Giovanni Pascoli

Dalla laurea (1882) al matrimonio della sorella Ida

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di Rosita Boschetti

Dopo la laurea discussa con lode con una tesi su Alceo il 17 giugno 1882, Giovanni Pascoli trascorre l’estate tra Argenta e S. Alberto, città in cui vivono i cugini paterni, poi sarà a Bologna e a Sogliano. A Bologna il poeta aveva gli amici dell’Università, i compagni socialisti a lui vicini per gli ideali politici di quegli anni e non ultimo il maestro Carducci che si era interessato per il suo primo incarico di professore liceale nel Ginnasio di Teramo.

A Sogliano Pascoli ritrova invece le due sorelle, dopo i nove anni di studi e di fervido impegno nella Internazionale socialista: uscite dal convento delle Agostiniane dopo lunghi anni, dal 2 luglio del 1882 alloggiano presso la zia Rita Vincenzi, sorella della madre. Finalmente, proprio in quell’estate, Ida e Maria possono riabbracciare il fratello maggiore: resterà con loro una decina di giorni e scriverà qui le strofette intitolate poi da Maria Il Pellegrino che inaugureranno le poesie “famigliari” raccolte postume dalla sorella.

Il periodo immediatamente successivo alla laurea fa da spartiacque tra l’irrequietudine giovanile e la nascita di un progetto di ricostruzione “verso un passato famigliare che lo risucchia perché da questo vissuto in realtà Pascoli non si era mai staccato”, come emerge nella citata lirica Il Pellegrino. Non si tratta, come precisa Garboli, dell’esercizio di un principiante:

Non s’incontra così spesso nella storia della poesia un colpo di scena più pieno di destino di questo evento: la canzonetta, l’abito più noto e leggero della poesia italiana, strappata con un gesto d’irrecusabile complicità famigliare alla sua destinazione letteraria, per celebrare, in termini edificanti, il “fidanzamento” di un poeta con due sorelle.

Quando Pascoli giunge a Sogliano è un poeta già ammirato che ha liriche su giornali nazionali come la Cronaca Bizantina, su cui nel dicembre del 1882 era stata pubblicata la prima delle elaborazioni di Romagna, la Colascionata prima a Severino Ferrari Ridiverde; ritornava quindi in Romagna a ventotto anni da trionfatore, con la sua leggenda, come osserva Garboli, di angelo traviato e ribelle ormai alle spalle.
In una lettera scritta al cugino Antonio Pascoli subito dopo la laurea traspariva l’entusiasmo per una nuova esperienza:

Il prossimo ottobre andrò professore, ma non so ancora dove, forse lontano; ma che importa? Tutto il mondo è paese, ed io ho risoluto di trovar bella la vita, e piacevole il mio destino.

Matera

La nomina inaspettata per una cattedra di latino e greco al Liceo–Ginnasio di Matera separerà nuovamente i fratelli; la lontananza impostagli da questo nuovo incarico in realtà lo spaventava, per il distacco da quei punti di riferimento che negli anni universitari gli avevano consentito di superare le mille difficoltà. La delusione per questa nomina emerge già chiaramente in una lettera al Carducci del 20 settembre 1882:

Con decreto del 15 sono stato nominato reggente di lettere greche e latine al Liceo di Matera che è quasi l’anagramma di Teramo, e che è molto più lontana.

Il viaggio verso Matera è ricordato dal poeta quasi come un evento fuori dal tempo, rimasto indelebile nella memoria: per vie selvagge, attraverso luoghi sinistramente belli, un percorso che rispecchiava il suo stato d’animo tra foreste paurose al lume della luna, cullato dalla carrozza, dalle dolci e monotone canzoni del postiglione.

Dopo una sosta di due giorni a Bari e presa a Grumo una diligenza per Matera, Pascoli giunge in città tra il 6 e il 7 ottobre, in una notte fredda e piovosa; costretto a ripararsi sotto una volta con un compagno di viaggio, passerà la notte seduto sulle valigie, non potendo permettersi una stanza d’albergo.
Il Liceo “Emanuele Duni” di Matera aveva sede in un Convitto nell’ex Seminario diocesano, in quella che era la cosiddetta civitas, la parte alta della città, che si ergeva sui Sassi, due grandi fossati in cui risiedeva la maggior parte della popolazione materana. Oltre al Liceo erano alcuni Palazzi, la scuola, la Sottoprefettura, il Comune ed alcune abitazioni civili.

Il poeta vive e frequenta questa parte della città e pare che, nel corso del suo soggiorno a Matera, non sia mai sceso nei due rioni popolari. Osserva però subito i contadini materani, descrivendoli all’indomani del suo arrivo in una lettera alle sorelle:

Se vedeste! I contadini, o cafoni, vanno vestiti nel loro selvatico e antiquato costume e stanno tutto il giorno, specialmente oggi che è domenica, girelloni per la piazza. Hanno corti brachieri e scarponi grossi senza tacco, una giacca corta e in testa un berrettino di cotone bianco e sòpravi un cappello tondo. Sembra che si siano buttati dal letto in fretta e in furia, e si siano messi per distrazione il cappello sopra il berretto da notte.

In un primo tempo Pascoli e l’amico e collega Antonio Restori alloggiano nel Palazzo della Sottoprefettura, mentre l’anno successivo, grazie all’incarico di riordinare la Biblioteca del Convitto, il poeta otterrà una cameretta vicino alla scala, all’interno dello stesso Liceo. Nonostante l’amicizia di Restori e del Preside Vincenzo Di Paola, coi quali talvolta si concedeva momenti di svago giocando al biliardo o cavalcando, il luogo appare però lontano da tutto quello che Pascoli aveva finora conosciuto:

Non c’è un libro qua: da vent’anni che c’è un liceo a Matera nessuno n’è uscito con tanta cultura da sentire il bisogno d’un qualche libro; i professori pare che abbiano avuto tutti la scienza infusa.

Pascoli e l’amico Antonio Restori a Matera.

Come in passato però, anche a Matera le difficoltà finiscono per spronarlo a migliorare le cose; insieme all’incarico ricevuto per il riordino e l’inventariazione della biblioteca nel 1883, Pascoli ottiene, oltre alla possibilità di mangiare e dormire gratuitamente in Convitto, la grande opportunità per la scuola di acquistare finalmente i primi libri della collezione teubneriana di classici greci. E di ciò gli sarà dato pubblico merito in una cerimonia ufficiale.

Dunque una situazione non agevole, un clima torrido che a fatica gli permetteva di proseguire i suoi lavori con il continuo scirocco, definito vento uggioso mollichiccio e appicicaticcio e asfissiante e soprattutto la mancanza di possibilità economica: Pascoli per quattro mesi non riceve lo stipendio, allora di 1728 lire annue.

Ciò consente anche di capire i lunghi silenzi epistolari con le sorelle; avrebbe di certo preferito inviare loro un regalo, visto che quei nove anni di assenza certamente gli pesavano e proprio da un senso di colpa nei loro confronti e per non disattendere le loro aspettative, il poeta elaborerà un nuovo progetto di vita con loro e per loro.

Alcune lettere con l’amico Severino Ferrari, lasciano però ancora trapelare propositi del tutto opposti a quelli che lo uniscono alle sorelle, progetti di vita matrimoniale che emergono anche nel testo dell’Epistola: si tratta di uno dei testi chiave di Pascoli a ridosso dell’amicizia con Severino, da collegare al progetto delle “Epistole” o “Pistolotti” ideato nel 1883, poi sfumato, nato in margine alla tentazione coniugale:

Caro Severino. Ma sai che son lì lì per saltare il fosso? […] Ora una certa Giulietta Poggi, mia lontana parente, mi ama, pare, pazzamente. Io non l’amo…molto. E’ piccoletta, brunetta, molto magretta, insomma è tutt’al contrario del mio ideale.

Giulietta Poggi, innamorata del poeta negli anni universitari.

Il proposito matrimoniale poi svanirà e il poeta ridefinirà nuovamente i suoi progetti di vita.
Tra le figure più importanti del periodo di Matera va ricordato il Preside del Liceo, Vincenzo Di Paola, il quale stimava a tal punto il poeta da ritenerlo degno di una città migliore di Matera:

Questi sì che è professore bravo, e destinato a divenire bravissimo. Anch’egli è allievo della Scuola Filologica di Bologna, e mostra in sé l’opera di quella Scuola. D’ingegno pronto, di fantasia viva, di cuore buono, fa scuola da artista: dico che mentre legge, analizza, commenta latino e greco con scienza e metodo giusto; vi pone quel che non si definisce, cioè l’anima. Una cosa ha ad imparare, e l’imparerà senza dubbio e presto, l’arte di mantener meglio la disciplina. Non che i giovani non stiano volentieri con lui; stanno, anzi, troppo volentieri: ma egli deve abbandonarsi loro meno. Finora non ha perduto una lezione. Conduce vita ordinatissima, che si compendia in scuola, casa e studio.

Vincenzo Di Paola, Preside del Liceo di Matera.

Da questa relazione del Preside per il biennio 1882–1883, appare chiaro quello che rappresenta forse l’aspetto più significativo del periodo materano, cioè il suo primo approccio all’insegnamento. Nonostante la malinconia della vita quotidiana, Pascoli trova a Matera 34 ragazzi desiderosi di imparare ai quali può finalmente trasmettere qualcosa di bello e ai quali si affeziona sinceramente. Proprio in questa città il poeta scopre davvero che cosa significhi insegnare, manifestando un entusiasmo e un coinvolgimento che difficilmente troverà nelle future sedi di insegnamento. Quando, ad esempio, lesse in classe la traduzione del Rospo di Victor Hugo, fu un vero delirio, che si estese a tutti i convittori.

In una lettera del 1911 indirizzata a Di Paola, Pascoli scrive:

Delle città dove sono stato, Matera è quella che mi sorride di più, quella che io vedo meglio ancora, attraverso un velo di poesia e di malinconia.

A tutti i giovani studenti fu sempre legato, perchè per loro egli aveva unito alla poesia l’esercizio umano che più con la poesia si accorda: la scuola. Il poeta riusciva a far conoscere i grandi poeti latini e greci ai ragazzi, presentandoli non come complessi problemi grammaticali o filologici, ma come voci di vita, opere di poesia e di pensiero di cui la grammatica era soltanto la chiave che serve per entrare e che, quando si è entrati, s’appicca al chiodo, perchè non fa più di bisogno.

A rendere poetico il ricordo di Matera, contribuì certamente uno dei suoi allievi prediletti, Michele Fiore, chiamato da lui Fiorellino, pallido e magro ma dallo sguardo e dal pensiero vivaci, con il quale Pascoli manterrà continui contatti, inviando lettere e consigli a quel ragazzo che forse gli ricordava il piccolo Zvanì.

Restano nella loro corrispondenza, lettere bellissime e toccanti, in cui talvolta il maestro diventa quasi un padre:

Ti scrivo ora per augurarti un anno felice pieno delle gioie della lotta e dello studio, pieno di vittorie per te e di consolazioni per i tuoi genitori. Stai bene? Studi molto? Traduci? Fai dei lavori geniali? Ti cade mai, dopo le ore di travaglio intellettuale, il cuore e la speranza? Avverti che questo è un buon segno. Guai a chi non ha mai dubitato di sé e che è sempre andato avanti con la testa alta, diritto al suo naso.

Il carteggio tra Pascoli e l’allievo materano rivela spesso sentimenti e pensieri che il poeta tende a nascondere alle sorelle, trovando invece nell’amico diciassettenne l’unico che lo potesse capire a fondo, forse proprio perchè conservava ancora un animo fanciullo:

a mano a mano che nuovi dolori, nuove uggie, nuove, anche, ubbie vengono a punzecchiarmi, affannarmi, stracciarmi il cuore, tanto più ritorno a te, mio piccolo amico, e in te fermo il mio pensiero […] sia per buttar giù alla lesta una lettera che debba contenere qualcosa della mia anima, che per distendere uno scritto, che per testificare del mio ingegno, ho provato e provo una specie di doloroso ribrezzo, quasi come di pudore.

L’allievo prediletto di Matera, Michele Fiore.

E si palesa con forza, sempre in questa stessa lettera a Fiorellino, il dolore con cui ancora è costretto a convivere nonostante il tempo trascorso dalla tragedia famigliare:

Fatti coraggio, Fiorellino. E’ vero (chè me ne ricordo anch’io quando era fanciullo e prigioniero come te) che cotesti sono gli unici dispiaceri dei quali si piange; è vero, ma sai perchè? Perchè dopo non si piange più di nulla, di nulla! Bisogna tenerselo dentro, pietrificarselo in cuore, il dolore e il corruccio, o sbruffarlo via fuori in una risata.

A Matera quindi, dopo un primo periodo di adattamento, Pascoli riesce a trovare un po’ di serenità soprattutto grazie agli allievi che lo stimano e alle prime riscossioni dello stipendio che gli permette di inviare un mensile alle sorelle.
Era lui l’unico infatti, dei fratelli Pascoli, ad avere la garanzia di uno stipendio sicuro, mentre Giuseppe e Raffaele non sarebbero stati in grado di provvedere alle sorelle minori. Ida e Maria contavano su di lui e Giovanni non poteva più disattendere i loro desideri; in una lettera da Matera traspariva infatti il suo senso di colpa per averle abbandonate negli anni precendenti:

amate voi me, che ero lontano e parevo indifferente mentre voi vivevate all’ombra del chiostro e gioivate poco, e piangevate molto, e soffrivate le scosse fredde della febbre e i martirii dell’isolamento? Amate voi me, che sono corso a voi soltanto quando escivate dal convento […] noi abbiamo vissuto così separati che io ho bisogno di ricordare continuamente che c’è pure un legame che ci unisce per sempre. La mamma è morta, ma è pur sempre la mamma nostra.

In particolare, il desiderio di Maria era quello di suonare il pianoforte e il fratello tenta in tutti i modi di raggranellare la somma necessaria di 450 lire per acquistarlo; chiede all’amico Fulvio Cantoni di trovare il programma di concorso ai premi hoeufftiani di poesia latina di Amsterdam, partecipa al Premio Vittorio Emanuele ottenendo solo una Menzione onorevole avente valore di premio, non riuscendo quindi ad accontentare la sorella. Oltre a ciò, dovrà anche cedere la somma che stava mettendo da parte per aiutare il fratello Raffaele che, a sua volta, destinava metà dello stipendio all’altro fratello, Giuseppe, ancora disoccupato.

Pascoli diviene quindi il punto di riferimento morale ed economico di tutti i fratelli, i quali contavano sulla sua continua disponibilità, presente e futura, contribuendo a consolidare quel legame indissolubile con la famiglia d’origine che il poeta accetterà come suo destino.

Risale all’aprile del 1884, quando ancora il poeta si trova a Matera, la notizia data alle sorelle della riapertura del processo per l’omicidio del padre, presso il Tribunale di Forlì; in seguito alle rivelazioni fatte da un assassino condannato al carcere a vita, i due fratelli Giovanni e Raffaele vengono chiamati a deporre. Pascoli nella lettera con cui comunica la notizia alle sorelle scrive:

Che spina che ci leverebbe dal cuore, perché io ho avuto sempre timore, morendo d’avere un brutto momento di cordoglio, nel pensare d’avere lasciato impunito l’assassino, e invendicato il nostro babbo, il più onesto uomo di questo mondo.

Anche questa volta però, mancando le prove giuridiche, il processo viene insabbiato.

In una lettera ad un antico alunno di Matera, Vincenzo Barberio, il poeta scrive:

Tutto ricordo di Matera. Furono due begli anni: per me tra i giovinetti così ardenti che mi volevano il bene che io voleva ad essi… Ora vivo presso a poco come allora, e sono sempre quello che ero, salvo che un po’, anzi un bel po’ più vicino alla morte. La gloria è fumo. Amarsi, anche se è per poco, fa caldo alla vita, è fuoco, anche se è focherello.

Verso la fine del suo soggiorno materano, Pascoli si reca, nel luglio del 1884, a Viggiano come Commissario governativo per gli esami, dove dirigeva il Ginnasio il professore Filippo Castronuovo.

Da lì, il 26 luglio scrive al Carducci per dirgli che erano vuote due cattedre di insegnante, descrivendo il paese di Viggiano:

Non è grande, ma nemmeno piccolo; l’aria è ottima, pittoreschi i dintorni: le rovine di Grumentum a pochi passi; arpeggiamenti per tutto che fanno di Viggiano l’Antissa della Lucania. Solamente bisogna rompersi le ossa per venirvi da Potenza in carrozza. Ma sono cose da non badarvi un giovane, che troverebbe poi nel paese tanta pace e letti così soffici e così molli carezze d’aria per riadattarsi da quelle scosse.

Il poeta viene risarcito per il suo incarico con monete d’oro, essendo Viggiano rinomata per i suoi suonatori d’arpa celebri in tutto il mondo, attività che permetteva l’ingresso in città di notevoli ricchezze anche in valuta pregiata. Sarà proprio da questo soggiorno a Viggiano che Pascoli trarrà l’ispirazione per un poemetto, di cui resta soltanto l’inizio, dal titolo L’arpa del viggianese, che può essere considerato come il primo documento pascoliano sul dramma dell’emigrazione, sempre così intimamente sofferto dall’uomo e dal poeta.
Orgoglioso di questo piccolo gruzzolo, Pascoli torna a Sogliano nell’agosto di quell’anno: risale a questi giorni l’abbozzo della prima stesura delle quartine Ora pro nobis, divenuto poi Le monache di Sogliano.

Il 23 agosto il poeta romagnolo è a Bologna, come documenta una scherzosa letterina inviata dal Carducci a Severino, controfirmata da Pascoli:

Caro Severino, ceux-là s’organisent. E’ venuto Giovannino e subito ha domandato: “Sono cominciati i banchetti?” Il buono e innocente Templarius ab ansere [Innocenzo dall’Osso] è pronto. Giovannino organizza. Il Maghetto organizza. Tutti aspettano lei per disorganizzare.

Nascerà durante il periodo trascorso con l’amico Severino, quell’ideale alleanza che chiamarono Biancofiore, a significare la loro poesia, composta da Bianco ovvero Giovannino e Fiore, Severino, a segnare ancora una volta la loro inseparabilità.

Il 21 settembre 1884, Pascoli scrive alle sorelle comunicando il suo imminente trasferimento al Liceo “Pellegrino Rossi” di Massa:

Io ho il dovere d’essere il vostro babbo, a dir meglio, ho il diritto di essere felice in voi con voi per voi. E voglio eseguire il mio dovere ed esigere i miei diritti.

Pur tra mille difficoltà economiche, tra una cambiale e l’altra, tra richieste di prestiti e scadenze, il poeta preferisce in un primo momento andare a Massa da solo, in modo da preparare la casa e fare le spese necessarie affinchè le sorelle potessero poi raggiungerlo, in quello che sarebbe stato il nuovo nido ricostruito.

In realtà la zia Rita, che fino ad allora aveva provveduto alle nipoti, non accettava di buon grado l’intenzione di Giovanni di portare le sorelle con sé a Massa; a questo lui rispondeva definendo ancora una volta il suo progetto come l’assolvimento di un preciso dovere e che, invece di parole di biasimo, avrebbe avuto bisogno di parole di incoraggiamento.

Le sorelle Ida e Maria Pascoli.

Scriverà infatti più avanti nei versi dedicati alla madre:

Sappi, e forse lo sai, nel camposanto; — la bimba dalle lunghe anella d’oro — e l’altra che fu l’ultimo tuo pianto — sappi ch’io le raccolsi e che le adoro […]

Il suo era un impegno che doveva alla madre e ancora sentiva il bisogno di rassicurarla sulla serenità, se non felicità, che avrebbe garantito alle sorelle.

Massa

La casa dei Pascoli a Massa era situata in via della Zecca, fuori dal centro: proprietà degli ebrei Ascoli, aveva alle spalle la bella cerchia delle Apuane, tra le quali, tagliente come uno zaffiro immenso, spiccava la Tambura e davanti, una bella e verde distesa scendeva fino al mare, poco distante.

La città di Massa effettivamente emanava dolcezza per i suoi profumi e il suo clima, con gli orti che circondavano ogni casa, a specchio del Tirreno mare. E forse niente rispondeva al sentimento del poeta più dell’ambiente massese, profumato e fiorito, dove un fazzoletto contiguo alla casa bastava ad accogliere piante di limoni, aranci, mandarini, coltivati insieme alla verdura:

L’avvenire mi si presenta bello e tranquillo, pieno zeppo di felicità, tra gli aranci e i loro soavi effluvi, tra i colli tutti verdi col mare davanti tutto azzurro, e sopra tutto coi miei cari adorati studi. Finalmente!

Il 30 aprile 1885 Pascoli va a Sogliano. Prima di prendere il treno che li condurrà, passando per Bologna, a Massa, i tre fratelli si fermano a Savignano a salutare il nipotino Ruggero, figlio del fratello Giacomo e di Maria Cicognani. A Massa li attendeva una carrozza con il Professor Agnoloni ad accoglierli.

Oltre all’allievo Luigi Staffetti, con cui il poeta manterrà contatti anche in seguito, proprio Francesco Agnoloni, insegnante di storia nello stesso Liceo, sarà uno dei nuovi e numerosi amici di Pascoli in questa città: consueto ritrovo era l’osteria, così come era stato a Bologna, dove poteva assaporare il vino delle colline massesi con gli amici, frequentando in particolare la cantina di Battista Milani, al Borgo del Ponte, oppure l’osteria della Pergola.

Qui, oltre all’Agnoloni, incontrava Pietro Chiappe, Sante Cioni e il professor Bonuccelli. Appena giunto a Massa, Pascoli aveva però subito cercato l’amico di sempre, Severino Ferrari: dopo gli anni dell’Università vissuti insieme, dopo le lettere consolatrici del periodo materano, Pascoli non può rinunciare alla sua amicizia.

Severino, che nel 1885 aveva pubblicato i suoi Bordatini, componimenti goliardico poetici per i quali aveva chiesto all’amico continue correzioni e suggerimenti, nel settembre del 1886 si sposerà con Ida Gini: il legame tra i due amici, che fino a questo momento si era conservato pressochè inalterato, sarà destinato ad allentarsi sempre di più, inevitabilmente, anche se nei mesi estivi Severino continuerà ad essere ospitato dal poeta il quale non pensava che alla sua compagnia.

Tra le altre, una lettera scritta dallo stesso Severino al Carducci, del 1 agosto 1885, evidenzia il desiderio dell’amico Pascoli di lasciare Massa:

Giovannino non vuole più rimanere a Massa. Ma vorrebbe essere traslocato a Bologna, affermando che ella gli ha promesso di annotare in collaborazione Orazio.

Un gruppetto di amici, con a capo Severino, visto che Pascoli a Massa si intristiva e si sfioriva, si interessava per poterlo inserire presso l’università di Firenze, in una cattedra minore, quella di Grammatica e di Stile. Carducci e Gandino però, gli insegnanti degli anni giovanili di Pascoli, non erano d’accordo con l’eventuale nomina a Firenze. Scriverà infatti il Carducci:

Ecco, il Pascoli ha molto ingegno, moltissimo gusto e arte anche di scrivere latino. Quel che si può desiderare giustamente da lui è la cognizione della filologia germanica: egli non volle mai darsene pensiero e neanche studiare il tedesco.

Il poeta sammaurese, che in realtà conosceva benissimo sia il tedesco che il francese, resterà quindi ancora a Massa. Le lettere di questo periodo, lasciano trasparire un sentimento di pace e quiete che spesso diventa quasi di forzata staticità e che inevitabilmente soffoca gli slanci vitali dei fratelli.

Un equilibrio precario, continuamente esposto a sbilanciamenti, specie da parte di Ida e Giovanni, i fratelli meno rassegnati a rinunciare alla “vita”, cioè all’amore.

Un esempio di questo desiderio mai sopito nell’anima del poeta è la corona di madrigali dal titolo L’amorosa giornata, composta proprio nel 1885: qui emerge una gioia di vivere intensa perché legata ad un sentimento d’amore e al sogno di vita coniugale. Forse anche in questo caso, così come Maria sosteneva riguardo alla nota Tessitrice degli anni giovanili, si trattava di pura immaginazione, ma nella memoria di una signora di Massa affiora un ricordo preciso: sua madre le raccontava sempre che Pascoli, lungo il tragitto per recarsi al liceo, passando per la villa Papini Margara, posta sul poggio del Frigido, soleva alzare lo sguardo alle finestre da cui spesso lei rispondeva guardandolo.

Poesia dedicata ad una ragazza di Massa, probabilmente a Barbara Papini.

Pascoli si legherà, anche se in un periodo successivo, alla famiglia di Massa dei Giorgini di Montignoso: stringerà in particolare un intenso rapporto di amicizia con il latinista Giovan Battista Giorgini, marito di Vittoria Manzoni, figlia del grande Alessandro Manzoni. Le lettere con Giorgini e con la figlia Matilde testimoniano un legame ed un’intesa intellettuale conservatasi per lunghi anni.

In una lettera a Donna Matilde, del gennaio 1908, il poeta ringraziava per le piante di mandarino ricevute, ricordandole di inviargli anche le rose:

le rose di macchia io le preferisco…ma nelle siepi. E’ naturale. Mi ricordano tante cose, tante persone, altre strade campestri, altri paesi, altri anni!

Dunque gli anni massesi trascorrono tra momenti di serenità che si riflettono anche nelle poesie del periodo, caratterizzate da un piglio spesso allegro, alternandosi invece ad episodi di depressione, per la continua frustrazione a cui i tre fratelli sono sottoposti. Certamente il poeta cercherà sempre di ricacciare indietro queste spinte che lo avrebbero portato fuori dal nido, concentrandosi sul lavoro.

Il lavoro senza sosta era inoltre necessario per i continui problemi di ordine economico che lo assillavano: oltre all’insegnamento liceale, aveva accettato un incarico di tredici ore settimanali alla scuola tecnica; faceva lezioni private e, tra un lavoro e l’altro, si dedicava alla poesia. Le sue giornate quindi erano impegnatissime e i pochi momenti liberi li trascorreva con Ida e Maria, portandole a passeggio, a Messa, a sentire musica. In una lettera al critico letterario Solerti del maggio 1887, scriveva:

a Massa chi sa quanto ci resterò, e non ho libri né conversazione incoraggiante né barlumi di altra speranza, se questa m’è tolta. Io non voglio incretinire, imbestiare, impietrare: ecco tutto il mio fine. Il bisogno qua mi spinge a lavorare tutto il giorno, facendo ripetizioni, facendo lezione persino di geografia, della quale non so cica.

Gli allievi di Pascoli, al liceo di Massa.

Le qualità manifestate da Pascoli insegnante a Massa emergono da una relazione del Preside della scuola tecnica:

L’insegnamento della storia, geografia e diritti e doveri dei cittadini, si fece pure regolarmente e benché le occupazioni dell’insegnante siano gravi per la carica da lui sostenuta al Regio Liceo, ciò non pertanto vi si dedicò con diligenza, e certamente la scolaresca profittò non poco della copiosa erudizione del Prof. Pascoli. Il sogno del poeta era di ridestare ne’ cervellini d’oggi giorno le memorie antiche soffocate o nascoste sotto le frasche moderne [..,] di restituire alle loro menti il gusto della bellezza, che è piuttosto allontanata che vanità, e l’abito del ragionare che s’è piuttosto smarrito che perduto.

Quello del poeta resterà però soltanto un sogno. Dovrà infatti constatare, a parte qualche raro caso, che mancava la curiosità che avviva, la fede che sprona allo studio e il solo fine che gli studenti si proponevano era la licenza.

Nel periodo massese, Pascoli fa studi di poesia e di lingua locale, approfondisce le sue esperienze liriche e scrive alcune poesie che, pubblicate in un primo tempo sul settimanale fiorentino di Angiolo Orvieto, Vita Nuova, sono veri e propri annunci della raccolta che vedrà la luce dopo pochi anni, Myricae, opera che ancora oggi è riconosciuta come prezioso contributo per l’identità italiana.

In una lettera a Solerti scritta nel 1887, inoltre, Pascoli esprimeva il desiderio di realizzare un’antologia di storia greca per i ragazzi:

Avrebbe dovuto essere un lavoro che pur essendo corretto e rigoroso si adattasse alle intelligenze de’ ragazzi meglio che i soliti sommari, secchi da far paura, e qualche cosa concedesse alla fantasia e al cuore giovanile. Avrei voluto far vivere ai ragazzi la vita d’altri tempi e d’altri popoli, non far loro imparare una filza di date.

Con il gruppo fiorentino della Vita Nuova, Pascoli viene in contatto grazie a Giuseppe Saverio Gargano, attivissimo critico del Marzocco, dal quale viene invitato a collaborare: i due sonetti che appaiono nel numero del febbraio 1889, La Siepe e Il nido sanciscono l’inizio della collaborazione con il giornale.

Nel 1886, in occasione delle nozze dell’amico Severino, aveva inoltre pubblicato la raccolta di otto madrigali intitolata L’ultima passeggiata che comprendeva capolavori quali Arano, Lavandare, Carrettiere, versi scritti proprio a Massa dove il poeta aveva ritrovato la sua grande creatività. Nel novembre del 1887, Pascoli fa stampare al tipografo livornese Giusti una raccolta di otto sonetti, in 25 esemplari, per le nozze del fratello Raffaele con la milanese Angiola Quadri.

Il D’Annunzio, col quale Pascoli aveva collaborato per la Cronaca Bizantina nel 1885, così commenterà sulla Tribuna questo libello:

Contiene otto soli sonetti; ma questi otto son così nitidi, così lucidi, d’una così nobile eleganza, d’una vivezza e freschezza di lingua così felici.

Il soggiorno massese non rappresenta però soltanto una parentesi di serenità nella vita di Pascoli. I problemi economici lo attanagliano e non potendo più dilazionare tutti i debiti contratti per l’affitto della casa e per il mobilio, l’unica alternativa appare quella di farsi dare, dall’amministratore savignanese Vendemini, il denaro spettante alle sorelle come garanzia sui mobili.

Scrive in questo periodo a Severino:

la miseria ha fatto lentamente perire il mio cervello: ne ha strizzato tutto il sugo, e ora minaccia di distruggermi anche la dolce vita.

Oltre a questa afflizione di carattere economico, dovuta anche alle continue richieste di prestito da parte dei fratelli Raffaele e Giuseppe, presto anche tra Ida e Maria appaiono dei contrasti. Si tratta di pure supposizioni, ma a poco più di un anno dal trasferimento a Massa, troviamo sempre più spesso Ida a Sogliano e scorrendo le pagine di Maria destinate alla sorella maggiore, emerge la paura di essere disprezzata da lei, con promesse di migliorare il proprio comportamento e richieste di perdono; d’altra parte, già nell’ottobre del 1884, alla vigilia della partenza per Massa, il poeta aveva dettato alle sorelle, quasi come ammaestramento, la fresca novellina Le due fanciulle, che contiene in sé già il ritratto e il destino di Ida e Maria:

C’erano una volta in un paesello, che non voglio dire, due fanciulle che non voglio nominare. L’una, la più piccina, era buona e pensosa come un angiolo emigrato in terra per ragioni di servizio celeste; l’altra, era capricciosetta e bizzarra, diciamolo pure, come una demonietta scappata di laggiù un giorno di gran faccende per i suoi, che non le badavano. Questa aveva, difatti, nei suoi capelli, un poco arruffati, quasi una vampa che al sole pareva d’oro; l’altra, nel suo visino palliduccio e negli occhietti quasi smarriti, aveva ancora un’aria di Paradiso.

Possiamo supporre quindi che la convivenza creasse degli attriti fra le due, tanto che sempre più spesso troveremo Ida lontana dai fratelli, sino al distacco definitivo con il matrimonio con Salvatore Berti nel 1895. E probabilmente questa situazione pesava anche al poeta, il quale aveva rinunciato a tutto per la realizzazione del progetto del “nido” a tre e piano piano invece lo vedeva sfumare.

Riguardo alla convivenza dei tre fratelli, può essere interessante notare la puntualizzazione fatta dal poeta al critico letterario Angelo Solerti in una sua lettera del 12 settembre 1885:

nella Farfalla si legge: nella riposata stanza; non: nella più riposta. Il verso, come è stampato, tintinna meglio all’orecchio, ma suona molto peggio all’intendimento. Perchè Ida e Maria sono mie sorelle. Non so perchè le debba condurre in stanza così riposta.

Nell’opuscolo donato alla sorella Ida in occasione delle sue nozze, Pascoli ricordando Massa, scriverà:

A me pareva di aver due figlie, e l’amore che me le aveva date, aveva lasciato un fondo di delizia nell’intimo del cuore, ma non una traccia nella mente. Era un mistero assai lontano.

Un mistero lontano ma per tutta la vita alla base delle sue scelte.

Livorno

I fratelli Pascoli si trasferiscono a Livorno il 31 ottobre 1887. Dalla casa di via della Zecca, ricorda Maria nelle sue memorie, ci ritrovammo in uno squallido appartamento a un quarto piano di via Micali mentre in seguito si sposteranno in un appartamento più grande, con un piccolo giardino, sempre nella stessa via.

Pascoli a Livorno, 1892.

Il poeta era stato trasferito al Liceo Niccolini di Livorno, il cui Preside era Ottaviano Targioni Tozzetti, ad insegnare latino e greco, con lo stesso stipendio di Massa, 2160 lire annue, che poi saliranno dopo due anni e mezzo a 2400 lire.

La vita a Livorno era molto più cara che a Massa e i fratelli possedevano solo una parte di mobilio, c’erano quindi nuove spese da sostenere. Ancora una volta Pascoli si rimbocca le maniche: darà lezioni private e addirittura accoglierà in casa un ragazzo di quattordici anni che doveva essere preparato alla licenza ginnasiale, oltre a portare avanti un ulteriore incarico presso il liceo S. Giorgio dell’Ardenza. Un lavoro senza respiro, un carico che gli derivava dall’essere l’unico, dell’intera famiglia di origine, ad avere delle entrate sicure e questo i fratelli lo sapevano bene, soprattutto Giuseppe; quest’ultimo compariva ad intervalli regolari per chiedere aiuti economici, creando non poche difficoltà al generoso fratello.

Due allievi di Pascoli a Livorno, Dino Provenzal e Luigi Valli, ricordano così il loro insegnante:

Giudicato con gli occhi e la mente di un ispettore delle scuole medie, il Pascoli non sarebbe stato certo un buon insegnante. Troppo spesso, infatti, egli si abbandonava a digressioni che erano quasi dei soliloqui. Gli pareva una profanazione esporre, analizzare, tormentare le pagine sacre di Virgilio e d’Omero dinanzi a dei ragazzi i quali consideravano i sommi poeti dell’antichità come ponti sui quali bisogna passar per forza per diventare medici, avvocati, farmacisti.

Provenzal ricordava in particolare la giocosità e l’ironia del professore, oltre all’attenzione che dedicava alla particolarità del vocabolario livornese. Anche Valli sottolinea la giovialità del tutto romagnola, di un insegnante vicino ai ragazzi, che non aveva nulla della gravità professorale.

Ecco come lo descrive:

A giorni entrava in classe accigliato, cupo, come se una notizia terribile lo avesse colpito allora allora. Stava sopra pensiero, riusciva a fatica a badare a noi, e ad un tratto una ingenua sciocchezza detta da un ragazzo lo faceva ridere, lo rasserenava e pareva cambiare colore a tutti i suoi pensieri.

La casa dei fratelli Pascoli era allietata dalla presenza di tanti animali: varie specie di uccelli, porcellini d’India, un merlo spelacchiato, come ricorda l’allievo, che saltellava per casa e al quale i ragazzi portavano in dono un cartoccetto pieno di grilli. Anche a Livorno, quindi, così come era stato a Matera e a Massa, Pascoli intrattiene rapporti amichevoli con gli alunni, che spesso capitavano nella casa del poeta e ai quali egli aveva presentato, sorridente, l’amato cane Gulì, portandolo con sé a scuola dicendo: La mia famiglia s’è accresciuta di una persona. Era proprio così. Gulì era molto di più di un semplice animale domestico, occupava il ruolo di vero e proprio membro della famiglia Pascoli, riceveva le cure e l’affetto dei fratelli che ne erano ricambiati.

A Livorno Pascoli trascorreva i pochi momenti liberi nella fiaschetteria di Pilade Cipriani, in via Maggi, nella cui saletta spesso si trovava con colleghi ed amici: Ettore Toci, Targioni Tozzetti, il canonico Francesco Polese, Carlo Bevilacqua (genero del Carducci), Giovanni Marradi e, a volte, compariva in qualche serata anche lo stesso Carducci. Qui spesso Pascoli si compiaceva nell’ascoltare le poesie imparate a scuola dai bambini, chiamando a sé la Luvisina, figlia del Cipriani, o il piccolo Piero, fratello dell’amico Nannipieri ed offrendo loro vin santo e biscottini. Altro luogo di ritrovo a Livorno era la trattoria del Noccioli, detta “Rondinella”, all’inizio di via Verdi.

Risale al 1891 l’edizione ufficiale di Myricae, edita in occasione delle nozze di un altro amico della giovinezza, Raffaello Marcovigi, detto il Biondino, sposatosi il 22 luglio di quell’anno: in 100 esemplari, conteneva soltanto 22 liriche che nelle edizioni successive andranno accrescendosi, fino a divenire 156. Il titolo fu scelto da Pascoli perché si trattava di fioretti umili che non danno nell’occhio, ma pieni di sottile profumo e di delicate sfumature: i quali come richiamarti alla memoria non potranno la gioia, che non fu, così né pur l’affanno, che in essi non pare. Chè fiorirono in quei momenti, brevi e rari, in cui l’uno moriva e l’altra non era; e io guardava, un poco stupito, intorno a me, con occhi velati sì ma attenti.

L’opera non solo perfezionava tutta la produzione precedente ma ne preparava anche quella successiva.

Tra le recensioni delle prime Myricae, quella del giornalista livornese Pietro Micheli coglie in pieno l’originalità della poesia pascoliana, che appare agli occhi di tutti poesia vera e nuova:

Il Pascoli ha saputo fare una cosa ancora più ardua: ha rapito alla natura certe sfumature di colorito, e all’anima certe delicatezze di sentimento così fuggevoli che, a volerle rendere con la parola, pareva si dovessero guastare inevitabilmente, come, anche col tocco più delicato, si guastano i colori di certe farfalle, che non si posano a lungo nemmeno sulla corolla di un fiore.

A distanza però di soli sei mesi dalla prima edizione, nel gennaio del 1892, il tono della raccolta poetica cambia profondamente: quel dolore per la tragedia della propria famiglia, che nelle prime poesie pare avvertirsi appena, si mette di colpo in primo piano, invadendo tutto. Quella felicità prima inseguita e talvolta quasi raggiunta, ora sembra improvvisamente irraggiungibile.
In questo periodo forse per la prima volta il poeta realizza che la sua vita non può essere protesa verso un avvenire di felicità, ma è inevitabilmente legata al passato, come se il tragico destino che aveva colpito la famiglia continuasse a gravare irrimediabilmente sulla sua vita.

Nella prefazione alla seconda edizione egli, parlando del padre ucciso, scriveva:

Egli fu colpito nella strada, a qualche miglio da casa sua; ed è ancora per me (e anche per voi, che sapete) là, nella strada.

Lo stesso Pascoli non trova contrasto tra le prefazioni, apparentemente così lontane, delle due edizioni di Myricae: spiegherà semplicemente che per lui la vita era buona ed il mondo bello, che i mali della vita non erano poi così tanti, solo la cattiveria degli uomini poteva essere inesorabile.

Nascono a Livorno le due antologie scolastiche, Lyra Romana ed Epos, inizia in questa città anche la produzione poetica latina; scriverà in una sola notte il poemetto Veianius il primo dei tredici componimenti latini che gli varranno la medaglia d’oro al concorso Hoeufftiano di Amsterdam, giudicato bellissimo anche dal “refrattario” Carducci. Medaglia accolta con gioia indicibile e a malincuore impegnata solo quattro mesi dopo, per i consueti problemi economici. Anche nell’anno successivo, nel 1893, vedrà la luce un altro poemetto latino, Gladiatores, che ricevette la menzione con lode al concorso olandese.

Una delle 13 medaglie d’oro vinte da Pascoli per la poesia latina.

Già a partire dai primi anni di Livorno, quando spesso Ida si reca a Sogliano, Pascoli prende atto del fatto che prima o poi la Reginella dovrà lasciare il nido.

In una lettera del poeta ad Ida relativa ai primi anni livornesi, emerge chiaramente un altro dei motivi che portavano spesso Ida in Romagna: il tentativo di risolvere una volta per tutte la questione del fratello Giuseppe, senza lavoro e alla continua ricerca di prestiti, recandosi a San Mauro. Qui, tramite l’amico Pirozz e il Sindaco Leopoldo Tosi, Ida avrebbe potuto trattare a nome di Giovanni, rispetto ad un mensile che egli avrebbe potuto inviare loro con l’obiettivo di trovare una collocazione per quel fratello che gli creava tanti problemi.

Riguardo al fidanzamento di Ida, non si tratta di un avvenimento improvviso e temuto, così come spesso è stato sottolineato. Le numerose missive tra i fratelli documentano infatti la presenza del poeta all’interno della relazione che porterà Ida al matrimonio, il quale osserva dando consigli e, nonostante la tristezza per la situazione che ormai sta vivendo, più volte rassicurerà Ida in proposito.

Ecco ad esempio le parole del poeta in una lettera del febbraio 1891:

Ora io sento il triste dovere di dirti, o mia sorella d’amore, che tu non hai da far consistere la tua felicità nella nostra. Lo so che non ti vedremmo partire senza lagrime infinite e che sentiremmo l’uno e l’altra spengersi una buona metà della nostra vita; ma noi t’ameremmo sempre e non ti attribuiremmo a torto l’aver seguito la tua stella e la tua fortuna. Ti dico questo, caro angiolino, nel caso che tu abbia a sostenere qualche battaglia tra due beni e due amori: se quello che ti ci contrasta, non è bene e non è amore, oh! allora, Iduccia, son parole vane le mie: qui sei adorata; resta con noi.

L’infelicità di Pascoli si va invece acuendo e ciò appare chiarissimo in una lettera risalente all’anno successivo, all’amico Severino:

la mia vita da che non ti vedo e non ti parlo nemmeno per iscritto, passa melanconica, ed è turbata da molte ragioni e specialmente dalla considerazione dell’inutilità e vacuità e vanità della vita mia e delle mie sorelle. Giunti a questo punto, ci siamo accorti tutti e tre, credo, che abbiamo sbagliato nella somma la vita; e non si rinasce.

Un documento importantissimo, questo, che mette in luce la presa di coscienza dell’errore irrimediabile in cui i tre fratelli erano caduti, pensando di trovare una parvenza di felicità vivendo insieme, una sofferenza nata molto prima della data delle nozze di Ida.

In realtà c’era stato un tentativo di sfiorare questa felicità tanto sognata da Pascoli. Nell’autunno del 1888, soltanto un anno dopo il trasferimento a Livorno, nasce inaspettatamente l’innamoramento per una ragazza, ventenne, figlia di un mastro di musica: Lia Bianchi. L’innamoramento, da notare, avviene proprio nel periodo in cui Maria si allontana da Livorno per raggiungere la zia a Sogliano.

Pascoli frequenta la ragazza durante piccole serate musicali e se ne invaghisce, certamente anche per la sua bellezza. Naturalmente egli si confida di questo suo sentimento solo con il fratello Falino, nascondendolo alle sorelle che invece verranno a conoscenza dell’idillio da Bice, figlia del Carducci e moglie di Carlo Bevilacqua. Scrive Maria:

un giorno, che io ero a passeggio con lui, vidi sulla terrazzetta d’un tram che veniva oltre, una signorina che sorrideva e salutava e risalutava rivolta verso noi. Mi volsi a guardar lui. Sembrava trasognato!

La relazione, scoperta dalle sorelle, viene troncata sul nascere. In seguito a questa infrazione del sistema famigliare, anche Ida aveva infatti accettato le visite sempre più frequenti del romagnolo Fortunato Vitali; nel momento in cui Pascoli rinuncia a Lia, il nido si ricompone, ma solo apparentemente.
A partire dall’anno successivo, Ida sempre più spesso è a Sogliano, non solo per curare la sua salute, ma in particolare per seguire da vicino gli interessi delle sorelle riguardanti l’eredità materna, compromessa ormai a causa di Emilio David. Le lettere del periodo documentano invii di denaro da parte di Giovanni alla sorella, oltre a continue richieste di notizie rispetto ad un fidanzamento ormai da farsi e consigli che appaiono, a tutti gli effetti, quelli di un padre affettuoso che vorrebbe proteggerla da eventuali delusioni.

Nel marzo del 1891 giungerà a Livorno anche il cuginetto Placido, figlio di Emilio David di Sogliano, ospitato nella casa dei Pascoli in quella che era la seconda abitazione scelta dal poeta, sempre in via Micali:

Io ho preso in casa il figliuolo bambino del mio cugino David, e nepotino della mia buona zia. La zia è quasi alla miseria; il cugino c’è già. Ho preso il bimbo per tirarlo su meglio che non sarebbe venuto a Sogliano e fare un po’ di bene alla sorella della mia mamma.

Alfredo Lenzoni, allievo di Pascoli, ricordava così Placido David:

Io e Paolo Arcari, altro compagno di quelli anni lontani e felici, lo avemmo quasi sempre vicino di banco. Era l’amico nostro prediletto, e a traverso le sue informazioni seguivamo ammirati la vita intima della famiglia Pascoli, così raccolta, così provvida, così affettuosa […] mai sazi di chiedere, mai sazi di udire.

Grazie a Placido dunque gli alunni di Pascoli potevano carpire qualcosa della sua vita famigliare e della sua quotidianità nella casa di Livorno:
era un fedele fumatore di pipa, si era formato un erbario con fiori e piante disseccate, da lui stesso coltivate o raccolte, la casa era piena di gabbie, tutta rassettata e linda, dove Ida sfaccendava e Maria pregava, dove il Pascoli studiava, sognava, cantava.

Nell’estate del 1892 Ida era tornata a Livorno mentre Placido era tornato a casa a Sogliano. Il soggiorno soglianese di Ida è quindi motivato dalla necessità di controllare gli interessi dei Pascoli riguardanti l’eredità materna e, come affermato dal poeta stesso nella seguente missiva, il futuro matrimonio di Ida appare fondamentalmente legato a questo: si tratta dell’unico modo possibile per potere finalmente riottenere i beni materni, in caso contrario non restava loro che rompere i rapporti con i parenti di Sogliano.

Nell’ aprile del 1893 Pascoli infatti scriverà:

o tu prendi marito e, non dubitare, prima ancora di esserlo, si farà dare o assicurare, o in denaro o in terra o come parrà a lui, quello che vi si deve; o tu non prendi marito e noi cessiamo, per forza, le relazioni intime e continue che abbiamo con loro, relazioni tenute strettissime da Placido che tra poco più di due mesi, tornerà a casa; e allora, quando ci parrà, potremo coi mezzi legali ritornare in possesso dell’eredità della maniera che ci potrà essere utile a vivere se non felici almeno tranquilli.
Ma di questa seconda supposizione non faccio il conto che della prima. E a proposito: tu sei troppo facile a scoraggiarti. Aspetta! E’ impossibile che certe cose avvengano sui due piedi […]

Le lettere quindi illuminano gli anni che precedono il matrimonio di Ida, sin dal 1891: i fratelli osservano da lontano i molteplici tentativi della sorella finalizzati alle nozze e Pascoli è il fratello maggiore che rassicura, che protegge, che consiglia amorevolmente dileguando anche i dubbi relativi all’eventuale dote:

Quanto all’incerto, sfido: posso morire; ma ho qualche cosa in me che mi dice che, le cose andando bene, ciò non sarà così presto. E, prima, ne ho delle corde al mio arco. Io lascio batter la grancassa agli altri, e lavoro e medito: volesse Dio che ciò potessi fare con la serenità che mi darebbe il tuo bene, mia adorata Du!

E in un’altra lettera del 4 maggio ’93, elargisce consigli sull’amore:

mettiti in capo che in amore non c’è timidezza che tenga: l’amore fa diventare leoni i lepri. Ricordati di non ricorrere all’ipotesi della timidezza, nel tuo pensiero; se non si dichiara, è segno che non t’ama. E non credere ad altro. Ma tutto questo lo sai da te, mia povera Du, e ti sdegnerai forse che le dica io, così poco intelligente in fatto d’amore. Ma non ti sdegnare: l’affetto fa sempre temere, e se io temo è perché ti voglio bene.

Non solo dunque un nuovo progetto, quello del matrimonio di Ida, contemplato insieme; le nozze appaiono ormai indispensabili ai fini della “serenità” familiare e lavorativa del poeta, sapendo però che ciò avrebbe comportato un doloroso cambiamento di rotta nella loro vita e, soprattutto, la presa di coscienza di un sacrificio inutile da parte di un uomo che ora lascia batter la grancassa agli altri.

Giovanni e Maria aspetteranno per mesi, con ansia, la dichiarazione da parte di Berti affinchè il matrimonio si faccia, dunque era un evento voluto da tutti, specialmente da Giovanni. Berti pareva non decidersi mai a dichiararsi e Giovanni continuava nel contempo a chiedere insistentemente alla sorella di troncare di netto i rapporti con Sogliano a causa di Emilio:

Se tu patisci lontana da casa , noi patiamo lontani da te: questo è certo; se non ci fosse, sarebbe segno che non ci vogliamo bene. Ma è un dispiacere, dicevo, che bisogna da forti vincere; in vista dell’utile della cosa. …necessità alla quale pieghiamo il capo, sebben dolenti, perché così fatta è la vita.
Nella primavera del 1893 il fratello, presagendo già quello che sarebbe avvenuto in seguito al distacco di Ida, riferendosi a se stesso e a Maria, scrive:
Ho il presentimento che il periodo della tua vita, il quale cominciò otto anni fa, sia finito. Sii felice.

E poco prima aveva scritto:

il nostro guaio è la mancanza d’avvenire. E’ come se camminassimo senza arrivar mai e solo per il gusto di camminare […] Della tua felicità sei giudice tu sola, non far trapelare se ti piace o non ti piace; o tuttalpiù, se ti piace e presenti che piaci a lui, fallo capire […] ma tu, in questa aspettazione che è, come tu dici, per ora senza speranza, non ricusare, all’occorrenza, di esaminare altre occasioni che ti si possano presentare e di esaminrae con occhio sereno […] la nostra vita corre senza colore.

C’è una cupa rassegnazione che va sempre più delineandosi man mano che si avvicina il momento della nuova vita coniugale della sorella:

E ora cara Du che forse sei per entrare nel vestibolo della nuova vita, ti prego di non darci della cronaca sentimentale se non le notizie definitive. Ossia avvertici quando è assolutamente certo il suo amore e destinata la vostra unione, così prepareremo tutto anche prima che tu ritorni. Certi particolari non si convengono alla vita monastica che siamo destinati a menar noi.

E ancora, in una lettera di poco successiva:

Come è possibile consolare una vita così vuota, come la mia, senza avvenire! Che anno disgraziato!

La sera del 22 settembre del 1893, Pascoli lascia Livorno alla volta di Roma, chiamato dal Ministro Ferdinando Martini come segretario di una commissione di studio per l’insegnamento delle materie classiche nei Licei, rientrando dopo pochi giorni a casa.

La visita alla città eterna gli consente di attingere a nuove fonti di ispirazione: il poeta stamperà infatti in questo periodo altre due odi latine, Crepereia Thryphaena e Gallus moriens, oltre ai poemetti Phidyle, Myrmèdon e Laureolus, dei quali i primi due ancora una volta premiati con medaglia d’oro.

Apprezzato da tutti in città, Pascoli oltre ad ottenere la cittadinanza onoraria livornese, sarà nominato per ben due volte consigliere comunale, senza mai prendere parte però attivamente ai lavori del Consiglio; in realtà la politica non lo interessava più e quella fede socialista degli anni universitari che lo aveva visto in prima linea nella lotta, si era ora trasformata in quello che Pascoli stesso definiva un socialismo umanitario.

Risale all’estate del 1894 l’improvvisa scomparsa di Placido David, in seguito a grave malattia; Giovanni e Maria accorreranno subito a Sogliano ma il funerale era già stato celebrato.

A fine anno Pascoli è di nuovo a Roma, avendo finalmente ottenuto un comando al Ministero della Pubblica Istruzione, aggregato alla Commissione per i libri di testo e dispensato per un anno dall’insegnamento.

E’ questa l’occasione che gli consentirà di conoscere Adolfo De Bosis, colto uomo d’affari nonché poeta, dal quale sarà invitato a collaborare alla celebre rivista Il Convito: fondata nel gennaio del 1895 da De Bosis, D’Annunzio e dal critico d’arte Angelo Conti, la rivista era caratterizzata da una lussuosa veste tipografica. L’amico Ugo Ojetti ricorda, a tale proposito, come il poeta romagnolo si aggirasse per la sontuosa redazione del Convito:

Bisognava vedere là dentro Giovanni Pascoli col suo cagnolo Gulì. Girava attorno gli occhi rotondi per scegliersi un posticino senza petali di rose e senza cuscini, tirava Gulì pel laccio finchè gli si accovacciava tra i piedi possibilmente su un angolo di pavimento che fosse nudo di tappeti persiani.

Pascoli collabora subito con la rivista, all’uscita del primo numero, con il poemetto Gog e Magog, pubblicato in prima pagina. Sul secondo numero del Convito sarà invece la volta del poemetto Alexandros, entrato più tardi, senza varianti, a far parte dei Poemi Conviviali. Gabriele D’Annunzio, assaporata la poesia pascoliana, battezzerà Pascoli “dad?????” ovvero portatore di fiaccola dei tempi nuovi.

Nel marzo del 1895 inoltre saranno pubblicate a Livorno le due antologie scolastiche, per i tipi del Giusti: Lyra Romana, poi semplicemente Lyra ed Epos, dove Pascoli commentatore di letteratura latina, risce ancora una volta a sorprendere.

Il Senatore Gaspare Finali, nelle sue Memorie, ricorda le confidenza del Carducci in proposito: non esiste cosa altrattanto pregevole nella letteratura italiana e non ne conosco di superiore in alcuna lingua. Il poeta si era accostato alla lettura dei classici non tanto nella veste di critico e filologo, quanto invece per cercare di fare sentire e fare ammirare la poesia antica ai ragazzi; ovviamente i filologi di professione, urtati dal metodo tutto pascoliano, criticheranno la documentazione filologica del poeta, definendola scarsa e non sempre aggiornata, svelando la natura tutta intuitiva e non propriamente storica della sua filologia.

Proprio in questi anni livornesi si realizza la presa di coscienza, da parte del poeta, che il nido in un primo tempo immaginato come foriero di serenità, era invece destinato a sfaldarsi. E così anche il progetto per cui si era così sacrificato dopo i burrascosi anni universitari. Forse a causa degli attriti tra le sorelle, forse anche per il desiderio di una vita “normale”, questi sono gli anni che vedono Ida, la sorella allegra e solare che incarna la voglia di vivere, allontanarsi sempre di più dalla casa fraterna.

Giovanni Pascoli si trova quindi di fronte ad una situazione che di fatto lo ingabbia: da una parte vorrebbe essere in grado di garantire alle sorelle quella protezione, di assolvere quel dovere nel nome dei genitori; dall’altra però, avrebbe di certo preferito, una volta uscita di scena Ida, guardare all’avvenire così come aveva fatto lei.

Questo invece non era possibile, per la presenza di Mariù. Una presenza amata ma che lo tiene stretto al culto delle memorie familiari, ad una vita solitaria, una donna che dipende completamente da lui e che, consapevole del senso del dovere del fratello maggiore, non gli consentirà più di uscire da questo legame. Un vincolo quindi che gli impedisce qualsiasi tentativo di costruire qualcos’altro, magari una famiglia nuova e tutta sua, di cui Maria inevitabilmente non sarebbe più stata la protagonista.

Si spiega così la disperazione a ridosso del matrimonio di Ida: non solo per l’inevitabile malinconia per la separazione dopo dieci anni di vita vissuta insieme, quanto invece per essersi irrimediabilmente ritrovato in una situazione senza vie d’uscita, costretto ad assistere alla felicità altrui, limitandosi a guardare tutti gli altri vivere. Ritrovandosi a quarant’anni con un progetto di vita alle spalle non solo completamente vanificato, ma che non potrà mai più evolvere.

Eppure Pascoli era nato per l’amore. Lo confessa in un’intervista rispondendo alla domanda sulla sua passione preferita: sarebbe l’amore…invece è il fumo. E le lettere agli amici sono eloquenti, come la seguente a Notarbartolo del 1904:

Eccoci qui noi due, il fratello rimasto il più grande e la sorella che era la più piccina, eccoci qui soli soli con non altra compagnia che un povero buon canino. La sorella era troppo misera per maritarsi, il fratello troppo tenero per darle una dominatrice nella casa che ella mi pulisce e abbellisce da tanti anni.

In realtà il matrimonio non rientrava tra i progetti di Maria.

Il 5 maggio 1895 Pascoli parte per Sogliano per concordare il fidanzamento di Ida con il futuro sposo, Salvatore Berti: si trattava di fatto di sancire i patti matrimoniali che vedevano coinvolto Giovanni in prima persona.

Da questo momento esatto in avanti si verifica un cambiamento profondo nell’animo del poeta, una disperazione che quasi esplode ripetutamente nelle lettere successive. Qualcosa di certo era accaduto, qualcosa che aveva provocato in lui un dolore improvviso e paralizzante e questo non poteva essere la semplice idea del distacco di Ida, visto che da molti anni ormai Giovanni e Maria avevano accettato le nozze come inevitabili.

L’ipotesi più plausibile riguardo a ciò che potrebbe avere causato questa acuta disperazione, concerne l’improvviso cambiamento nell’atteggiamento di Ida che diviene quasi insofferente nei confronti del fratello ora che una nuova felicità le si spalancava di fronte, dando per scontato e dovuto quel sacrificio economico che le avrebbe garantito una dote e un mensile. Già all’indomani del fidanzamento, Pascoli avverte qualcosa che rende Ida irriconoscibile:

Oh un gran torto ha la tua sorella: quello di aver idoleggiata per sé, esclusivamente per sé, una felicità che avrebbe tolta a noi […] le sue soavi parole d’oggi sono un sarcasmo atroce: a te non ha tolto, molte occasioni, a me tutte; e poi ora ci guarda quasi con occhi di compatimento, perché magra te, me perché grasso e goffo e grigio e stanco e malato!…Cominci col ritirarsi, ora!
[…] Ma, o mia Mariù, bada bene: tu devi andare a nozze anche tu: se io sono troppo vecchio per prendere moglie, verrò a vivere con te…bada bene; per noi sarebbe impossibile la vita, con la nostra sorella lontana che ci comunicherebbe continuamente i suoi malesseri, i suoi sospetti, il suo mal di stomaco, la sua gravidanza, i suoi parti, i suoi figli… No: sopportare quelle cose è di chi o ha sperimentato o ha volontariamente rinunziato. Noi due non siamo né nell’uno, né nell’altro caso!

Ancora in un’altra lettera, sempre rivolto a Mariù:

Abbiamo, io e tu, sbagliata la vita. Non si deve imprendere un amore che può da un momento all’altro essere superato da un altro. Il mio torto è di avervi considerate come figlie, mentre non ero padre. Il padre ora invidia le figlie! Povero padre! Povero padre!

Il mese di giugno del 1895, Pascoli scrive quasi ogni giorno da Roma alla sorella Maria, talvolta caduto nella più cupa disperazione per un futuro che vede improvvisamente vuoto, spesso invece prospettando un nuovo progetto: il matrimonio di Mariù.

Questo desiderio del poeta di “sistemare” anche l’altra sorella si fa sempre più incalzante, lui che non vuole rinunciare alla vita, al punto che Maria, riluttante alla sola idea di allontanarsi dal fratello maggiore, gli confessa che ne sarebbe morta.

Ecco allora che il laccio si fa sempre più stretto e tutti i disperati tentativi del fratello di essere degno della gioia dei figli e della famiglia risultano vani.

E’ evidente che Pascoli si trovasse in un momento davvero difficile: il futuro marito di Ida, oltre ad un appannaggio consistente in un assegno mensile, aveva infatti preteso anche la somma di 750 lire per la dote della sorella. Non era ancora tutto: il poeta avrebbe dovuto anche trovare una parte del denaro che spettava alla sorella rispetto al credito ipotecato sui beni della zia Rita. Dopo anni di preparazione alle nozze, tutto d’un colpo si faceva impellente l’esigenza di stabilire gli accordi matrimoniali, proprio quando Pascoli era stato chiamato a svolgere il lavoro presso il Ministero. Costretto a rinviare la partenza per Roma di un mese, spedisce proprio da questa città una moltitudine di missive, da una parte preoccupato per l’insofferenza di Ida, dall’altra per l’inevitabile indebitamento cui deve fare fronte:

Quanto ai patti, credi che io accennai, per assicurare il capitale, come mi pareva si richiedesse al metodo dell’assicurazione; e che così parve bene e così sarà accettato. Ora un’assicurazione per 10.000 lire non costerà più di 388 lire annue. Tutto insieme, sarebbero 1000 lire annue, che io potrò sempre prelevare ai miei guadagni, ora che comincerei a fiorire, se riacquistassi la mia pace, senza disturbo alcuno.

E ancora in un’altra lettera a Ida, il poeta scrive:

del resto sii certa, infallibilmente certa, che qualunque siano codesti patti, io li ho voluti e li voglio e li vorrò. Da parte mia nessun ostacolo alla felicità della mezza mia anima (l’altra mezza è Mariù) E sono anche persuaso che siano anche più lievi di quello che posso aspettare; perché è cosa per me evidente che Salvatore è innamorato di te. La tua felicità è certa, sii lieta. Tuo Giovanni.

Ida Pascoli nel 1895, anno delle nozze

Proprio durante il soggiorno romano, il poeta elabora quel nuovo progetto che potrebbe salvarlo dall’infelicità: in una lettera del 13 giugno ad entrambe le sorelle spiegherà che egli aveva vissuto senza amore non per incapacità di amare ma perché si era dovuto dedicare a loro:

Ma credetelo: la mamma ve lo direbbe se tornasse: più naturale e giusto sarebbe stato che io, destinato a essere anche il vostro padre, a cercarvi marito, a procurarvi l’amore e la famiglia, avessi preso prima moglie, col vostro consenso, magari con la vostra soave cooperazione. Questa immensa crisi non sarebbe venuta.

La lontananza fisica dalle sorelle per la prima volta forse gli fa vedere chiaramente la propria vita vissuta fino ad allora, tutte le illusioni, gli sbagli compiuti e ciò che vede non gli piace affatto.

Ecco quindi la volontà di dare una svolta in tutt’altra direzione, costruirsi una famiglia e convincere anche Maria che era la cosa più saggia da fare per entrambi: non voleva più vivere destinato a rodersi nel desiderio inadempibile dell’amore e della famiglia, come scriveva ripetutamente.

La lettera del 19 giugno a Maria forse è quella che, pur tra il groviglio dei pensieri che si affollano nella mente del poeta, lascia meglio comprendere il tormento di questi giorni romani:

Oh! non capisci che a restituirmi la pace è necessario, non che io prenda moglie — belle forze! — ma che io m’innamori? e come si fa, quando il cuore è tutto occupato da voi due? Siete sorelle amate e siete amate da sorelle: così dici. Va bene; ma dimmi in coscienza, senza diplomazia, dimmi, Mariù: tu mi ami da sorella: perché t’ha a dispiacere che io ami una donna da amante da sposo da marito?

L’estate trascorsa a Roma, nonostante la sofferenza dell’anima, riserva a Pascoli anche qualche avvenimento lieto, come il primo incontro con Gabriele D’Annunzio, avvenuto a Palazzo Borghese e rievocato molti anni dopo nella Contemplazione della morte scritta da quest’ultimo dopo la scomparsa del poeta sammaurese:

Come gli guardai le mani delle quali sempre sono curioso, egli le ritrasse quasi con atto fanciullesco. Io volevo osservare le dita che avevano foggiato l’odicina per le due sorelle e i madrigali dell’Ultima passeggiata. Allora, sorridendo, gli ripetei i primi versi del Contrasto: Io prendo un po’ di silice e di quarzo… Con quelle stesse mani, che aveva nascoste, egli fece un gesto di disdegno potente. Sentii quanto vi fosse di virile in colui che passava tra le umili myrici per salire verso la rupe scabra.

Anche Maria contribuirà in parte a rasserenare l’animo turbato del fratello, raggiungendolo a Roma alla fine di giugno e visitando insieme le bellezze della città, pur nella consapevolezza di entrambi che quella sarebbe sempre rimasta per loro una felicità pallida.

Il 26 ottobre del 1895, Pascoli sarà nominato professore straordinario di grammatica greca e latina all’Università di Bologna, anziché a quella di Torino, come gli era stato comunicato in precedenza. Un mese prima, a Livorno, Ida aveva sposato Salvatore Berti. Nell’occasione Pascoli aveva pubblicato l’opuscolo Nelle nozze di Ida, stampato da Giusti in cento esemplari, pagandoli di tasca sua, non volendo che fossero messi in vendita.

Nella prefazione si legge:

La carrozza aspetta alla porta. Non si deve perdere il treno: Addio. Quei treni come sono noiosamente puntuali! Come, nell’impazienza, fischiano e si scrollano! […] Qual cambiamento, o Dio della mia fanciullezza, nel quale torno a credere tutte le volte che piango, come piangevo da fanciullo. Qual cambiamento!

Poco prima del matrimonio di Ida, il poeta si era messo alla ricerca di una nuova casa in campagna, cercando di appagare uno dei suoi principali desideri, vivere nella natura. Fondamentali per la decisione di acquistare una villetta nella valle del Serchio, i consigli dell’amico Carlo Conti, amministratore del collegio livornese di S. Giorgio dell’Ardenza, originario di Barga: Pascoli si innamora immediatamente della villetta settecentesca di Castelvecchio, posta sul colle di Caprona come poi venne ribattezzata dal poeta. Il contratto d’affitto decorreva dal 1° di ottobre, proprio il giorno immediatamente successivo alle nozze della sorella, quasi a sancire l’inizio di una nuova vita tentando faticosamente di lasciare tutto il dolore alle spalle.

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