Psicologo? No grazie, weekend a Napoli!

Giovanni Di Lauro
Groucho’s Portal
Published in
6 min readFeb 17, 2018

“Prima o poi ritorneremo tutti quanti”

Milano, un anonimo Giovedì sera. Badge strisciato in uscita dall’ ufficio e subito di corsa verso la stazione con un treno da prendere al volo. Ritornare a casa per il weekend e spegnere una candelina in più sulla torta: la ventiseiesima.

La decisione è di fermarmi a Napoli prima di proseguire per il Cilento. Sento in me il bisogno di dover passare almeno un giorno intero in questa città magica.

Per la cura della maggior parte dei disturbi di natura psicologica del vivere moderno non ci si sono dubbi: Basta Napoli. Lo stress, la depressione, l’ansia? “Vatt a pija nu poco r aria a Naple”

Per sette anni Milano non ha mai smesso di stupirmi. È un città che funziona davvero. Cinque minuti di attesa per un autobus sembrano un’infinità e bastano a far sbuffare le persone alla fermata. Tutto è organizzato. Se c’è un problema è da imputare al Paese. Fosse Milano uno stato a sé, sarebbe di sicuro la testa di serie dell’Europa. È una città di uomini di libertà. “Vuoi avere successo? Vai a Milano”. Una libertà che costa caro, che dopo un po’ ti stanca e ciò che prima vedevi come il paradiso della realizzazione diventa ora solo grigiume. Tutto senza amore, troppa libertà. Quell’ eccessiva competizione, quei lavori disumani retribuiti male, quel continuo scalare le vette delle piramidi aziendali e sociali. L’eterna arrampicata. E verso cosa poi? Tutto ciò prima o poi stanca, perché non è né naturale né necessario. È vano.

Non che Napoli sia immune da tutta questa effimerità. Ma la filosofia di vita è diversa. Il napoletano conosce bene “ ‘a livella” e sa che, a commedia finita, sarà lei a ripristinare gli equilibri. Allora ti insegna a ridere, a prenderla come viene, perché, a finale, sa che è tutto “na pazziella”.

Risparmiali pure questi soldi per lo psicologo, vai a Napoli a prendere un sorso di vita.

Pizza e mandolino? Solo una piccola espressione del suo animo. Tutti i colori che rendono strade e vicoli unici sono la manifestazione di qualcosa di più forte. Un calore nel sottosuolo trasformatosi in impeto di vita. La magia unica che si crea alla vista de “la Montagna”, quel vulcano enorme che sembra un gigante a difesa della città. Il mondo resta perplesso e si chiede come sia possibile continuare a vivere in prossimità di un pericolo come il Vesuvio. Ma il mondo non sa. Si continuano a spendere i milioni per un attico a New York quando poi la mattina non puoi nemmeno avere il caffè con la vista del golfo. “Come fai a campa se poi nun viri ‘a Muntagna?”. Se solo si ragionasse di più come il “Don Armando” di De crescenzo: e “scendetela” pure questa scala sociale.

Abbiamo permesso a uomini senza storia di denigrarci. Non posso accettare che sia la mia terra ad essere vista come “in via di sviluppo”. Perché questa è una grande “strunzata”. Qui, dove i nostri antenati costruivano templi e disquisivano sull’ essere e il non essere quando altri popoli erano ancora all’ “Augh Fratello” e alle piantagioni di riso.

E chi sarebbe quello in via di sviluppo?

Troppo spesso abbiamo perso la nostra stessa autostima cadendo vittime del terrorismo psicologico della propaganda. Ci hanno mostrato di possedere l’Eldorado e noi, credendoci, abbiamo accettato la nostra “arretratezza”, quell’ etichetta da “terzo mondo”. Dopotutto, non ci sembrava nemmeno sbagliata. In effetti, i soldi, il successo, la fama, la realizzazione, il lavoro erano altrove.

<<Non puoi campare di solo aria>>, <<pensa a fare carriera, a diventare qualcuno>> ci dicono. Allora valigie chiuse e pronti, partenza, via. Lo si fa perché è credenza comune che l’età porti consiglio e saggezza. Si crede a chi ha vissuto più anni. Bisogna partire perché la nostra terra non può offrirci nulla. È solo “fuori” che puoi realizzarti. Allora si lascia tutto per evitare la nostra situazione di “disoccupazione e fame”. Quante ne raccontano!

Si deve viaggiare, andare a vedere, solo così si può capire davvero di essere stati presi in giro. Quegli stili di vita “avanzati” sono deleteri all’ essere umano e tendono a generare dei conflitti interiori di natura psicologica. Solo un weekend a Napoli può aprire gli occhi agli automi e ripristinare gli equilibri.

“Prima o poi ritorneremo tutti quanti”

Devo essere grato alla mia empatia e al mio essere competitivo. Quest’ultimo mi ha permesso di incontrare gli uomini in carriera, quelli che ce l’hanno fatta, quelli del successo, da imprenditori a banchieri d’affari. Ma è la prima che mi ha mostrato come, in realtà, la maggior parte di questi “grandi” sia morta dentro. Non giudico le scelte individuali, ma non posso accettare che la tristezza e la cattiveria egoistica sia il modello a cui aspirare piuttosto che il cancro da estirpare. Naturalmente sto generalizzando perché ne conosco di uomini d’affari pieni di cuore e legati alla propria terra più di quanto non lo sia io. Però, nonostante questo, non esiteranno a prendere le distanze da me.

Se solo potessimo smettere di emigrare. Chi non sogna di risvegliarsi con il caffè e gli odori di Napoli? Certo. Bisogna andare via per l’esperienza. Sono d’accordo. Chiamiamola pure gavetta. Dopotutto uno “s’ add’ mparà o mestiere”. Ma una volta fatta tutta questa esperienza, una volta imparato “stu” mestiere, ma perché non tornare e usarla per aiutare la propria gente?

“Eh si “mo” torno a casa? Quello giù non c’è lavoro, che mi metto a fare? È pieno di nepotismo e corruzione”. Anche io sono reo di averle pensate e purtroppo la verità non è poi così tanto distante.

Ma come si fa a dimenticare la bell’ arte dell’arrangiarsi partenopea? Lì, dove Masaniello urlava “viva il Re” durante i moti di protesta. Se tutti vanno via, chi resta? In mano a chi lasciamo tutto questo?

Non serve essere nati a Napoli, il napoletano è uno stato d’animo. Per esempio, io per nascita non lo sono, ma mi sento molto più napoletano di uno che da via Partenope sale su un volo senza ritorno e chissà per quale città d’affari europea. Tutto solo perché <<da noi non c’è lavoro>>.

Quando poi in realtà, abbiamo una nuova economia da scrivere, una lezione da impartire al mondo. Insegnargli ad apprezzare un progresso più umano, ad “allargare il tempo piuttosto che allungarlo” (Bellavista). Abbiamo una storia da cominciare.

È la chiamata al ritorno per quelli che hanno fatto esperienza altrove, che hanno studiato nei più prestigiosi atenei mondiali, che fanno girare i soldi del mondo. Che ritornino per unire le proprie conoscenze con quelle di chi ogni giorno continua a lottare in una terra la cui verginità è stata venduta all’ offerente migliore. Certo, è la rinuncia ad una vita con una remunerazione e uno status sociale appagante. Ma tutta questa propensione alla libertà egoistica, il volersi vedere accreditare stipendi da sei o sette zeri, l’ansia continua dell’apparire e dell’arrivare ne valgono davvero la pena? Vi siete fatti bene i conti?

Quelle corse continue, i calendari da aggiornare al minimo cambiamento, le conference call, i meeting, le giornate spese in uffici senza vista e con quella chiavica di “caffè” a gettoni. Quella incessante lotta di sopravvivenza per essere cosa poi? Il qualcuno in mezzo ai tanti nessuno?

Ma non è che forse vi conviene usare tutta questa energia vitale per difendere la vostra terra dagli stupratori?

Tornate a fa’ o’ presepe! E senza nessun timore di vanificare sacrifici fatti in precedenza. I puntini si collegheranno solo guardando indietro.

È unendo forze ed esperienze che ci si può “arrangiare” per riscrivere un nuovo modello. Di nuovo. Se tutti partiamo chi resta? Nelle mani di chi consegniamo tutto questo?

<<Non sarai tu a cambiare le cose, è sempre stato così>>, quante volte abbiamo sentito i nostri padri dirlo. Parole di una rassegnazione alla sconfitta, di un tumore che continuiamo a portarci dietro. Eppure tutti quelli che partono stanno partecipando al cambiamento altrove.

Bastano poche ore a Napoli per apprezzare le parole di De Crescenzo e capire che essa è, davvero, l’ultima speranza che resta al genere umano.

A Luciano De Crescenzo e Napoli

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