Studio in classe delle biotracce di un pianeta extrasolare

Gianluigi Filippelli
GruppoLocale
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6 min readNov 3, 2015

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Recupero un post del 2012 in cui propongo un’attività che potrebbe essere svolta nelle classi per avvicinare gli studenti alla tecnica utilizzata da Kepler nella ricerca degli esopianeti.

Come ho cercato di raccontare nel lungo post dedicato al SETI, l’arrivo di Kepler ha permesso una vera e propria rivoluzione nella ricerca dei pianeti extrasolari, dando anche un’impulso allo sviluppo di tecniche in grado di determinare se un pianeta è abitabile o meno. Il metodo utilizzato da Kepler è quello del transito, che può essere riprodotto in laboratorio, ma che abbinato a una tecnica particolare può essere utilizzato anche per determinare differenti combinazioni di acqua, superficie, rocce, vegetazione, ovvero le così dette biotracce. Ad esempio un pianeta che potrebbe supportare la vita (almeno quella cui siamo abituati sulla Terra) presenterà una superficie rocciosa, coperta da una certa percentuale di acqua. Questa tecnica si chiama spettropolarimetria:

It measures the intensity spectrum of the reflected light (spectroscopy) and also its degree of polarization (polarimetry). [1]

Utilizzando pochi e relativamente semplici strumenti, anche questa esperienza (per quanto più complessa rispetto alla simulazione della legge di Hubble) può essere riprodotta in classe, ma per farlo in modo opportuno, Gorazd Planinsic e Rick Marshall consigliano di approfondire separatamente i due concetti di base di spettro e polarizzazione.
Per realizzare l’esperienza si utilizza una lampadina a bulbo smerigliato, o comunque una a incandescenza della potenza di 60W [3] (ad esempio del diametro di 8cm), come modello della stella, e una palla di polistirolo (o di qualunque altro materiale e del diametro di circa 6 cm) dipinta di verde come modello del pianeta. A questo punto si posizionano stella e pianeta su un tavolo al centro della stanza dell’esperimento, in modo che i centri siano allineati, si invitano gli studenti a mettersi intorno a questo sistema solare muniti di opportuno filtro polarizzatore [4] e si spegne la luce della stanza. Dopo aver acceso la luce della lampadina, si inizia ad osservare il sistema con i filtri, o mettendo in rotazione il sistema stesso, o facendo girare gli studenti intorno al sistema, in modo da osservare le differenze nella luce emessa in base alla posizione relativa del pianeta rispetto alla stella.
Già in questa fase è possibile scattare delle foto: ad esempio si possono scattare, come hanno fatto Planinsic e Marshall, due foto dello stesso punto del sistema [5] ma con il filtro in due posizioni differenti, quella orizzontale e quella verticale. Per apprezzare poi le differenze tra le due foto si possono utilizzare alcuni software di photo editing usando l’opzione di sottrazione [6].
Con questa operazione si sottrae

Questo modello, però, è piuttosto semplice, visto che il pianeta viene rappresentato come una palla sostanzialmente liscia. Per avvicinarsi a un pianeta decisamente più realistico basta, utilizzando la colla, ricoprire la superficie di sabbia. Quindi, una volta asciutto questo primo strato, incollare alcune foglie per simulare la vegetazione e della carta igienica bagnata per simulare laghi, fiumi, oceani. Così preparato il pianeta, la classe è pronta a ripetere l’esperienza e scattare nuove fotografie. Raccolto e rielaborato il materiale, sarà semplice notare come la luce riflessa da differenti materiali abbia luminosità differenti, mentre per alcuni di essi la luminosità è addirittura dipendente anche dall’angolazione della macchina fotografica.

La tecnica della sottrazione, per quanto basilare, non è sufficiente per ricavare dati sensibili sul sistema stella-pianeta. Il motivo è facilmente intuibile e basta pensare a quanto piccoli ci appaiono oggetti molto lontani, e così sono anche i pianeti e le stelle all’esterno del sistema solare anche per il più raffinato degli strumenti osservativi oggi costruiti. Qualcosa che, però, si può fare con la luce raccolta è studiarne la composizione a partire dallo spettro.
La tecnica usata allo scopo è la spettropolarimetria, che combina la spettroscopia, ovvero lo studio dello spettro di luce, con la polarimetria, ovvero lo studio della polarizzazione della luce. Questa tecnica era stata sviluppata già da diversi decenni [7] ed è stata recentemente proposta per studiare i pianeti extrasolari, testandola a partire dai dati relativi alla Terra [2]. L’idea è semplice:

(…) reflected light is partially polarized while that which comes directly from the star is not polarized at all.

In questo modo l’operazione di sottrazione non viene più fatta tra due immagini a polarità differente ma tra due spettri a polarità differente. Per realizzare a scuola questo passo avanzato c’è sicuramente bisogno di attrezzatura dedicata come uno spettrometro per la luce visibile. A questo punto il set up sperimentale non è troppo difficile da montare:

The light bulb star and the styrofoam sphere exoplanet can be projected on a screen using a convergent lens (we used one with a focal distance of 27 cm). Cut the screen from white cardboard and make a small hole in it. Then push the optic fibre through the hole and fix it using a clamp. Use another clamp to fix the polarizing filter between the optical fibre and the lens. Mount all three elements on the stand shown in figure.

By moving the stand or the individual components you should be able to arrange that the image of the bulb or the image of the sphere appears at the location of the optic fibre. The spectra of the light emitted from the bulb and light reflected from the sphere can be recorded separately for both directions of polarization simply by rotating the polarizing filter by 90° .

A questo punto si possono realizzare vari tipi di spettri: quello della lampadina da sola,

quello della lampadina con la pallina,

confrontando poi i risultati per le due polarizzazioni orizzontale (curva nera) e verticale (curva bianca). Si conclude alla fine l’esperienza sottraendo gli spettri per entrambi i casi (in verde scuro la lampadina da sola, in bianco il sistema lampadina-pallina).

Ovviamente la tecnica utilizzata nel caso della Terra è molto più complessa di quella qui proposta, ma costituisce certamente un’utile esperienza, probabilmente adatta per un liceo scientifico (la prima parte, invece, potrebbe essere interessante da svolgere in qualsiasi tipo di scuola), per introdurre o ripetere concetti come la riflessione, lo spettro, la polarizzazione della luce, dando anche agli studenti l’opportunità di impratichirsi con strumenti e tecniche d’analisi avanzate.

[1] Planinsic, G. & Marshall, R. (2012). Is there life on exoplanet Maja? A demonstration for schools, Physics Education, 47 (5) 588. DOI: 10.1088/0031–9120/47/5/584
[2] Sterzik, M.F., Bagnulo, S. & Palle, E. (2012). Biosignatures as revealed by spectropolarimetry of Earthshine, Nature, 483 (7387) 66. DOI: 10.1038/nature10778
[3] In effetti l’esperimento andrebbe aggiornato a causa della messa al bando nei paesi dell’Unione Europea delle lampadine a incandescenza. Per fortuna esistono in commercio delle lampadine di nuova fattura a forma di bulbo che possono essere più utili per lo scopo.
[4] Un filtro rudimentale, ma utile per delle osservazioni spannometriche, con un pezzetto di nastro adesivo su una delle lenti di un paio di occhiali da sole.
[5] Cosa che si può ottenere mettendo la macchina su un cavalletto.
[6] Nell’articolo viene consigliato ImageJ, che può essere scaricato dal sito dell’Università del Wisconsin, ma sembra esserci anche un sito ufficiale, dove c’è anche una versione per Linux
[7] Leggi ad esempio Spectropolarimetry and the nature of NGC 1068 di Antonucci e Miller del 1985

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