L’elefante alla finestra

Io ti penso ancora

Andrea G. Capanna
Guerrieri Agitati
3 min readNov 20, 2016

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Immagine di proprietà di Jaynee Pudewell

Si era agli sgoccioli, alle promesse per il dopo e ai progetti per il dopo ancora. Avevo salutato il mio compagno di stanza come se ci aspettasse un addio, e in qualche modo sapevamo lo sarebbe stato. Oggi era il suo giorno, dopodomani sarebbe toccato a me.

Era mattina presto, prestissimo, e di lì a poco le infermiere sarebbero passate per lavarmi. Non riuscivo a farlo da solo dopo l’esame con la sonda. Erano entrati dalla femorale e avevo l’interno coscia e parte del pube tutto viola, faticavo a stare in piedi.

Dalla grande finestra entrava una prima luce e sarebbero arrivati anche gli amici piccioni. Si erano abituati a mangiare le briciole dei costosissimi biscotti di pasticceria che mia zia mi portava, ma che io non potevo mangiare. C’era un bel silenzio, ero solo, e in quella giornata avrei finito di leggere quel romanzo. Mi sarei goduto la solitudine fino al giorno dell’operazione, ne avrei approfittato per pensare un po’, per preparare la mia famiglia.

Papà si era rivelato scaramantico e mi aveva regalato un piccolo elefantino di legno che tenevo sul comò. La proboscide doveva essere rivolta verso la finestra, così si diceva, e avrebbe portato fortuna. Per precauzione, perché non si sa mai, si era fatto rifilare anche un sottile braccialetto colorato “per la salute”, da un parcheggiatore abusivo dell’ospedale. Lo avevo trasformato in una cavigliera, e la osservavo sorridendo mentre le infermiere mi giravano e lavavano come una bambola.

Può non sembrare, ma anche in ospedale le voci corrono in fretta, e la notizia di un brutto incidente su una provinciale aveva fatto il giro dei reparti. Tutti ragazzini in motorino, tutti morti, tranne uno. Il primario mi stava dicendo che la mia operazione era slittata, e che questo ragazzino era in condizioni critiche. E di notte, dopo un lunghissimo intervento, ecco che veniva trasportato nella mia camera.

La sua mamma sedeva accanto al suo letto e si era premurata di avvisarmi di non dire niente, il figlio non era nelle condizioni di sapere di essere l’unico sopravvissuto. Aveva una cicatrice molto grande sulla testa e una gamba con ferri ovunque. Ma sembrava lucido, seppur spaventato. Avevamo entrambi dei danni cerebrali ma eravamo così sedati che non c’era l’ombra di una crisi. Abbiamo vissuto insieme ventiquattro ore in una bolla di serenità, truculenta, intubata.

Provavo una tenerezza immensa per lui, e la provo ancora mentre scrivo queste righe. In questo Nord che ti obbliga a sentirti vecchio molto presto, quell’adolescente era quello che era, un bambino.

Teneva la mano della mamma, la chiamava quando sentiva troppo male e sorrideva sincero alle storielle che gli raccontavo. Sembrava non avere nemmeno quel senso di pudore e rabbia tipico della sua età. La madre quando lo aiutava in alcuni movimenti finiva irrimediabilmente per alzargli il camice, eppure mai una volta si era coperto in fretta e furia. Anche quando doveva fare la pipì si lasciava toccare dalle infermiere, al contrario di me, che brontolavo sempre.

Non ero riuscito a terminare le poche pagine del romanzo, a forza di chiacchierare con lui. Era la mia mattina, e mi sentivo pronto. Stavo per fare un grande salto e in quel momento solo quel ragazzetto poteva capirmi. Prima di andare sono riuscito a fare due cose che mi ero ripromesso. L’ho abbracciato, questa volta anche io nel camice con il sedere nudo e senza vergogna, e poi gli ho regalato il mio elefantino. Con la proboscide verso la finestra, gli ho detto. La sua sfida sarebbe stata immensamente più grande della mia, e forse ne era già conscio.

Se mai mi leggerai, sappi che non ti ho mai dimenticato, sei stato il mio ultimo nuovo amico in quella vita, e ti vorrò bene per sempre.

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Andrea G. Capanna
Guerrieri Agitati

Scrivo e mi arrabbio, ma so fare bene solo una delle due cose. Non binario, Epilettico, Gay.