E smettila di dire che non hai pregiudizi, è tutto ok

michele pagani
Gummy Industries
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7 min readApr 5, 2018

Ricordo benissimo quel giorno. Quinta elementare, marzo, compare in classe un nuovo bambino, più scuro di noi. Ovviamente, non era uno scuro tipo siciliano o calabrese: ai figli dei pizzaioli eravamo già abituati. Era parecchio più scuro. Per l’esattezza era scuro tipo magrebino e per quella scuola, in quei giorni, era una novità non indifferente. Si prese l’onere di essere il primo marocchino dell’intero istituto e ricordo che non smetteva di piangere, intimorito da quel mondo nuovo, forse così moderno e forse così grigio, e da una trentina di bambini che lo guardavano con fare curioso, come si fa con gli animali esotici al parco faunistico. I genitori l’avevano pettinato e vestito per benino eh, mica volevano fargli fare brutta figura. Però ai piedi non aveva le Nike ed il suo zaino non era Seven o Invicta e nemmeno uno di quelli dei supereroi che si compravano al centro commerciale.

Il mio Invicta!

Ricordo bene la sensazione, un misto di diffidenza e morboso interesse. Lo studiavo, silenziosamente. Volevo comprenderlo, anche perché i miei mi avevano fatto una testa così sull’accettare il diverso ed io, non proprio prontissimo ad avere un amico marocchino, decisi di sforzarmi ad essere gentile e addirittura invitarlo a stare in camera con me e gli altri amichetti in gita. Fu tutto davvero poco naturale e, ora che ci penso, non ne avevo un motivo ben preciso. Mi sembrava giusto essere gentile, ma al tempo stesso non mi veniva spontaneo. Ricordo che quella novità ci fece reagire in modi diversi, creando un certo scompiglio in classe. Simone, il mio miglior amico, decise addirittura che avrebbe sostituito me con lui, per sempre, da quel giorno. La loro amicizia eterna non fu davvero eterna ed ora, da quasi adulto, interpreto così quell’atteggiamento: tutti noi cercavamo degli appigli per catalogare qualcosa di nuovo, goffamente. Era il primo vero disturbo proveniente dall’esterno, in un ecosistema senza internet, così felice di cullarsi in quell’equilibrio di borghesia lombarda, dove tutto era al proprio posto e dove tutto era di facile lettura. Quel giorno, però, senza etichette e senza adulti a dirci come comportarci di fronte al nuovo, proprio non riuscivamo ad orientarci. Ci servivano dei pregiudizi, per capire chi avevamo di fronte. E noi proprio non ne avevamo, di pregiudizi.

Doner Kebab, che è turco ma chissenefrega sono tutti uguali

Ora, venti anni dopo, tutto è cambiato. Ai marocchini mi ci sono abituato e mangio spesso il kebab ed il mio feed Instagram è pieno di amici che si godono ricchi weekend a Marrakech, ma nel frattempo la realtà è diventata una cosa complessa, sempre di più.

Io, Simone e gli altri bambini siamo cresciuti. Qualcuno è diventato razzista mentre qualcun altro si è fatto paladino dei diritti dei diversi. Tuttavia, una cosa ci accomuna: abbiamo imparato a codificare la realtà e a mettere noi stessi delle etichette alle cose, in continuazione. Nessuno resiste, a questo strano fenomeno. Non lo decidiamo noi: lo decide il nostro cervello, in uno strambo meccanismo di autodifesa.

Lo dice la scienza: la nostra mente non è fatta per il caos e quindi prende la realtà, la impacchetta, ne definisce dei contorni semplici e ce la sbatte davanti, così ci sentiamo padroni del mondo e non abbiamo paura ad uscire di casa evitando i punkabbestia alla stazione e ci fidiamo delle signore gentili che ci sorvegliano lo zaino, quando sul treno abbiamo bisogno di andare a pisciare.

Il cervello ricerca pattern, forme, correlazioni, perché nella casualità si perde ed ha bisogno di stereotipi, per comprendere ciò che accade. Prende degli input complessi e li trasforma in output semplici. Io, se ci penso, lo faccio di continuo. Do etichette ai fenomeni, per interpretarli poi con facilità.

Lo faccio quando qualcuno mi saluta dandomi i tre baci, rincorrendomi quando mi allontano dopo il secondo, o quando qualcuno mi costringe a dare la mano in quel modo da zio cinquantenne che vuole fare il giovane, stringendo i pollici anziché i palmi. Ecco, in quei momenti do delle etichette. Do delle etichette quando vedo una persona che indossa le Camper, quando ricevo messaggi in comic sans o con le acca dove non vanno o senza acca dove ci andrebbero. Do etichette quando mi becco stupide catene di sant’Antonio, quando sento un marcato accento del sud o dell’est europa o del sud America o british. Do delle etichette quando sento una coppietta chiamarsi amo o quando vedo dei penosi selfie scattati al cesso. Do delle etichette in continuazione e non riesco ad evitarlo e questa cosa un po’ mi fa incazzare.

Ecco, un’altra etichetta

Anche perché io la sostengo ogni giorno, la stupidità delle etichette. E ci credo veramente, quando dico che la realtà è una cosa complessa e che si deve fare uno sforzo per comprenderla senza stereotiparla. Insomma, al lavoro io mica ci vado in giacca e cravatta: metto una felpa perché il mio valore si vede oltre l’apparenza e se uno mi vuole in abito, vuol dire che non mi merita. Ed io, all’odio indiscriminato verso i migranti, mica abbocco. E poi beh, con gli amici froci mica mi comporto diversamente rispetto a come mi comporto con gli etero. Le aborro, le etichette, ma alla fine nel giochino della stereotipazione ci cado sempre. Non perché io non voglia, ma perché fanno parte di me. Di tutti noi.

Come biasimarci? In un mondo incasinato, dove vediamo ogni giorno centinaia e centinaia di annunci pubblicitari e dove passiamo quasi 7 ore su 24 su internet, dove trascorriamo la giornata a comunicare e quindi codificare e decodificare messaggi sempre diversi, come sarebbe possibile non impacchettare la realtà semplificandola, per comprenderla? Come si fa a cogliere tutto, con un’attenzione da pesce rosso? (E aggiungerei, come si fa ad arrivare fino a questo punto, di questo lunghissimo e noiosissimo pezzo? Metti mi piace -anzi, clap clap- sulla fiducia, e a posto così).

Le etichette sono la nostra boa di salvataggio. Le diamo in ogni istante ed è un’operazione che ci viene naturale, da sempre, da quando l’uomo ha dovuto rispondere alle esigenze-base tipo non morire di fame o non mangiare cibo avvelenato.

Il risultato? Spesso guardiamo alle cose pensando all’idea delle cose stesse, senza concentrarci su ciò che abbiamo davanti. Il cliché diventa un’esigenza, una scorciatoia, e spesso l’interpretazione delle cose la lasciamo agli altri, che ce la restituiscono semplificata e pronta all’uso.

Un outsourcing del cervello. Dal marketing, alla politica, alla religione, lasciamo che gli altri interpretino la realtà per noi. E lo facciamo perché siamo pigri e confusi.

Insomma, che cos’è la pubblicità, se non un modo semplice di capire quale persona migliore diventeremo, comprando quel detersivo? E la politica, non è forse diventata un modo semplice di comprendere chi risolverà problemi complessi, tipo disoccupazione, corruzione, debito pubblico, immigrazione, Cina, Europa, Russia, voglia di non lavorare mai e farsi mantenere dallo Stato? E la religione, non è forse un modo semplice di rispondere alle domande più complesse dell’uomo?

Ecco, in una realtà dove il nostro essere qui, fisicamente, in carne e ossa, si mischia ad un continuo bombardamento di informazioni, è naturale perdere la bussola. Ed è fisiologico interpretare la realtà in modo superficiale. Il cliché diventa un’esigenza ed è normale, ahimè, che tutto venga banalizzato.

Nessuno si fida più delle istituzioni, la società è liquida (per dirla alla Bauman e taaaac!, etichetta dell’intellettuale guadagnata), siamo senza riferimenti, nessuno va più a messa né all’oratorio né giù alla sede del partito e troviamo sempre più spesso delle verità precostituite nella nostra Facebook bubble, nei nostri pari su internet e nei brand, che ci permettono di interpretare la realtà e raccontare agli altri lo stereotipo di noi stessi. Insomma, l’apparenza diventa il nostro modo di catalogare le cose.

Zygmunt Bauman

Non ci trovo nulla di strano e non trovo strano che internet, oltre a mille altre cose, abbia rotto anche il nostro senso critico.

È vero, il www ci ha detto a lettere cubitali: “Hey, ciao stupido, come stai? Se ti accontenti di essere stupido stai pure lì a vegetare per sette ore leggendo la realtà che ti racconto io, è tutto ok”.

Però ci ha anche detto, a bassa voce: “Attenzione, se per caso volessi comprendere, eccoti le chiavi dello scibile umano. Sarà difficile orientarti e dovrai sopire la pigrizia del tuo cervello, ma se accetterai la sfida, saprai cogliere la profondità del vero. Continuerai a mettere etichette, ma le riconoscerai e le interpreterai e ne metterai di nuove, all’esigenza. Rimarrai stupido, ma su questo non si può fare molto, fa parte della natura umana. Non rimarranno stupidi però i tuoi pensieri. Su quelli, c’è un ottimo margine di miglioramento”.

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michele pagani
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