I significati culturali della mascherina

Marco Pedroni
HomoAcademicus
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3 min readNov 29, 2022

Non ho ancora convinto nessun laureando a scrivere una tesi sulla mascherina, ma rimango convinto che sia l’oggetto più rappresentantivo della nostra esperienza pandemica.

Mentre scrivo questo post, Covid-19 sembra stabilizzarsi come fenomeno endemico. Ne abbiamo meno paura e siamo tornati ad abitudini sociali prepandemiche. Tuttavia, a chi voglia continuare a leggere i dati (nonostante il governo Meloni abbia cancellato la conta giornaliera degli infetti), appare evidente che siamo in una fase di crescita dei contagi da Covid-19, in un momento di particolare vigore della ‘normale’ influenza stagionale.

Perché, dunque, in luoghi affollati come treni e metropolitane chi indossa una mascherina è in schiacciante minoranza? Non avevamo interiorizzato il dispositivo come protesi? Non lo avevamo insensatamente utilizzato anche quando, contro ogni evidenza scientifica, ci era prescritto all’aperto? Non abbiamo assistito a scene surreali di persone mascherate da sole in automobile o di famiglie che passeggiavano in campagna con ffp2?

I motivi per studiare sociologicamente la mascherina sono diversi.

La mascherina è un oggetto culturale, à la Griswold, che riflette e a sua volta alimenta il mondo sociale in cui il suo uso è prescritto, normato, consigliato. Un dispositivo che parla di rispetto delle norme così come di esercizio di capacità critica contro le norme; ma anche di razionalità e irrazionalità, di rapporto con la scienza, di senso della comunità.

Un secondo enorme tema è quello del confine. La cultura, ci insegna Lévi-Strauss, è un’azione separatrice: attraverso gesti, azioni, consumi e non-consumi, gli individui compiono azioni di tracciamento di confini simbolici e materiali. La prassi umana si organizza intorno a distinzioni e confini, e il più importante è senza dubbio quello tra “noi” e “loro”, cioè tutti quelli che scegliamo di collocare in una posizione di alterità rispetto a una comunità, vera o presunta, in cui ci riconosciamo. La mascherina è un oggetto culturale di straordinaria intimità: aderisce alla nostra pelle, copre il viso — strumento principe della nostra relazionalità ed emotività — fissando a un millimetro dalla bocca il confine tra un noi (anzi, un “io”) puro e incontaminato e la schiera degli “altri”, potenziali portatori di infezione e pericolo per la nostra salute. La pandemia, del resto, è stata una straordinaria fucina di confini: dentro/fuori, sano/infetto, allineato/disertore.

Le domande che derivano da un approccio culturale e non sanitario alla mascherina sono molte.

  • Che tipo di significato attribuiamo alla mascherina?
  • Quanto siamo consapevoli di costruire un confine?
  • Questo confine è posto dall’interno verso l’esterno (un gesto di educazione e altruismo: non voler contagiare gli altri) o nella direzione opposta (evitare che gli altri ci contagino)?
  • Quanto flessibilità vi è in questa pratica, in quali contesti e a quali condizioni scegliamo di indossarla o non indossarla?
  • In che modo gli usi, abusi e non usi della mascherina sono mutati in relazione alle diverse fasi dell’emergenza pandemica?
  • In che modo sono avvenuti i processi di legittimazione e delegittimazione della mascherina?
  • E infine: quali lotte simboliche si celano dietro l’imposizione, il rifiuto e gli usi della mascherina?

Insomma, se non si fosse capito: aspetto le vostre proposte di tesi sulla mascherina.

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Marco Pedroni
HomoAcademicus

Proudly a sociologist, whatever that means. I write about digital media, cultural industries, artificial intelligence, and academia