Tra santi e peccatori

Mario Ferretti
#Hints
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6 min readFeb 9, 2020

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Il Festival di Sanremo 2020 si è concluso.
È giunta al termine la 70° edizione della competizione canora più famosa d’Italia, che anche quest’anno ha tenuto quasi un Italiano su quattro davanti alla televisione per cinque serate di fila.
Non intendo accodarmi alle innumerevoli paginate di commenti su outfit, esibizioni e critica musicale che sono state prodotte in questi giorni. Credo però che il festival del Teatro Ariston sia la migliore dimostrazione di quanto avesse ragione Thomas Mann nel sostenere che “tutto è politica”. Tra monologhi politicizzati e performance contenenti messaggi più o meno subliminali, infatti, queste settanta edizioni della competizione sono sempre andate ben oltre la mera competizione. E quella del 2020 non ha fatto eccezione.

Come da tradizione, anche quest’anno per una settimana l’Italia si è fermata, o quantomeno si è fermato il Paese virtuale, le cui consuete logiche sono state totalmente stravolte.
Per accorgersene basta farsi un giro su qualunque social network: Facebook, trasformato in un fiume in piena di articoli di ogni tipo su quanto avveniva dentro e fuori l’Ariston, con annessi commenti non richiesti di improvvisati navigatori del web; ma anche Twitter, che ha visti rivoluzionati i suoi trend topic, cioè i temi maggiormente trattati ora dopo ora. Tra i quali, per una volta, non c’era per esempio #MatteoSalviniCheFaQualunqueCosa.
Già, è successo. Dove non erano riusciti ad arrivare i social media manager di alcun partito, è giunto Sanremo. Il Festival, celebrazione e fin troppo spesso amarcord di un’età dell’oro italiana che non esiste più (e che forse non è mai davvero esistita), ha battuto la famosa Bestia, soprannome della vera e propria macchina da guerra messa in piedi dalla Lega di Matteo Salvini e Luca Morisi per dominare il world wide web nel Belpaese. Che in fondo, post dopo post, altro non fa che predicare proprio il ritorno a quell’età dell’oro, verso la quale il “Capitano” dovrebbe guidarci, se solo avesse i pieni poteri di farlo.

E però, se esiste un merito per questo risultato, non può essere attribuito genericamente a tutto il tourbillon sanremese. Ad oscurare almeno virtualmente l’intero arco costituzionale, in effetti, hanno concorso soprattutto alcuni personaggi, tra i quali spicca senza dubbio uno degli artisti in gara, Achille Lauro.
Lauro de Marinis (già, non si chiama Achille) è riuscito infatti a far parlare di sé per tutta la settimana soltanto tramite le sue performance, cariche di significati profondi.
In un Festival non scevro da gaffe e condito spesso dal più retrogrado provincialismo, l’artista romano ha portato in scena e descritto con le sue esibizioni un tema che è ormai giustamente centrale nel dibattito pubblico, ma su cui è bene mantenere l’attenzione sempre alta: quello della parità di genere e della lotta contro gli stereotipi secolari di una società ancora troppo maschilista.
E lo ha fatto in maniera magistrale. Dando peraltro, probabilmente senza nemmeno volerlo, una dimostrazione eccellente di come si possa fare Politica, con la P meritatamente maiuscola, pur mantenendosi ben lontani dai palazzi delle istituzioni pubbliche. E fornendo spunti preziosi, a chi li sappia cogliere, per proseguire nel percorso da lui più o meno involontariamente tracciato.

Ma proviamo ad analizzarli più da vicino, questi spunti.
Innanzitutto, il coraggio.
È ormai da tempo che la società occidentale sembra entrata in un vortice di dipendenza sempre più marcata dall’adrenalina e dalla serotonina, che si riflette ogni giorno nella continua ricerca del brivido, dell’inatteso e delle emozioni forti. In questo contesto, presentarsi su un palco come quello del Festival di Sanremo e limitarsi a cantare svogliatamente qualche verso su una storia d’amore fallita con un giro di Sol in sottofondo non è certo il metodo più efficace se si ricerca la viralità.
Ecco perché Achille Lauro e il suo chitarrista Boss Doms hanno preparato la loro settimana in Liguria nei minimi dettagli, aiutati da nientemeno che Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è un pendolo tra hype e provocazione, e milioni di cuoricini su Instagram: adrenalina e serotonina, appunto.
Sembrerà strano, ma vale lo stesso anche in politica. Dove, ad un certo punto, arriva il momento di scegliere se continuare con le solite frasi fatte e i soliti slogan stantii e superati, o se dare invece il via ad una vera rivoluzione, sia nei contenuti che nel modo di trasmetterli, puntando su messaggi dirompenti e strumenti di comunicazione innovativi.
Nel caso non fosse chiaro, questa scelta incombe ora come una spada di Damocle su tutta l’area progressista, dopo che varie altre forze politiche hanno già da tempo messo ben in chiaro la direzione che intendono prendere. No, non è un reato aprire un profilo TikTok.

Seconda, ma non per importanza, la fruibilità.
Se risulta relativamente facile discettare di libertà e trasgressione nei salotti delle ZTL cittadine, ben diverso è portare performance come quelle dei due artisti romani al Festival di Sanremo, davanti a decine di milioni di persone di ogni età, origine, grado di istruzione e ceto sociale. Soprattutto perché la competizione musicale più famosa d’Italia viene trasmessa dalla RAI, rete televisiva di Stato, la cui mission rimane, almeno sulla carta, anche quella di promuovere messaggi di spessore culturale in tutto il Paese. Ecco allora che, durante il Festival, sul palco dell’Ariston si susseguono interventi di ogni tipo, di qualità più o meno dubbia, ma non certo caratterizzati dalla brevità della poesia ermetica.
Che piaccia o no, nella società dei 280 caratteri a tweet, a meno di casi realmente eccezionali è molto difficile che un monologo di mezz’ora mantenga la stessa forza espressiva per tutta la sua durata, e non sempre “allungare il brodo” aiuta a trasmettere meglio il messaggio sottostante. Insomma, a volte less is more.
Proprio come nel caso delle quattro performance di Lauro e Boss Doms, i quali hanno passato in tutto poco più di 15 minuti sul palco dell’Ariston, ma sono comunque riusciti a far parlare di loro più di tanti altri personaggi che hanno goduto di spazi assai più ampi. E ce l’hanno fatta perché alle parole hanno sostituito i fatti, le azioni, i movimenti, tutti perfettamente calibrati, nella loro apparente follia.

E del resto è qui la vera genialità dei due artisti.
Nell’aver capito che il Festival di Sanremo è un’occasione troppo importante per sprecarla in banali canzonette. Che non conta nulla portarsi a casa il leone e la palma dorati avendo mostrato eccellenti doti canore, se non si è riusciti a trasmettere qualcosa di più profondo. E che, quando hai davanti a te tutta Italia per una settimana intera, il minimo che tu possa fare è utilizzare un tale, incredibile spazio in modo memorabile.
Achille Lauro e Boss Doms ce l’hanno fatta, senza dubbio.
E, cosa ancora più incredibile, ci sono riusciti pur portando in scena un messaggio profondamente positivo, di libertà ed abbattimento degli stereotipi.
Perché sono bravi tutti a creare scandalo citofonando in diretta Facebook ai portoni di sconosciuti, sull’onda della giustizia sommaria dal retrogusto giacobino. Basta solo cancellare ogni freno inibitore, dimenticare ogni principio etico e scordarsi per qualche minuto dell’esistenza del codice penale. Ma rimanere trend topic su Twitter per un’intera settimana parlando di femminismo, lotta al patriarcato e libertà d’espressione è tutta un’altra storia.

Il progressismo italiano ha molto da imparare da questi due artisti.
Imparare il loro stile comunicativo, la loro abilità nell’affrontare temi complessi in modo semplice e dissacratorio. Ma, soprattutto, la capacità di pensare fuori dagli schemi e di non abbandonarsi mai alla retorica.
Dobbiamo riprendere il contatto con la società di questo Paese.
E per farlo, dobbiamo avere l’umiltà di imparare da chi ha dimostrato, che ci piaccia o meno, di essere molto più capace di noi.
Il progressismo riparta da Achille Lauro.

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