Sardine e paella

Mario Ferretti
#Hints
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7 min readDec 1, 2019

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Cosa c’entrano la nascita del movimento delle Sardine e le dimissioni di Albert Rivera, leader del partito spagnolo Ciudadanos?
Non nego che appaia inusuale il tentativo di trovare una correlazione tra questi due avvenimenti che hanno segnato l’attualità politica europea delle ultime settimane.
Eppure, sono convinto che un legame esista. Anzi, più di un semplice legame.
Penso infatti che le Sardine pongano un problema, la cui soluzione si trova forse proprio nella decisione di Rivera. Ma andiamo con ordine, iniziando dallo spiegare le circostanze dei recenti eventi a cui si fa riferimento.

Partiamo dalle Sardine.
Per quei pochi che non ne avessero ancora sentito parlare, si tratta di un movimento nato nelle ultime settimane in Emilia-Romagna, che sta organizzando una serie di proteste pacifiche nelle piazze di tante città. Hanno esordito proprio nella regione che andrà al voto tra meno di due mesi, ma stanno arrivando in breve tempo ad espandersi anche al resto del nostro Paese.
Più o meno ufficialmente, le manifestazioni sono in opposizione a Matteo Salvini e al suo partito, quella Lega (sempre meno) Nord che potrebbe conquistare anche la regione “rossa” per eccellenza, dopo cinquant’anni di giunte monocolore.
Non mi interessa dare qui una valutazione di questo movimento. Credo però sia importante sottolineare che, se da un lato si tratta di un fenomeno di notevole successo, d’altra parte i ragazzi delle Sardine non si possono certo definire dei pionieri, avendo antenati illustri come i “Girotondi”, il “Popolo Viola” e tanti altri, più o meno strutturati. Tutti, inevitabilmente, caratterizzati dal fatto di riunire un immenso numero di persone non tanto sulla base di forti idee e proposte comuni e condivise, ma contro qualcuno: se qualche anno fa era Silvio Berlusconi, oggi è Matteo Salvini.
In entrambi i casi, i risultati effettivi di questo genere di opposizione si sono rivelati quantomeno discutibili, e tra l’altro il fatto che si sia arrivati a scendere in piazza contro un leader politico che non è nemmeno più (ancora?) al governo dovrebbe, credo, far riflettere su chi stia davvero dettando l’agenda politica italiana, che si trovi a Palazzo Chigi, Roma, in Via Bellerio, Milano, o davanti ad un mojito in qualche famoso locale, guarda caso, romagnolo.

Ad ogni modo, come ho detto, non intendo dedicare queste righe ad un giudizio sulle Sardine.
Mi interessa invece soffermarmi sul fatto che si tratta di un movimento che porta avanti un’attività di natura politica, ma è apartitico. Fin dalla prima manifestazione in Piazza Maggiore a Bologna, infatti, gli organizzatori di questi inusuali banchi di pesci hanno sempre tenuto a sottolineare di non essere affiliati in nessun modo ad alcuna forza politica esistente; ma, soprattutto, in ogni evento Facebook delle proteste che si sono tenute o si dovranno tenere, si legge molto chiaramente che sono vietati simboli, stemmi e bandiere di partito.

Un tale, ostentato apartitismo non è certo una novità tra i movimenti di protesta sociale e politica: del resto, anche uno tra i più significativi della storia recente, quello del ’68, nasceva orgogliosamente dal popolo, soprattutto nella sua parte più giovane, e non dai partiti.
E però forse proprio le proteste del ’68 rappresentano, almeno simbolicamente, l’inizio di un fenomeno nuovo, di un tentativo di affrontare la politica in modo strutturalmente diverso, superando addirittura il concetto stesso di partito, quel corpo intermedio che ha senza dubbio caratterizzato le modalità del fare politica durante tutto il “secolo breve” del Novecento, ma che proprio negli anni ’70 iniziava ad essere messo in dubbio, soprattutto nella sua effettiva capacità di indirizzare efficacemente la vita economica, sociale e culturale di un Paese.
E in effetti, è innegabile che da allora si sia iniziata ad osservare una crescente tendenza alla disillusione nei confronti della politica partitica nazionale, progressivamente svuotata da un lato di ogni potere fattuale con lo sviluppo di organizzazioni e istituzioni sovranazionali sempre più rilevanti, e dall'altro privata di reale legittimità dai montanti tassi di astensione agli appuntamenti elettorali.
Peraltro, in quest’ottica si può senza dubbio ricomprendere anche il fenomeno del populismo anti-sistema, che anzi rappresenta da certi punti di vista il vero e proprio culmine delle tendenze appena menzionate, come una sorta di esplosiva antitesi hegeliana alla politica partitica del secolo scorso.

Insomma, a ben vedere, le Sardine non sono che il più recente sintomo di un fenomeno ormai decennale.
E credo che in tutto ciò sia racchiusa un’importante lezione, un insegnamento che è bene apprendere molto rapidamente.
Se vogliamo salvare la politica occidentale, infatti, dobbiamo renderci conto il prima possibile che serve un radicale, strutturale rinnovamento delle modalità con cui si fa politica in Occidente.
Chiariamoci: non sarà semplice e non sarà rapido. Si tratta di un’opera immensa, quanto immenso è stato lo sviluppo dei partiti di massa. Però, da qualcosa bisogna iniziare. E qui entra in gioco Albert Rivera, e quanto successo in Spagna appena tre settimane fa.

Domenica 10 novembre si sono infatti tenute le elezioni nazionali nello Stato iberico (soltanto pochi mesi dopo la tornata di aprile, che non aveva però restituito alcuna maggioranza in grado di formare un governo stabile). Non scendo troppo nei dettagli della situazione politica spagnola e delle sue recenti evoluzioni, ma mi concentro invece su un solo partito, il più recente tra quelli con percentuali rilevanti, ossia Ciudadanos.
Nato in Catalogna solo pochi anni fa per dare rappresentanza politica ai cittadini della regione spagnola che cercavano un’alternativa alle tendenze indipendentiste sempre più diffuse, è poi cresciuto fino a diventare in breve tempo una forza di scala nazionale, di chiara matrice liberale, sotto la guida del leader Albert Rivera.
Nelle elezioni di aprile, Ciudadanos si era piazzato addirittura al terzo posto, dietro ai due storici Partido Socialista Obrero Español e Partido Popular. Una strategia errata e il diffondersi del sovranismo anche in Spagna, però, ha portato in pochi mesi ad un crollo verticale dei suoi consensi, relegandolo al quinto posto col voto di novembre. E qui arriva la parte interessante.
Perché infatti, la mattina dopo il disastroso risultato elettorale, Albert Rivera ha annunciato le sue dimissioni da leader di Ciudadanos ma, soprattutto, la sua decisione di ritirarsi dalla politica.

Anche in questo caso, non ho alcun interesse a giudicare l’operato o le idee di Rivera.
Soprattutto perché reputo invece che questa sua scelta di uscire del tutto dalla vita politica rappresenti un evento molto più rilevante e assai inusuale, almeno per noi Italiani, abituati a permanenze decennali nelle due camere parlamentari e tornate elettorali da cui, inspiegabilmente e contro ogni logica, sembrano uscire tutti vincitori.
Però, come sottolineavo qualche riga più su, un rinnovamento è necessario. E io credo debba partire anche da qui, dal rimuovere uno dei dogmi che ha caratterizzato l’approccio alla politica per tutto il Novecento: che questa debba essere un lavoro, su cui si possa costruire una vera e propria carriera, dalla formazione giovanile (qualcuno ha detto Scuola delle Frattocchie?) alla pensione.
Se verrà rispettata, la coraggiosa scelta di Rivera rappresenta un importante colpo a questa impostazione, e io spero che non rimanga un unicum, un caso particolare.

Non fraintendetemi, non si tratta di un atteggiamento populistico di repellenza verso la politica. Tutt'altro.
Si tratta invece di far tornare al centro l’idea di politica come servizio alla propria comunità. Servizio che non può che essere temporaneo, perché solo ponendo dei limiti chiari è fisiologicamente possibile evitare che si trasformi in spartizione di vetuste rendite di posizione e continua corsa al mantenimento del consenso e del potere.
E no, non è una novità recente. Una simile intuizione l’avevano già avuta addirittura gli antichi Romani che, pur in un clima culturale ovviamente non paragonabile al nostro, stabilivano comunque limiti precisi ai mandati di quasi tutte le cariche del cursus honorum.

Se vogliamo ridare dignità alla politica, oggi, dobbiamo evitare che questa si trasformi nell'arena di un goffo e triste scontro tra donne e uomini unicamente interessati ad essere rieletti per mantenere i loro emolumenti e il tenore di vita che ne deriva.
E allora la mossa di Albert Rivera assume un significato molto più profondo di quanto si possa credere, perché fa emergere chiaramente l’idea che, come si è entrati, dalla politica si possa anche uscire, e che sia importante mantenere l’integrità morale e l’onestà intellettuale necessarie per comprendere quando è bene farlo.

Ecco allora che tutto risulta più chiaro.
Le recenti tendenze sociali che includono fenomeni come il movimento delle Sardine pongono un problema di enorme rilievo. A ben vedere, non si oppongono tanto, o quantomeno non solo al sovranismo di Salvini. Nascono piuttosto e più in generale contro l’attuale modo di intendere la politica tutta, che risulta anacronistico e superato a sempre più persone. E chiedono a gran voce che le cose cambino. Che la politica tutta cambi.
Bene, tre settimane fa Albert Rivera ha dato, probabilmente senza volerlo, una prima, possibile, risposta a queste richieste, come ha fatto chiunque lo abbia preceduto nella scelta di lasciare la vita pubblica al momento giusto, evitando accanimenti terapeutici.

Spero vivamente non sia l’ultima, ma solo l’inizio di qualcosa di più grande.
La politica va salvata, le vanno restituite la dignità e la legittimità che ha perso negli anni.
Per riuscire in questa impresa, sono necessarie scelte radicali e coraggiose, ma da qualcosa bisogna pur iniziare.
E forse, l’11 novembre scorso, qualcosa è iniziato.

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