Giallo nel nord-est: colpevole un cliente o il sistema bancario?

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11 min readJul 18, 2016

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Autore: Chiara Stival

Un amico mi allunga un libro e una frase: Bad Bankers e «Dimmi che cosa ne pensi». Per lui la conversazione è pressoché finita ma io sono curiosa e leggo il retro di copertina. Sbotto «Ma lo sai che non mi piacciono le banche e ho poco tempo per i gialli», lui ribatte «Le banche piacciono solo ai banchieri, ma il Veneto è stato scosso da due vicende che non puoi ignorare. E poi nelle sere d’estate trovi tempo anche per i gialli, no?». Ha ragione, su tutta la linea. E lo sa, perché era stato lui a farmi appassionare grazie al primo romanzo di Zafón, molti anni fa.

Così mi tuffo nella lettura, cercando Carlos Riuz Zafón che però non trovo…perché l’autore spagnolo mi porta all’estero (e mi fa sognare) mentre Adriano Zanatta mi cala nella realtà (e mi dà da pensare). Ecco perché rispondo a quel «Dimmi che cosa ne pensi» con questa intervista.

Fino agli inizi dell’anno scorso il suo lavoro principale era un altro, poi, a luglio 2015 esce il suo romanzo d’esordio e a maggio 2016 il secondo. Cos’è successo? E come si diventa uno scrittore?

Ho lavorato con passione per tanti anni in una banca e parallelamente ho coltivato l’interesse per la scrittura. Per fare il grande salto, per decidere di cambiare vita, sono stato aiutato, per non dire spinto, sia da mia moglie, che da troppo tempo non mi vedeva soddisfatto, sia da un mondo del lavoro che nel frattempo ha accettato il disastroso diktat “vendere, vendere, vendere”, monito perentorio in tutta la società e quindi anche in banca. Poi ha influito il compimento del mio cinquantesimo anno, che mi ha fatto pensare, questa volta sul serio e definitivamente, «adesso o mai più». In ultimo, a darmi forza nella scelta, è stata la concomitante proposta di Mazzanti Editore di pubblicare il mio primo romanzo, L’invenzione. Per prendere una decisione così forte e così rischiosa, ci voleva una somma di concause. Questo doveva succedere e questo è successo.

Come nasce Bad Bankers?

Alla fine della scorsa estate, Mazzanti mi ha detto che poteva essere interessante scrivere qualcosa del mondo che avevo respirato negli anni di vita precedenti. Inizialmente ho trovato quest’idea pessima — sorride, calcando il tono della voce — perché non avevo nessuna voglia di tornare col pensiero in un capitolo chiuso della mia vita ma, viceversa, quando mi sono messo a disegnare lo scenario e i personaggi, ho cominciato a farli vivere, devo dire che mi sono proprio divertito. Tutto è avvenuto in modo abbastanza fluido: fin da subito l’idea è stata quella di scrivere un romanzo giallo e questo ha definito cosa c’entrava con la storia e cosa sarebbe stato inutile inserire.

Questo libro ha il pregio di dare una sorta di spiegazione, seppur romanzata, a quei pesanti avvenimenti che hanno colpito migliaia di risparmiatori in Veneto. Il romanzo è un’occasione per provare a capire dall’interno cosa sia successo, aprendo una lunga riflessione sul concetto di fiducia, legato alla buona fede e alla mala fede che emerge a differenti livelli. Cosa l’ha indotto a farlo?

Penso che quello che lei ha descritto sia proprio il tratto di originalità di questo romanzo. Nel rispetto dell’impianto narrativo, tipico dei libri gialli, in cui in genere c’è un colpevole, l’investigatore, dei sospettati, ci sono piste e depistaggi, ho voluto inserire introspezioni e momenti di riflessione, che derivano dall’interazione con l’ambiente e dalle considerazioni sull’attualità che li circonda. La voce di Simone, ad esempio, esprime pensieri non finalizzati unicamente alla risoluzione dell’indagine. La sua spiccata contestualizzazione e le sue relazioni con l’ambiente sono stati il modo per approfondimenti, sia rispetto al quadro ambientale esterno e sociale sia rispetto all’etica individuale.

Quindi, il fatto che rompe la tranquillità di una piccola filiale della provincia di Treviso e la ricerca del colpevole sono un pretesto per portare il lettore a una serie di riflessioni che escono dalla storia del romanzo?

Esatto. L’originalità di cui parlavo si ritrova proprio in quelle considerazioni “nude” che Simone fa nei confronti di se stesso e nei confronti di un mondo, di un’azienda, di una banca. Il suo desiderio di giustizia e di ribellione al sistema, ad un certo punto, saranno prevalenti su tutto il resto. Questa introspezione e questa analisi sono, a mio avviso, ciò che vince sullo sviluppo del racconto.

Eppure è riuscito a fare uno scherzo ai lettori, come da copione: le prime 200 pagine non lasciano intuire quale possa essere la risoluzione del caso, mentre nelle ultime 40 il ritmo cambia, si fa incalzante ed eventi inaspettati conducono il lettore verso quelle ultime 10 righe che ribaltano la situazione.

Non si può dimenticare che il romanzo è un giallo, seppur ambientato all’interno di una banca veneta e del dramma della crisi che sta vivendo, e ha bisogno di giungere alla risoluzione del caso e la struttura narrativa mi ha permesso di giocare in modo tale da creare il colpo di scena.

Come ha creato i personaggi di Bad Bankers e perché sono una band?

Quando disegni un personaggio, lo devi anche visualizzare, e per farlo sono andato a pescare nella memoria tra le numerose figure che ho conosciuto nella mia precedente esperienza. Una volta che nella mia testa avevano una faccia, li ho stereotipati. Mi piace credere che qualcuno, dopo aver letto il libro, entrando nella filiale della propria banca, riconoscerà, nella persona che si trova davanti, uno dei personaggi del mio romanzo. Quanto alla similitudine tra i componenti della filiale con quelli di una band musicale, è venuta così, col sorriso sulle labbra, quasi naturalmente. C’è la batteria, che segna il tempo a modo suo, il basso, che non spicca ma serve, la chitarra elettrica, che fa gli assoli, e il cantante che prende gli applausi…o i fischi! Sì, là mi sono proprio divertito. La band corrisponde al modello classico di filiale usato nel romanzo: una cassa, un retro sportello, un ufficio consulenza e il direttore di banca che si occupa dei fidi; è una struttura destinata a scomparire, perché bisogna prendere ad esempio i modelli anglosassoni per capire come cambierà ancora il modello bancario italiano. Questa filiale, che c’è ancora ma a breve non ci sarà più, verrà sostituita da un sistema in cui il lavoro base di cassa sarà automatizzato e gestito da persone poco qualificate — in termini di competenze bancarie — mentre il resto verrà gestito da consulenti, previo appuntamento e solamente quando il cliente offre certe somme da gestire.

Perché è destinato a sparire?

Perché la concentrazione sarà sempre di più sulla parte commerciale. È la stessa situazione riferita ai libri cartacei e l’ebook, con la differenza che forse, per gli amanti dei libri, la libreria è ancora una piccola enclave, rispetto alla mercificazione di tutto; è ancora un mondo protetto, almeno fino a quando l’ebook non sorpasserà il libro stampato, se accadrà.

Non le veniva spontaneo uscire dal racconto e scivolare nell’analisi dell’andamento bancario? Di aprire una finestra sul mondo che conosceva così bene?

L’ho aperta, quella finestra, in realtà, l’ho aperta! Ma ho cercato di non appesantire la trama ed annoiare il lettore con degli inutili tecnicismi. Tengo a mente la frase di un amico, che in estrema sintesi dice “guarda che al lettore non interessa nulla di quello che pensi tu”, nel senso che qualsiasi scrittore esordiente può avere la tendenza a rovesciare su carta i propri pensieri, vuoi pensando che siano particolarmente originali, vuoi pensando che siano particolarmente intelligenti, ma questo è un errore, uno scrittore non può far prevalere l’ego sulla narrazione. Quindi ho usato la massima attenzione nel trasferire in forma scritta dei pensieri, evitando tutto ciò che alla storia non serviva: la digressione narrata da un personaggio deve essere sempre funzionale al racconto. In questo modo la storia rimane fluida e credibile, tiene il ritmo anche quando i personaggi si perdono nelle loro intime riflessioni o dubbi di coscienza. Un romanzo giallo non è l’occasione per dare libero sfogo ai propri pensieri, altrimenti avrei dovuto scrivere un diario, giusto?

Sì, concordo. Una curiosità: ci sono degli scrittori a cui ritiene di dovere qualcosa, per lo stile di scrittura o per i contenuti? Oppure c’è un libro che ha fatto da eco in questi anni?

Mi piacerebbe poterle dire di sì, perché vorrebbe dire, in qualche maniera, che ambirei a un modello particolare. Ovviamente anch’io, come tutti quelli che scrivono, leggo molto, anche se in linea di massima ho letto cose diverse da quelle che ho scritto. Se penso al romanzo preferito, mi viene in mente L’idiota di Dostoevskij, ma come può facilmente confermare, sono “lievemente” diversi, sia lo stile sia l’autore!

Solo perché è russo?

Ovviamente! — ride — A parte gli scherzi, se devo fare i nomi di qualche autore che apprezzo particolarmente, le citerei, di italiani, Andrea De Carlo, soprattutto per come costruisce i periodi, Stefano Benni, per il suo intelligente umorismo e Federico Baccomo, che scrive con lo pseudonimo di Duchesne, che ho scoperto di recente e che ha uno stile molto fresco e attuale. Degli stranieri, a parte i grandi classici, mi verrebbe da nominare il poco conosciuto Jonathan Safran Foer, che a tratti ho trovato geniale. Per quanto riguarda lo stile di Bad Bankers, credo che sia quasi iperrealista, sebbene venato di ironia. Vista la drammatica attualità del tema trattato, viene naturale immedesimarsi, se sono verosimili i personaggi e la storia.

La scelta del linguaggio è legata alla volontà di calarsi nella realtà?

Assolutamente. Avrei potuto scrivere in maniera diversa? Si, ma penso che uno scrittore debba vivere il suo tempo, e quello attuale è “un tempo diretto” — lo interrompo lasciandomi sfuggire «sembra Ruggero» e lui sorride con una breve esclamazione «eh sì!» — nei miei romanzi l’obiettivo è quello di raccontare uno stato d’animo del presente pertanto, senza esagerare, devo utilizzare il linguaggio usato nella lingua parlata, perché solo così si ha la sensazione dell’immediatezza e della contemporaneità. Quindi le dico che sì, quella scrittura è voluta ed è naturale, miro ad un linguaggio semplice ma arricchito da qualche riflessione e da qualche momento ironico… perché questo è anche ciò che mi piace trovare quando lo leggo.

È quello che ha trasmesso attraverso le differenti modalità di linguaggio espresse dai due personaggi principali. C’è poi il vice ispettore Ciarella, ma lui, di suo, è di poche parole.

Infatti, poche ma efficaci.

Questa modalità, che ha caratterizzato il personaggio, è dovuta al lavoro che fa?

Indubbiamente, ma pure per l’età che ha, perché volutamente il vice ispettore e il direttore di filiale sono coetanei: entrambi hanno un’età che si aggira sui cinquant’anni e quindi le loro riflessioni sono di una determinata profondità e la loro lingua parlata si esprime in una maniera più matura. Ruggero, viceversa, si avvicina ai trent’anni ed esprime un modello completamente diverso. Diciamo che lo possiamo catalogare come un giovane ambizioso, simpatico, forse talvolta eccessivo e magari arrogante, però è lo specchio del giovane consulente di banca, o di qualsiasi ufficio vendite, e manca di profondità, manca normalmente di un linguaggio attento. Ecco, il linguaggio usato per i personaggi deve trasferire la sensazione del giovane ambizioso in contrasto con l’uomo maturo e riflessivo.

Ma Ruggero è superficiale?

Un po’ sì. Ma non è stupido, affatto! È solo giovane, è figlio del suo tempo, manca di esperienza. Lui interpreta il mondo che vede attorno a sé e non può fare confronti con un’epoca precedente. Il rapporto tra i due rappresenta lo scontro generazionale e il fatto che, oggigiorno, alcune esperienze di vita sono ritardate rispetto alle generazioni precedenti. Il confronto tra generazioni si specchia anche all’interno dell’ambiente di lavoro: c’è chi si pone dei dubbi e talvolta fa a botte con la propria coscienza e c’è chi vuole arrivare più in alto possibile, sapendo che per farlo bisogna avere un determinato passo. Per inciso, non tutti i giovani sono così, Ruggero vuole essere il simbolo di quel tipo di gioventù, di quelli che non si domandano se è eticamente corretto o meno, perseguono un obiettivo, raggiungono il budget. Completamente differente è Simone, è lui il vero protagonista.

Il loro confronto è il segnale del cambiamento che c’è stato nel mondo del lavoro. Pensa sia stata una trasformazione repentina oppure graduale?

Ho iniziato a lavorare come consulente quando la banca era “un’altra cosa”, ho vissuto molti anni nella banca che era “un’altra cosa” e poi — ma torno a dire, usiamo la banca perché questa è la contestualizzazione del romanzo, potrebbe essere una qualsiasi altra azienda — tutto è cominciato a cambiare.

Lei è riuscito a focalizzare quando può essere avvenuto l’inizio di questo cambiamento?

Penso avvenga col nuovo millennio, con una accelerazione importante nell’ultimo decennio, ma decisamente i primi sintomi di questa trasformazione sono precedenti. Con la crisi economica il sistema è peggiorato, sebbene non mi sia chiaro il motivo che lo ha determinato. Ho l’impressione che quello che può sembrare una cosa repentina, in realtà sia un processo lentissimo. Le faccio un esempio: ogni mese c’è una riunione nella quale danno nuovi input, il mese dopo confermano gli input precedenti e ne aggiungono altri, e così ogni mese finché, nel giro di pochi anni, è diventato “normale” ciò che prima sembrava improponibile. Un grosso ruolo nel cambiamento è stato determinato dall’inserimento del budget: di fronte a questo incalzante sistema ci sono due possibilità: o ci si oppone fin dal primo momento, oppure quel processo inesorabile ti risucchia.

E le librerie, in questo mondo di cambiamenti?

Le librerie soffrono del cambio sociale e culturale che stiamo vivendo, ma — e sottolineo ma — la figura del libraio è essenziale per quel rapporto di fiducia che dovrebbe esserci sempre tra cliente e consulente. Forse il libraio rimane un interlocutore privilegiato e mi auguro possa sopravvivere. Personalmente mi piace molto leggere le recensioni, le utilizzo spesso per scegliere quale nuovo libro acquistare. Mi incuriosiscono quelle che danno il giudizio peggiore perché penso siano le più vere e mettono in evidenza quali criticità hanno rilevato…quelle a 5 stelle di solito sono troppo entusiastiche! Ecco, sto attento se la critica riguarda lo stile della scrittura o lo svolgimento della narrazione. Ed è quello che vorrei ricevere anche per il mio. Ad esempio, quello che le mi ha detto prima dell’intervista è interessante…

Sorride un po’ sarcastico.

Si riferisce all’uso copioso delle parolacce?

È vero, c’è qualche parolaccia. Mi creda che ne ho tolte tante. Torno a dire, c’è qualche termine volgare ma è finalizzato al mio intento di stare nella realtà. Quando scrivo mi immedesimo nei protagonisti e nel loro stato d’animo, quindi in certi casi non ho proprio potuto usare un “mannaggia” o un “accidenti”, capisce? Non si può. Sarebbe come mettere un velo a una statua. Nella realtà, in quello che diciamo o in quello che pensiamo, talvolta una parolaccia ci vuole. Quindi le ho usate quando ho ritenuto fossero indispensabili per creare l’atmosfera adeguata e sono convinto che, chiunque legga il libro e volesse sostituire una parolaccia con un altro termine altrettanto efficace e adeguato, non ci riuscirebbe! Sono apertissimo alle critiche e ogni lettore può scrivermi, suggerendomi un’alternativa. C’è però anche il rischio che mi scrivano per aggiungerne!

Quale obiettivo si era posto nella narrazione di questo giallo?

L’aderenza alla realtà. Ho voluto raccontare una storia verosimile, attraverso un’ambientazione veritiera, creando l’atmosfera che si respira in certe filiali, che è la stessa di quella di tanti altri uffici.
Questo è il mondo del lavoro oggi, questa è la fotografia che ho scattato.

Originally published at italian-directory.it.

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