FILIPPO BRUNELLESCHI, GLI ARTIGIANI DIGITALI E LA FABBRICA DUTTILE

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4 min readAug 21, 2017

All’inizio del XV secolo l’Italia del centronord era, probabilmente, l’area più innovativa del pianeta; l’equivalente rinascimentale della Silicon Valley. Fulcro della regione era Firenze, con le sue banche, i suoi lanifici, i suoi tecnici ed artisti. Di recente un reporter statunitense, Eric Weiner, ha persino assurto la città sull’Arno a modello aureo per ogni polo d’innovazione tecnologica; in un articolo sulla blasonata Harvard Business Review scrive: «tutti coloro che sperano di lanciare il nuovo grande hub dell’innovazione mondiale farebbero meglio a guardare a un polo della genialità più antico e persino più significativo [della Silicon Valley]: la Firenze del Rinascimento. Questa città-stato italiana generò infatti un’esplosione di grande arte e idee brillanti che il mondo non ha mai più visto».

Ritratto di Leon Battista Alberti

La Firenze del XV secolo era la meta d’elezione per ogni genere di talento imprenditoriale, tecnoscientifico o artistico. Come Leon Battista Alberti, fiorentino di padre ma nato a Genova, e formatosi tra Padova, Venezia, Ferrara, Bologna e Roma, dove aveva potuto confrontarsi con le migliori intelligenze d’Italia. Era un talento multiforme e versatile, l’Alberti. Come scrisse Landino, «lui geometra. Lui arithmetico. Lui astrologo. Lui musico, et nella prospectiva meraviglioso più che huomo di molti secoli […] Né solamente scripse, ma di mano propria fece, et restano nella mani nostre commendatissime opere di pennello, di scalpello, di bulino, et di gecto da illui facte».

«Uomo universale» (per riprendere una felice definizione di Burckhardt), «pittore, architetto, poeta, erudito, filosofo e letterato» (questa è invece una citazione di Francesco de Sanctis), l’Alberti sapeva riconoscere l’altrui genio, quando lo vedeva, tant’è vero che volle dedicare il “Della pittura” a «Pippo architetto», ossia a Filippo Brunelleschi, che pose alla testa dei maggiori creativi del suo tempo: un gruppo di eletti che includeva anche Donatello, Lorenzo Ghiberti, della Robbia e Masaccio. E forse proprio Brunelleschi è la figura che meglio incarna un certo tipo di genio italiano, capace di tradurre la più stupefacente astrazione in terribile concretezza.

Presunto ritratto del Brunelleschi per opera del Masaccio

Ancor più del pur grandissimo Alberti, Brunelleschi appare come il nume tutelare di tutti gli “artigiani digitali” del XXI secolo, e di tutte le “fabbriche duttili” che costellano l’Italia (HSL inclusa). Non a caso persino uno storico severo come il francese Michelet ne tesse le lodi, definendolo un «calcolatore impietoso», che riesce a riconciliare arte e ragione, e a porre in essere «il matrimonio del bello e del vero». L’opera del Brunelleschi è la «prima pietra del Rinascimento», il pilastro di un edificio meraviglioso, che rende omaggio alla grande arte di Roma e della Grecia ma che è infuso di uno nuovo spirito matematico.

Guardiamo la famosa cupola di Santa Maria del Fiore, realizzata «senza armature di legni o di ferri, incredibile a dirsi» (Manetti). Oggi la cupola sbalordisce milioni di turisti in visita a Firenze, ma allora lasciò di stucco anche i più avveduti tra gli uomini di scienza, tanto da far guadagnare a Brunelleschi l’appellativo di «principe di tutti gli architetti del nostro tempo» (sempre Manetti), «re del mondo» (Benedetto Dei), «sommo in gieometria e perfetto maestro di scoltura», e provvisto di «grandissimo ingiegnio e fantasia» (Rucellai).

In effetti quella di Brunelleschi è un genio a tutto tondo, un innovatore duttilissimo capace di coniugare, per usare una terminologia contemporanea, l’arte e il design (era anche orafo e scultore; un’opera su tutte, il “Sacrificio di Isacco” ora esposto al Bargello), con la matematica e la geometria; una conoscenza superiore dei materiali e delle tecniche, con una capacità gestionale degna di nota (si pensi soltanto alle vicissitudini del cantiere della cupola: dalla carenza di fondi al rapporto non sempre facile con la committenza). Non a caso Giulio Carlo Argan, in un’intervista di pochi anni fa, osservava come «se Brunelleschi fosse vissuto nel nostro secolo, in Italia, sarebbe stato l’architetto di Olivetti».

Fu proprio grazie a queste qualità se Firenze riuscì a dotarsi di quello che è, tuttora, «il più grande edificio a mattoni del suo genere nel mondo», come ha ricordato poco tempo fa Paolo Dario, che non è un letterato ma il direttore dell’Istituto di Biorobotica della Scuola Superiore Sant’Anna. Una cupola che, allora come oggi, sembra sfidare le leggi della natura, e che è il miglior frutto di una razionalità capace di vivificare e rendere possibile ogni attività, ogni impresa. Ecco perché, a distanza di oltre cinque secoli, egli resta la nostra fonte di ispirazione, e il nostro inarrivabile modello.

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