. L’emozione dei lettori è fortissima: l’articolo in cui ricordiamo l’attrice comica registra un picco di visualizzazioni. Decidiamo così di approfondire il tema dal punto di vista scientifico: che cos’è l’artrite reumatoide e come si riconosce? Una valanga di commenti travolge questo post. Non sono commenti come gli altri: si tratta di malati o di parenti di ammalati che raccontano la propria storia.

Ci succede molto spesso. Questa volta, però, ci comportiamo in maniera diversa. Non ci limitiamo a rispondere con parole vagamente consolatorie: chiediamo alle decine di donne che hanno commentato il nostro post di raccontarci la loro vicenda in maniera più “giornalisticamente” organizzata. Le storie che ci arrivano via email hanno una potenza straordinaria: meritano di essere pubblicate anche sul magazine di carta.
Ne scegliamo quattro, mandiamo un fotografo a realizzare i ritratti delle protagoniste e questo è il risultato:

Poco dopo, sul web pubblichiamo un longform con tutte le 14 storie che ci sono arrivate: La parola alle ammalate. Ancora altri commenti, ancora altri contributi che continuiamo a pubblicare online. Come questa struggente Lettera all’artrite reumatoide. L’attenzione non cala. Così decidiamo di tornare sull’argomento anche sul magazine, istituendo un mese della prevenzione dedicato all’artrite reumatoide, in cui un’équipe di medici risponderà gratuitamente alle lettrici in cerca di informazioni sulla malattia:

Nel 2016, gli articoli online che vi ho citato sono stati tra i più letti sul nostro sito. Uno di quei casi (non così frequenti da passare inosservati) in cui il valore giornalistico è stato premiato dai dati di visualizzazione.
Come si è arrivati a questo risultato? Provo a individuare tre condizioni facilmente esportabili in altre realtà.

  1. I giornalisti di Donna Moderna gestiscono i social network in prima persona e investono parte del loro tempo nello scorrere i commenti dei lettori in maniera critica.
  2. Una volta individuati i contributi interessanti, non si sono limitati a editarli e ripubblicarli, ma hanno preso contatti, hanno fatto da coach ai lettori, li hanno allenati a dare forza alla loro storia. Questo non è un caso di contribuzione dal basso per risparmiare tempo o avere contenuti gratuiti, ma un ottimo esempio di giornalisti che diventano “conversation leaders” [Ernst-Jan Pfauth, cofondatore ed editore di De Correspondent]
  3. L’assenza di separazione tra carta e web ha fatto il resto: Donna Moderna è una redazione integrata e quindi capace di valorizzare sul magazine la nuova tipologia di contenuti che la rete ci permette di avere. E di portare in maniera efficace, sul digitale, i contenuti prodotti per la carta.

Il caso Rocco Schiavone

Il personaggio creato dalla penna di Antonio Manzini, una volta approdato sul piccolo schermo, divide il pubblico. Lo sospettavamo, ma per averne conferma poniamo la domanda diretta ai lettori. E lo facciamo sull’unica piazza da cui tutti (o quasi) passano, Facebook, per mezzo di un post nativo, ovvero senza link. Il tema scalda gli utenti: ce ne accorgiamo dalle visualizzazioni e dal numero dei commenti.

Decidiamo quindi di farne un contenuto sulla carta e sul web. Chiediamo due pareri eccellenti: quello di Franco Maccari, segretario generale del sindacato indipendente di polizia (Coisp), e quello di Enzo Varrengia, autore di romanzi gialli. In più pubblichiamo alcuni pareri dei lettori.

Questo è il risultato sul web. E questo sulla carta:

Dopo la pubblicazione, siamo ritornati sul post nativo di Facebook e abbiamo commentato : “Grazie a tutti per aver partecipato alla discussione. Abbiamo rivolto la stessa domanda a due esperti e pubblicato alcuni dei vostri commenti: guardate se c’è il vostro!”. Con tanto di link al pezzo.

Rispetto a quanto raccontato prima, qui ci sono due elementi in più che vorrei sottolineare:

  1. I giornalisti devono instaurare con i lettori un dialogo libero dal ricatto del clic, ovviamente quando la conversazione potrebbe avere un valore giornalisticamente rilevante.
  2. Quando il lettore fornisce, anche se inconsapevolmente, un contenuto di valore, deve esserne messo a conoscenza. Sia perché si sentirà più motivato verso la conversazione sia perché diventerà più responsabile dei toni e dei contenuti della stessa.

Il caso Bebe Vio

A ottobre Matteo Renzi vola da Barack Obama con una delegazione di italiani illustri. Ci sono Roberto Benigni, Paolo Sorrentino, Giorgio Armani… ma gli occhi di tutti sono puntati sulla moglie Agnese e l’atleta paralimpica Bebe Vio. Noi, come gran parte dei giornali, raccontiamo la favola incredibile di Bebe, che per l’occasione riceve in prestito da Dior un abito da sogno. E pubblichiamo la cronaca di costume del viaggio, con tanto di commento sugli abiti e sul programma.

Sui social veniamo travolti dai commenti degli “haters”, gli incattiviti dal clic facile, i professionisti dell’odio. Ci siamo abituati, ma questa volta fa più male. Mittente e destinatario sono donne. E le parole trasudano violenza.

Dopo le prime ore di paralisi e scoramento (pensiero ricorrente: che razza di lettori abbiamo?), la reazione. Decidiamo che, questa volta, a essere contenuto sono proprio gli orribili commenti ricevuti. Così facciamo un articolo sul giornale e un post sul sito in cui li mettiamo in fila, uno dopo l’altro, e chiediamo agli esperti Giovanni Boccia Artieri e Giovanna Cosenza di spiegarci queste reazioni: Tutte contro Agnese e Bebe. Perché?

Anche questo post viene letto tantissimo e scatena un dibattito acceso. Stavolta, però, i commenti sono di natura diversa. Pacati e riflessivi, nella maggior parte dei casi bocciano i toni usati inizialmente. Niente più offese sul naso di Agnese o il vestito di Bebe: i lettori commentano nel merito il contenuto dell’articolo.

Cosa è successo? «C’è stato lo spazio e il tempo per ponderare», ci ha spiegato Giovanna Cosenza. «Ci sono cose che si dicono d’impulso. Poi, quando apri il terreno al dialogo, molti rispondono “ma io non sono veramente così” e ci può essere il disconoscimento di ciò che si era detto/scritto in precedenza. Questo è un buon esempio: indica una strada che è quella dell’approfondimento e della riflessione. Spesso i media preferiscono non percorrerla per avere clic e visualizzazioni. Invece questo caso indica uno scenario alternativo possibile, perché con un intervento giusto, si può alimentare un dibattito, senza scadere di livello e stimolare nei lettori una sana riflessione», conclude l’esperta.

Che cosa abbiamo imparato dunque da questo terzo caso? Una cosa fondamentale:

  1. La conversazione con i lettori può essere una delle migliori armi contro l’odio in rete. Non ci illudiamo di arginare il fenomeno nel suo complesso. Ci accontentiamo di allontanarlo dal nostro sito e dalla nostra fanpage. Creando così uno spazio franco per il giornalismo e la riflessione, libero dal rabbioso brusio che ci allontana dalla verità.

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Annalisa Monfreda
Garage DonnaModerna

Co-founder di Diagonal. Qui parlo di giornalismo, leadership e innovazione