Milan|Wuhan, la laurea in una stanza

Marco Pedroni
HomoAcademicus
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4 min readMar 19, 2020

Quando sei qui [lontano da] me
Questo soffitto viola
No, non esiste più
Io vedo il cielo sopra noi
Che restiamo qui
Abbandonati
Come se non ci fosse più
Niente, più niente al mondo

(semicit.)

Surreale e solenne

“Carlo, la videocamera è questa, giusto?”

La prima candidata formula la domanda a un marito fuori inquadratura, si aggiusta i capelli e siede nel salotto di casa davanti a un computer portatile. Come lei, un’altra decina scarsa di studenti. Protagonisti, loro malgrado, di un esperimento imprevisto: laurearsi senza uscire di casa.

Donne e uomini, da Milano a Palermo. Ventenni, quarantenni, sessantenni — nella mia università la presenza di studenti senior è elevata. Nessuna sciatteria: tutti impeccabilmente vestiti per uno dei giorni più solenni della loro vita. Qualche minuto prima della connessione anche io mi decido per la cravatta: perché se la definizione della situazione è figlia del contesto e dell’accordo operativo tra chi lo abita, un piccolo gesto formale potrà trasmettere un’eco dell’istituzionalità che viene necessariamente a mancare in un’aula virtuale.

Spaesamento

Come accade in questi giorni a molti colleghi, è la prima volta che presiedo una commissione di laurea chiuso nel mio studio. Senza il familiare brusio dei laureandi, il folclore delle loro famiglie, la tempesta di flash dei cellulari che scattano fotografie. Senza quella toga dai cordoni dorati, mai della mia taglia: troppo abbondante o troppo stretta.

Il mio spaesamento è pari a quello dei candidati: persone ridotte a piccoli riquadri dentro uno schermo, incorniciati dalle pareti colorate della loro cucina, dal pavimento a scacchiera della sala. Quasi dottori agli arresti viral-domiciliari.

Le prime battute servono a raccontarci di quanto siamo tutti consapevoli delle assurde circostanze. Goffmanianamente, ne prendiamo le distanze. Per trovare la determinazione, un secondo dopo, di prenderci sul serio: mettendo in scena la rappresentazione secondo il copione imparato nelle vere aule magne. Tempi, formule, il “lei” per dare la parola al collega di commissione con cui di solito ci si racconta barzellette irripetibili.

In questo consapevole e necessario autoinganno, già alla seconda presentazione il dramma ha preso l’abbrivio, la macchina tiene un suo ritmo peculiare, ma regolare. Gli intoppi tecnici — cade una connessione, uno relatore-quadratino si disperde in un frullato di pixel — non sembrano più gravi di quanto non sia, in una seduta in presenza, l’imbarazzo dello studente che non sa aprire un file powerpoint.

Marginale, ma da menzionare: nessun telefono di zii e cugini spezza all’improvviso la tensione drammatica della cerimonia con un imbarazzante motivetto, come regolarmente accade dal vivo. L’unico telefono attivo è il mio: mittente e ricevente di Whatsapp con cui scambio opinioni istantanee con i colleghi di commissione — quelle che avrei sussurrato al segretario togato di fianco a me.

Applausi

Una seduta di laurea non è altro che una cerimonia. Spesso tediosa per la commissione, costretta ad ascoltare digressioni su temi talmente specialistici da risultare incomprensibili a tutti, fuorché al relatore. Di difficile appeal per il nonno ottantenne che ascolta il nipote disquisire di project financing o influencer marketing.

Oggi, però noto una tensione diversa. Per primo in me stesso: mi sorprendo a fare domande su una tesi di diritto penale. Ho un disperato bisogno di conferire senso all‘azione sociale che avviene nei 13 pollici del mio laptop. E finisco per appassionarmi a una mattinata che, in circostanze normale, avrei vissuto nel desiderio di una pausa caffè.

Arriva la proclamazione. “Per i poteri conferitimi” e blablabla. La stretta di mano si consustanzia in un arto avvicinato alla webcam, e diventa un involontario ma “caloroso” — nelle fredde temperature dell’aula telematica — gimme five. Da ogni finestrella dello schermo sgorga un applauso: a colpo d’occhio somiglia al Gioco dei Nove di Vianello, ma i concorrenti hanno una preparazione disciplinare da Lascia o raddoppia.

Una nuova (a)normalità

Una mamma attende il voto tirando a sé la figlia accanto allo schermo. È una scena commovente.

Concluso il rituale, lascio il collegamento attivo per qualche minuto: sento gli studenti — che non si conoscono — scambiarsi complimenti e chiacchiere sul futuro, sul virus, vedo entrare altri parenti nell’inquadratura. La tensione si scioglie come all’uscita dall’aula magna. Offline e online, mondo e oltremondo, pulsano come due cuori diversi di uno stesso motore, come scriveva Baricco qualche anno fa.

Una nuova normalità — provvisoria, ma che ogni giorno che passa immaginiamo essere più lunga di quanto sperassimo — si è imposta in questi giorni di sospensione del quotidiano. Con i suoi molti limiti e le sue sorprese. Caoticamente.

Un pugno di neo-dottori è stato battezzato via Internet. Missione compita. Ma un compito ben più difficile rimane sulle spalle di chi fa il mio mestiere: guardare con distacco questa iniezione forzata di televoro e televita, e chiedersi quali minacce e quali opportunità contenga.

Perché, quando tutto questo sarà finito, dovremo essere capaci di sfruttare le seconde e difenderci dalle prime.

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Marco Pedroni
HomoAcademicus

Proudly a sociologist, whatever that means. I write about digital media, cultural industries, artificial intelligence, and academia