I ruggenti anni venti

Mario Ferretti
#Hints
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10 min readDec 29, 2019

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E così, anche quest’anno si avvia a conclusione.
Ne sono ormai passati venti dall’inizio del Terzo Millennio, e ora ci apprestiamo ad entrare negli anni ’20 del 2000. E se il terzo decennio del XX secolo è storicamente ricordato come quello dei Roaring Twenties, “i ruggenti anni venti”, anche questo ha tutte le carte in regola per guadagnarsi un epiteto simile.
Non ho mai amato la futurologia, e non intendo certo farne in queste righe. Prima della baldoria e dei festeggiamenti di fine decennio, però, credo sia interessante riflettere brevemente su quello che sta per cominciare, sulle sfide che lo caratterizzeranno e su come provare ad affrontarle in maniera sufficientemente efficace.

Prima di iniziare, un’avvertenza: questa non è la sceneggiatura di un remake di 2001: Odissea nello spazio, dunque non mi lascerò andare in alcun modo a voli pindarici e fantasticherie sul mondo del futuro, tra taxi volanti, viaggi low-cost verso la Luna e resort su Marte.
Mi limiterò invece a parlare dei prossimi 3653 giorni, un tempo tutto sommato limitato, ma potenzialmente molto interessante, da vari punti di vista. E poi tenterò di delineare qualche spunto a proposito della politica di questo nuovo decennio, dei problemi strutturali coi quali deve già oggi fare i conti e di come dovrà evolversi per mantenere un ruolo centrale nelle future dinamiche globali.

Partiamo però da dove siamo oggi.
Sì, perché questo secondo decennio degli anni 2000 potrebbe essere ricordato come quello che ha addirittura segnato la fine del lungo periodo della seconda globalizzazione, non poco. Da un lato, infatti, per molti aspetti la crisi economica che ha colpito i Paesi del mondo occidentale dal 2008 altro non è che un prodotto degli enormi flussi finanziari diretti da Ovest a Est che hanno caratterizzato i decenni precedenti e hanno dato la spinta iniziale all’industrializzazione e allo sviluppo di tante aree del continente asiatico, prime tra tutte quelle di Cina e India. Dall’altro, però, proprio a seguito di questa epocale recessione si è verificato un progressivo rallentamento dei suddetti flussi, come mostrano i dati sugli investimenti diretti esteri dei Paesi occidentali in Asia. E anzi, si sta ora giungendo addirittura ad una sempre più concreta inversione di tendenza, da una parte con timidi fenomeni di reshoring (investimenti che tornano indietro, dopo aver subito processi di delocalizzazione), e dall’altra con la Repubblica Popolare Cinese che sta tutt’altro che timidamente sviluppando strategie di investimento estero sempre più imponenti e riguardanti interi continenti come l’Africa, dove gli interessi cinesi spaziano dall’approvvigionamento di “terre rare” fondamentali per la produzione delle componenti informatiche alla costruzione di vere e proprie basi militari.
Quest’ultimo dato, peraltro, indica molto chiaramente che l’inversione di tendenza in questione non è cruciale solo da un punto di vista economico, ma anche geopolitico.
Se infatti la caduta del Muro di Berlino aveva simbolicamente decretato la fine del mondo dei blocchi contrapposti, aprendo ad una fase di maggiore multipolarismo, ora in molti sostengono che i prossimi anni vedranno un progressivo accrescimento della rilevanza dello Stato cinese non più solo nelle classifiche sul PIL.

Una tale evoluzione porta con sé sfide indubbiamente rilevanti.
Tra queste, la principale riguarda la lotta al riscaldamento globale e, più in generale, la riduzione dell’impatto umano sugli ecosistemi terrestri.
Parliamo ovviamente di un tema che appartiene già al presente, e anzi ne è l’indiscusso protagonista. Uno dei suoi aspetti più rilevanti, almeno dal punto di vista sociologico, è che si tratta forse della prima grande sfida della storia che si sta già oggi affrontando su scala realmente globale, e che sta unendo il pianeta non solo ai massimi livelli governativi (basti pensare alle frequenti Conference of the parties tra i leader di tutto il mondo) ma anche a livello popolare, con le celebri proteste animate dai Fridays for Future che hanno ormai diffusione intercontinentale.
Nonostante il crescente interesse riguardo al tema e la sempre più comune consapevolezza di quanto possa essere dannoso l’impatto umano sulla Terra, però, la lotta contro il cambiamento climatico non potrà che appartenere anche al prossimo futuro.
Sebbene le previsioni non siano univoche, infatti, tutte concordano nel segnalare che l’emissione di anidride carbonica non ha ancora raggiunto il suo massimo né in Cina né in India, rispettivamente primo e terzo tra gli Stati che ne generano il maggior volume ogni anno, e tra quelli che hanno visto il maggior aumento nella produzione degli ultimi decenni. Inoltre, sempre Cina e India occupano i primi due posti nella classifica dei Paesi per consumo di carbone, e più del 60% del totale mondiale è dovuto a loro. Infine, il 90% della plastica che inquina gli oceani arriva da soli dieci fiumi, otto dei quali si trovano in Asia.

Credo bastino questi tre dati per chiarire quanto sia netta la correlazione tra il recente e rapidissimo sviluppo economico asiatico e l’aumento esponenziale dei valori sull'inquinamento globale, che hanno ormai raggiunto livelli notoriamente allarmanti. E se con queste statistiche non intendo ovviamente manlevare il continente europeo e nordamericano dalle loro colpe, credo però sia altrettanto importante sottolineare che uno sciopero per il clima nelle strade di Hangzhou o Mumbai assume oggi un significato totalmente diverso da una protesta in Piazza Duomo a Milano, e che questa felice tendenza ad una “globalizzazione” anche nelle azioni intraprese per ridurre l’impatto della nostra specie sul pianeta dovrà assolutamente continuare e intensificarsi nel prossimo decennio, se vorremo evitare le nefaste conseguenze del riscaldamento globale che ormai da anni la comunità scientifica ci ricorda.

Oltre a quello ambientale, comunque, c’è un altro grande tema che riguarda già il presente e assumerà un’importanza sempre maggiore nei prossimi anni: quello della futura evoluzione del mondo del lavoro.
In effetti, si tratta forse della questione sentita più vicina dai cittadini di tutto il mondo occidentale, e non c’è da stupirsi. Da un lato, infatti, in poche aree del pianeta oltre all’Occidente il lavoro ha assunto nel tempo una così incredibile centralità nella vita delle persone, tale da condizionarla non solo da un punto di vista economico, ma anche culturale. Dall’altro, i fenomeni riferibili a questa seconda globalizzazione hanno portato più di un miliardo di persone fuori dalla povertà assoluta con una rapidità mai vista prima, ma con gli stessi ritmi hanno anche mostrato i loro effetti più negativi sui continenti europeo e nordamericano, che avevano continuato a dominare letteralmente il pianeta anche molto dopo il Secondo dopoguerra. E se per i primi decenni i sistemi di welfare e la solidità degli Stati avevano permesso di tenere in piedi sistemi economici dalle fondamenta sempre più traballanti, la crisi del 2008 ha invece portato alla luce le reali conseguenze dello spostamento del baricentro globale verso Est, a spese di milioni e milioni di lavoratori e famiglie.

Potrebbe dunque sembrare che abbiamo, come si suol dire, toccato il fondo, ma bisogna in realtà stare ancora in guardia. Perché difficilmente la possibile fine della seconda globalizzazione porterà ad una rinnovata età dell’oro per il mondo occidentale.
Al contrario, terminato il giro su queste ripide montagne russe, ci troviamo con tutta probabilità già a bordo della prossima giostra, che caratterizzerà il decennio che sta per iniziare: la Quarta rivoluzione industriale.
Non intendo addentrarmi troppo nelle caratteristiche di questa rivoluzione, né nelle tecnologie che la definiranno. E, d’altra parte, è ancora troppo presto per operare previsioni realistiche su quelli che saranno i suoi effetti sul mercato del lavoro. Già ora, però, è possibile tracciare un quadro delle principali tendenze che si possono scorgere, all’alba degli anni ’20 del XXI secolo.

Innanzitutto, se non ci sono effettive garanzie a proposito del saldo netto di posti di lavoro creati e persi a causa di questa nuova, immensa rivoluzione, è invece pressoché certo che si assisterà ad una rapida mutazione delle tipologie di occupazioni che caratterizzeranno il mondo del lavoro. Spazio alle materie STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics), e alle cosiddette soft skills, dalla capacità di pensiero critico al problem solving e al lateral thinking: in poche parole, più mente e meno braccia.
Inoltre, è difficile pensare che non proseguiranno quelle dinamiche che già oggi stanno portando a cambiare radicalmente il rapporto tra lavoratori e datori di lavoro. Non è un caso che le generazioni che si apprestano ad entrare nel mercato occupazionale partano già rassegnate all’idea che il celebre “posto fisso” appartenga ormai solo ai ricordi di genitori e nonni. E, d’altro canto, quasi tutte le previsioni sono concordi nell’affermare che il numero di occupazioni che definiranno la carriera di ogni lavoratore del futuro sia destinato ad aumentare.
Infine, se allo stato attuale la grande maggioranza dei Paesi europei ha ancora un’economia caratterizzata da migliaia di piccole e medie imprese e pochissimi grandi nomi, è pur vero che alcuni veri e propri imperi economici stanno espandendo le loro quote di mercato in innumerevoli settori anche nel Vecchio Continente, e tale trend potrebbe proseguire e intensificarsi in un’economia sempre più caratterizzata da grandi costi di ricerca e sviluppo e continue corse alla registrazione di nuovi brevetti.

Il riscaldamento globale e le future evoluzioni del mercato del lavoro sono ovviamente solo due dei temi che caratterizzeranno il prossimo decennio. Ma su di essi ho voluto concentrarmi poiché, da un lato, la loro importanza è assoluta e la loro centralità nel dibattito pubblico non potrà che aumentare negli anni a venire; dall’altro, costituiscono ottimi esempi del tipo di sfide con cui la politica internazionale dovrà necessariamente confrontarsi in futuro, e permettono dunque di azzardare alcune considerazioni su quelle che dovranno essere le sue linee di evoluzione obbligate.

Un primo, enorme tema è quello dell’effettiva capacità della politica di rappresentare i cittadini.
Da certi punti di vista, infatti, è lecito affermare che le società occidentali del secolo scorso, nelle quali si sono delineate quelle modalità di far politica che ancora oggi vengono portate avanti quasi immutate, avessero strutture effettivamente più semplici da analizzare e comprendere di quelle attuali. Ecco allora che i partiti di massa, che hanno caratterizzato i decenni passati, avevano ragione di esistere poiché riuscivano con relativa facilità a portare avanti istanze ben precise, emergenti da classi sociali nettamente distinte tra loro, in un mondo relativamente chiuso.
Non è certo un mistero che tutto questo appartenga ormai al passato, e che il mondo occidentale sia oggi incredibilmente più frammentato, caratterizzato da profonde fratture ma non altrettanta coesione tra gruppi sociali. Ciò rende infinitamente più complesso delineare narrative politiche che trovino il consenso di ampie fette della popolazione: metaforicamente parlando, ciò che ieri era semplicemente “rosso”, oggi è spaccato in una serie immensa di diverse tonalità, e la più lampante conseguenza di questo fenomeno è la fine del bipolarismo partitico in quasi tutti i Paesi europei, la cui scena politica è stata recentemente caratterizzata da repentini sconvolgimenti dal sapore molto italico.
Poiché, con tutta probabilità, tali trend sono destinati a proseguire lungo tutto il prossimo decennio, è bene iniziare fin da ora a delineare nuove modalità di far politica, nuovi modi per aggregare i cittadini e raggiungere risultati sociali di una qualche rilevanza. E anche le più recenti dinamiche internazionali ci mostrano sempre più chiaramente che una delle vie più interessanti da percorrere potrebbe essere quella di iniziare a unirsi intorno a singoli, specifici temi e battaglie, piuttosto che intorno a grandi ideologie che pretendano di spiegare in modo compatto e coerente come affrontare ogni battaglia politica.

Secondo grande tema è quello della globalità dei fenomeni.
Il primo e principale effetto di questa globalizzazione (e, prima ancora, della diffusione di internet) è stato infatti senza dubbio l’abbattimento delle barriere tra cittadini, Stati, regioni e continenti terrestri. Ne è inoltre derivato un crollo storico delle disuguaglianze geografiche, almeno per quanto riguarda il rapporto tra l’Occidente e il resto del pianeta. E ciò che è più rilevante è che, come ho accennato prima, un tale, immenso mutamento delle relazioni tra gli esseri umani di tutto il mondo si sta iniziando ora a registrare a tutti i livelli sociali e in sempre più occasioni, prima fra tutte quella delle proteste per il clima.
Ecco allora che si inizia a scorgere un altro, importante sentiero di evoluzione della politica, che dovrà sempre più fare i conti con il principio che anima ogni Stato federale: la sussidiarietà, per la quale le varie mansioni devono essere affrontate ognuna al giusto “livello geografico”. E’ bene insomma rendersi conto fin da ora che, se vorremo vincere alcune delle più grandi sfide che caratterizzeranno il prossimo decennio, non potremo che affrontarle al giusto livello: quello globale.

Ultimo ma non per importanza è il tema della rapidità d’azione.
E’ noto infatti che la democrazia sia una forma di governo assai lenta. Ciò è divenuto ancora più vero con l’avvento delle democrazie a suffragio universale, caratterizzate da enormi organi partitici, strutturati spesso in modo da raggiungere una fenomenale capillarità sul territorio, ma anche irrimediabilmente burocratici.
Se questo modello organizzativo poteva essere funzionale nel secolo scorso, all’alba del 2020 emergono ormai in modo chiaro i suoi punti deboli, messi in luce soprattutto dal fatto che si trova oggi ad avere a che fare con un mondo radicalmente mutato.
E, soprattutto, sempre più dominato, come si diceva, da mastodontiche imprese multinazionali, che mantengono invece un’impressionante rapidità d’azione, muovendosi senza sforzi su uno scacchiere globale.
Dunque, anche da questo punto di vista è tempo di cambiare. E, ancora una volta, l’unica via possibile appare quella che porta ad occuparsi maggiormente di temi e meno di strutture e organizzazioni. Se vogliamo che la politica non si limiti a rispondere (in ritardo) alle mosse dei colossi internazionali dell’economia, ma torni a guadagnarsi la capacità di progettare davvero il futuro, dobbiamo iniziare rapidamente un processo di sburocratizzazione dei suoi organismi. Poiché, in un mondo ormai caratterizzato da grandi imprese ed enormi Stati governati con modalità ben lontane dai principi dell’Illuminismo, a rischio c’è ormai l’esistenza stessa delle democrazie liberali.

Ecco dunque tracciate tre delle principali direttrici in cui credo si dovrà muovere la politica del futuro, o almeno dei prossimi dieci anni.
Tre le parole chiave: rappresentatività, globalità e rapidità. Sono questi gli obiettivi che dovremo perseguire, in un mondo sempre più frammentato, interconnesso e veloce.
Si tratta di vere e proprie sfide, e si tratta di sfide immense, davanti alle quali dovremo dimostrare enorme capacità di pensare fuori dagli schemi nei quali oggi ci troviamo, per poi superarli con coraggio.
La posta in gioco è molto alta, e riguarda tutti, nessuno escluso, perché tutti sono chiamati a difendere quello che è il diritto più importante: il diritto ad avere una voce nella costruzione del mondo del futuro.

Saremo in grado di vincere queste sfide?
Ai posteri l’ardua sentenza.
Buon decennio!

#Hints

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