Milan|Wuhan: Il lavoro accademico ai tempi del coronavirus

Marco Pedroni
HomoAcademicus
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5 min readMar 12, 2020

I’m in the office, but out of control

Dear colleagues, Dear students,

The region where I live and work, Lombardy, as well as the whole of Italy, is affected by exceptional measures for the containment of the coronavirus, including the suspension of teaching activities.

For several days now, in the context of a strong increase in teleworking, I have been receiving far more messages than I can handle. For this reason, I am unable to guarantee an answer within 48 hours, as I usually do.

I ask you to forgive any delays and to contact me again next week if I still haven’t responded to your message.

My best wishes

Linea del fronte: ospedali, alimentari e fabbriche

In prima linea, sul fronte della battaglia al virus, vi sono indiscutibilmente infermieri, medici e personale sanitario. Al lavoro tutti i giorni, con turni massacranti. E soprattutto: esposti direttamente al contagio.

Ma non dobbiamo dimenticare tutti coloro che garantiscono i servizi ritenuti essenziali e lasciati aperti anche ora che tutta Italia è un’immensa zona rossa: cassieri, commessi, farmacisti, edicolanti. Esposti al colpo di tosse del cliente che dimentica o ignora la regola del metro di distanza, assaltati come unica destinazione consumistica di un paese improvvisamente mutilato dello shopping e della movida.

E poi, salvo nuovo decreto, chi a lavorare ci va comunque. Perché tiene aperto un servizio essenziale o perché l’ambiente di lavoro offre le necessarie garanzie. Teoricamente, almeno. Nei fatti, inizia ad avvertirsi la pressione perché vengano chiuse le fabbriche, dove gli operai iniziano a sentirsi “carne da macello” esposta al contagio.

E l’università?

In questo quadro, ogni rivendicazione di eccezionalismo da parte dell’università e del lavoro intellettuale che può svolgersi “comodamente” da casa sarebbe del tutto fuori luogo.

Non è però fuori luogo, in un blog che parla del lavoro accademico, raccontare come si è modificata la routine del docente universitario in questa parentesi di sospensione della vita quotidiana.

Immaginazione sociologica

Iniziamo con un pro, forse l’unico.

La fase che viviamo sta generando una densissima agenda per la ricerca sociale. Una riflessione sul presente, che non potrà non avere effetti sul nostro lavoro nel lungo periodo. Non esiste un aspetto della vita collettiva — l’oggetto della sociologia — che non sia stato interpellato dalla quarantena virale.

Ruolo dei media nella creazione del panico morale, rarefazione sociale imposta per decreto, trasformazione del legame sociale, conseguenze della globalizzazione neoliberista, ruolo del capitale culturale nella creazione delle diverse risposte — noncuranza, ansia, obbedienza a (e complicità con) l’autorità, ruolo della leadership, meccanismi dell’influenza sociale (nel senso di influence e non di flu), sorveglianza e controllo. L’elenco è infinito.

E la riflessione che ne scaturirà potrà avere la forza, una volta finita l’emergenza, di far sentire alla collettività e ai decisori politici la necessità di cambiamenti strutturali.

Tanto per dire: vogliamo mantenere gli attuali scarsissimi livelli di investimento in istruzione e sanità? Questa emergenza è una rappresentazione plastica dell’importanza di un robusto sistema sanitario pubblico. Quanto a scuola e università, se è lecito scomodare il linguaggio virale per questioni che infettive non sono, esiste forse un migliore vaccino contro l’analfabetismo funzionale che è alla base dei molti comportamenti superficiali e irresponsabili di questi giorni? E possiamo proseguire: non sarà il caso di dedicarsi con analoga energia — possibilmente senza decretazione d’emergenza — al contrasto della crisi climatica, pericolo non di brevissimo termine ma altrettanto disastroso per la collettività?

Fin qui, pensieri che volano lontano. Ma nel frattempo l’homo academicus vive come chiunque altro la sua giornata da recluso. Telelavorando. E qui iniziano i contro.

Netflix e divano

Nonostante gli inviti a stare a casa a guardarsi Netflix, non siamo esentati dalle solite mansioni accademiche: lezioni, esami, testi, ricevimento studenti, studio, ricerca, scrittura, burocrazia. Riunioni via Skype.

Solo che le dobbiamo assolvere mentre, come tutti, siamo limitati da condizioni eccezionali. I figli a casa da scuola, per i quali lavoriamo come precettori privati e tecnici informatici: “papà, come si usa Skype? Come faccio a caricare i documenti su Google Drive?”. Il rallentamento di banali processi quotidiani: fare una fila di 45 minuti per entrare al supermercato — esperienza sociologica interessantissima, peraltro.

Tutto questo mentre il volume di lavoro si duplica, triplica, quadruplica: gli studenti, chiusi in casa come noi, sono incredibilmente produttivi in termini di e-mail, esercitazioni, tesine.

Lezioni, esami e lauree vengono svolte con modalità online: una grande fonte di eccitazione all’inizio — almeno per chi non la ho mai fatto prima — di cui presto si intuisce l’enorme fatica. Perché una didattica online ben fatta richiede un’accurata preparazione. Perché dobbiamo affidarci a strumenti di interazione freddi che rimpiazzano la compresenza. Perché dobbiamo sopperire ai mille problemi tecnologici di un paese dove la connessione Internet è penosa e tutti hanno lo smartphone, ma non tutti il computer.

La giornata è un fiume di 12 o 14 ore molto poco smart. Multitasking estremo tra esigenze domestiche, collegamenti telematici, email e allegati torrenziali, mentre il gatto passa davanti alla webcam di un collega o i fratelli piccoli di uno studente strillano in cucina.

Smartworker uguale fancazzista?

I colleghi all’estero ci scrivono preoccupate mail per sapere come stiamo. In pena per noi, senza aver ancora realizzato che l’intera Europa ci seguirà nel giro di un paio di settimane. Quindi, per il momento, pretendono da noi gli stessi ritmi di produzione: articoli co-autorati, bandi in scadenza, abstract da presentare. Solo da 3 o 4 giorni si intravvede la tendenza a cancellare tutti i convegni da qui a giugno.

Il mondo accademico e gli studenti esigono da noi le stesse performance di quando il virus non circolava.

Siamo privilegiati, certo. Non siamo sulla linea del fronte con medici e negozianti. Non subiamo il danno economico che sta preoccupando commercianti e liberi professionisti.

Ciò detto, siamo tutto fuorché a casa a fare nulla. Ci aiuta la flessibilità organizzativa che ciascuno di noi ha accumulato in molti anni di precariato. Ma se qualcuno pensa che la rivoluzione digitale consista in questa caotica riorganizzazione della vita davanti a uno schermo, forse non ha letto i libri che ci affatichiamo a scrivere.

Un appello

Queste righe mi servono da sfondo per rivolgere un accorato appello. Tanto ai miei colleghi quanto ai miei studenti.

Come studiosi, viviamo tempi eccezionalmente stimolanti per la nostra attitudine critica e riflessiva. Come esseri umani, viviamo tempi drammatici. Come lavoratori, viviamo giornate faticose. Faremo la nostra parte per simulare una parvenza di normalità e fare andare avanti le attività correnti.

Ma è necessario che tutti, da subito, contribuiamo a diminuire il volume di lavoro digitale che si è fatto impossibile da reggere. Telelavorare non è divano e Netflix. Fate un gesto di generosità verso il vostro prossimo digitale: una mail in meno, un allegato in meno, un WhatsApp in meno, una Skype call in meno.

E saremo tutti più concentrati su ciò che serve davvero per superare questi giorni fuori dal normale.

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Marco Pedroni
HomoAcademicus

Proudly a sociologist, whatever that means. I write about digital media, cultural industries, artificial intelligence, and academia