Strong and stable?

Mario Ferretti
#Hints
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6 min readNov 10, 2019

Strong and stable”.
Questa espressione è diventata recentemente famosa poiché utilizzata da Theresa May, ex Prima Ministra del Regno Unito, durante la campagna elettorale britannica del 2017, in una situazione che di robusto e stabile aveva ben poco.

Non intendo parlare di Brexit, ma parto proprio da questi due aggettivi perché, se nel Regno Unito la situazione è ormai pressoché fuori controllo, un simile clima di instabilità e una goffa e ridicola distanza tra le dichiarazioni dei leader politici e la realtà dei fatti si sono ormai diffusi in tutto il continente europeo.
Se però in alcuni Paesi si tratta di tendenze relativamente nuove, in altri rappresentano da tempo la normalità. E in altri ancora, come l’Italia, sono tradizioni vere e proprie, al pari dei proverbiali pizza e mandolino. E hanno conseguenze, pesanti.

Un lampante ed eloquente esempio riguarda la questione dell’acciaieria ex-ILVA di Taranto.
Impianto siderurgico inaugurato nel lontano 1965 e dato fin da subito in gestione all’allora Italsider, di proprietà pubblica, fino alla crisi degli anni ’80, quando le enormi crepe della gestione statale vengono alla luce e portano alla privatizzazione dell’acciaieria, che viene acquisita dal Gruppo Riva nel 1995.
Anzi, svenduta al Gruppo Riva, che la acquista per 2’500 miliardi di lire, meno di due terzi della valutazione che era stata data all’impianto, 4’000 miliardi, nell’ambito di una serie di privatizzazioni che hanno dolorosamente dimostrato quanto sia vero il detto “la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”, soprattutto in un Paese dove il sistema economico è fin troppo legato a quello politico.

Il resto, come si suol dire, è storia.
Fino al 2015 quando, dopo gli interventi giudiziari, inizia l’iter che porterà l’ormai ex-ILVA al commissariamento e poi nelle mani di ArcelorMittal, colosso franco-indiano della siderurgia. E, soprattutto, quando il Governo Renzi e il suo allora Viceministro (e poi Ministro) allo Sviluppo Economico Carlo Calenda decidono di introdurre uno “scudo penale” a favore dei commissari che saranno chiamati a gestire la fase di transizione dell’acciaieria, per evitare loro di incappare in processi derivanti da problemi pregressi nell’attuazione del piano che era stato concepito per far rientrare i valori di impatto ambientale della produzione negli stringenti (e sacrosanti) limiti imposti dall’Unione Europea.

E qui inizia l’ultimo atto di questa commedia che rischia di trasformarsi in tragedia.
Lo “scudo penale” introdotto nella fase del commissariamento viene infatti confermato anche a favore dei nuovi proprietari dell’acciaieria.
Solo inizialmente però. Perché nel giugno 2019, ad appena 4 (quattro) anni dalla sua introduzione, il Governo “gialloverde” MoVimento 5 Stelle-Lega decide di rimuoverlo, reputandolo illegittimo, ma senza un confronto efficace con ArcelorMittal, che infatti minaccia fin da subito di abbandonare l’investimento in Puglia. È il 6 settembre 2019 e, soltanto poche settimane dopo, il Governo torna parzialmente indietro con una reintroduzione della misura in una forma nuova, più circoscritta. Ma la farsa non finisce qui, perché alcuni parlamentari “grillini” si oppongono a questa scelta, e si torna dunque allo scontro aperto, questa volta tra ArcelorMittal e il nuovo Governo “giallorosso” MoVimento 5 Stelle-Partito Democratico.

In un Paese normale, ad un tale affastellamento di decisioni di segno opposto seguirebbe una lunga serie di dimissioni e licenziamenti, per vari motivi.
Innanzitutto, e a scanso di equivoci: lungi da me sostenere che la dirigenza di ArcelorMittal sia composta da santi e martiri. Parliamo di un gruppo industriale, il cui obiettivo è produrre acciaio secondo principi di economicità nella gestione.
Risultano dunque più che legittimi i dubbi di chi sostiene che la questione dello “scudo penale” sia solo un pretesto usato dai Franco-Indiani, che sarebbero comunque intenzionati ad abbandonare lo stabilimento tarantino, rivelatosi un investimento peggiore del previsto.
Questo non è però un buon motivo per decidere di revocare una misura a pochi anni dalla sua introduzione e, anzi, se davvero esisteva il pericolo che ArcelorMittal stesse cercando un modo per andarsene, la scelta dei due ultimi Governi risulta ancora più assurda, per usare un termine politicamente corretto.

Già solo per tale ragione sarebbe dunque necessario stigmatizzare un evento come questo.
Il problema vero, però, è che, come sottolineavo prima, il caso dello “scudo penale” per l’acciaieria di Taranto è solo l’ultimo di una decennale serie di episodi che hanno progressivamente messo sempre più in dubbio la credibilità del nostro Paese agli occhi di ogni potenziale investitore internazionale.
Episodi che nascono tutti dallo stesso vulnus: totale assenza di stabilità politica e nessuna capacità di progettare con pragmatismo il futuro (anche e soprattutto industriale ed economico) dell’Italia.

Chiariamoci: non chiedo tanto. Ho vissuto in questo Paese per un tempo sufficiente per capire che, almeno nel breve termine, sarebbe fantascienza sperare di vederlo definire una politica industriale pragmatica, sostenibile e proiettata al futuro. E temo sarebbe ugualmente improbabile sperare che questo tipo di progettualità arrivi dall’Unione Europea, almeno per i prossimi anni.
Come cittadino stufo di assistere ogni giorno alla fuga di aziende e investitori, esasperati da un clima politico e culturale che non permette di fare impresa con serenità e fiducia nel futuro, credo però che qualche passo avanti andrebbe fatto.

Innanzitutto: stabilità politica.
Un rapido calcolo aritmetico suggerisce che la durata media di un Governo in Italia non ha superato 1 anno e 2 mesi, dal 1945 ad oggi. Non servono particolari competenze politologiche per comprendere che, in un così breve lasso di tempo, è materialmente impossibile promuovere e attuare quelle riforme strutturali di ampio respiro che tanto servirebbero al nostro Paese per tornare quantomeno a galleggiare in acque meno agitate. Questa situazione è peraltro peggiorata dopo il 1994, poiché in questi ultimi 25 anni si sono alternati esecutivi di colore politico molto diverso, le cui (pochissime) riforme tendevano in direzioni opposte, generando proprio quella serie di episodi di cui il caso ex-ILVA è solo l’ultimo esempio.

E no, alla base di tali disastrose tendenze non c’è la struttura istituzionale dello Stato italiano: sarebbe troppo facile pensare per esempio che basti optare per il famoso presidenzialismo francese per garantirci maggiore stabilità.
Dietro c’è molto di più. C’è il fallimento culturale di un’intera classe dirigente, che non ha mai compreso a pieno la sua enorme responsabilità e si limita oggi a lottare su vetuste rendite di posizione, ben guardandosi dal pensare realmente alle sfide che attendono l’Italia nei prossimi decenni. Ed è proprio nell’ottica di difendere tali rendite di posizione o ancor peggio specifici bacini di consenso che vengono prese decisioni come quelle sullo “scudo penale”.

Proprio l’unione di questi due ingredienti, però, produce i disastri a cui accennavo.
Perché il susseguirsi di politiche tese solo a non perdere consenso, portate avanti anno dopo anno da Governi e maggioranze di segno opposto, è esattamente il contrario di quello che servirebbe, ossia un progetto a lungo termine, internamente coerente, che si sviluppi gradualmente, a piccoli passi, verso una precisa direzione.
E proprio in quest’ottica non troverei impossibile (sebbene assai complessa da gestire) addirittura la pianificazione della chiusura dell’acciaieria di Taranto, ma all’interno di un piano decennale di riconversione della struttura economica italiana, non certo da un giorno all’altro.

Perché invece, ad oggi, il rischio che corriamo è proprio questo.
A giocare col fuoco ci si brucia le dita, e se davvero ArcelorMittal deciderà di abbandonare la Puglia, senza un piano d’azione chiaro e credibile non è affatto azzardato sostenere che esista il rischio di chiusura per lo stabilimento del quartiere Tamburi.
O che, in alternativa, si vada verso la nazionalizzazione. E si tratterebbe di un ritorno alle origini sinceramente assai poco auspicabile, perché non siamo più nel 1965 ed è quantomeno ardito credere che la stessa classe dirigente che non ha saputo minimamente gestire i rapporti con il colosso franco-indiano sarebbe invece capace di occuparsi della gestione diretta dell’acciaieria ex-ILVA.

Comunque vada, insomma, la situazione è tutto fuorché strong and stable.
Soprattutto perché rappresenta solo il prodotto finale di ataviche, deleterie dinamiche di mantenimento del potere a breve termine che, per essere efficacemente combattute, richiederanno tempo e radicali mutamenti.
Oggi più che mai, è lampante la necessità di uno strutturale rinnovamento della classe dirigente del nostro Paese e, soprattutto, delle modalità dell’azione di governo.
La politica deve tornare ad essere percepita come un servizio alla comunità, non come un ambito di carriera personale, perché solo in questo modo si potrà davvero mettere al centro la necessità di progettare in anticipo e con coraggio il futuro dell’Italia e dell’Europa, e non l’urgenza di mantenere il consenso intatto.

Sarà una strada necessariamente lunga e piena di ostacoli, ma è arrivato il tempo di percorrerla.

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