(Graphic Credits: Hueval Design Department — Author: Gionatan Fiondella)

Pride Month. Ma “pride” di cosa?

Il rainbow-washing non lava i panni sporchi.

Published in
6 min readJun 19, 2020

--

È di nuovo quel periodo dell’anno. La scuola finisce, il traffico per arrivare in ufficio si dimezza, il weekend si va al mare e, soprattutto, possiamo fare i nostri loghi arcobaleno.

Oramai non è più un evento raro che le aziende manifestino vicinanza alla celebrazione del pride month e a tutta la comunità LGBTQIA+, con pubblicazioni, comunicazioni, campagne specifiche o addirittura cambiando i colori del proprio logo in quelli della bandiera arcobaleno.

Tuttavia, al contrario di quanto si pensi, i pride e l’arcobaleno non sono sempre stati argomenti pop.

Pride, ma di cosa?

Negli anni ’60 le irruzioni da parte delle forze dell’ordine nei luoghi di raduno della comunità omosessuale e transessuale americana erano costanti nel tempo e nella violenza. L’omosessualità era malvista, soprattutto se inserita in un contesto di più ampio disagio sociale. Tanto bastava per giustificare i soprusi verso quella comunità. Ma la notte del 28 giugno del 1969, durante una di queste irruzioni nello Stonewall Inn, locale di riferimento per la comunità gay e trans dell’epoca nei sobborghi di New York, qualcosa andò diversamente.

I poliziotti cercarono di arrestare una donna trans afroamericana con l’accusa di prostituzione, ma questa oppose resistenza e lanciò una bottiglia contro gli agenti urlando “I got my civil rights”. Quella donna era Marsha P. Johnson e il suo gesto diede la spinta necessaria al primissimo Gay Pride per le strade di Manhattan: ci furono giornate di manifestazioni e tantissim* fra lesbiche, gay, trans o semplicemente esclusi sfilarono lungo le strade di New York per chiedere la fine dei soprusi e il riconoscimento dei diritti che gli spettavano.

Da lì, il pride conobbe un successo internazionale. L’anno seguente le manifestazioni si tennero a Boston, Dallas, Milwaukee, ma anche oltreoceano a Londra, Parigi, Berlino Ovest e Stoccolma. A distanza di 50 anni ora possiamo dire che dopo quella notte il pride è diventato un evento mondiale, non solo per ricordare l’orgoglio gay, ma anche quello di tutte le minoranze di orientamento e genere che non si vedono riconosciuti uguali diritti.

Arcobaleni, arcobaleni ovunque.

Col tempo, il pride è entrato nel tessuto della società e trova l’appoggio non solo degli appartenenti alla comunità, che anno dopo anno sono sempre più visibili, ma anche del resto della società civile. Le manifestazioni si distinguono facilmente da altri movimenti sociali per la loro estetica libera ma fortemente influenzata dalla bandiera arcobaleno, il simbolo più facilmente riconoscibile del pride diventato anche un potente segno di lotta per i diritti civili, così forte che ormai non si può più usarlo escludendo questo significato.

Ed è in favore di tutto ciò che molte aziende a giugno si mostrano friendly modificando il loro logo con i colori dell’arcobaleno, unendosi a un’enorme onda arcobaleno che riempie i nostri media, e le nostre città, creando un’atmosfera nella quale sembra che i diritti civili siano un’esigenza di tutt* e non solo degli appartenenti alla comunità.

Il pride non lotta per usare l’arcobaleno ovunque, ma per una società realmente inclusiva per ogni persona, indipendentemente dall’orientamento, dal genere, dall’aspetto o dalla razza.

Mostrare la propria azienda tramite quei colori è un vero e proprio gesto di vicinanza intima nei confronti delle persone LGBTQIA+ e le rivendicazioni per le quali queste manifestano da più di 50 anni.

Se Marsha P. Johnson fosse viva oggi probabilmente sarebbe orgogliosa di ciò che ha fatto e la sua vita sarebbe radicalmente diversa. Sarebbe vissuta in una società inclusiva nella quale molte persone, ma anche grande aziende e multinazionali, manifestano apertamente al suo fianco sul campo di battaglia. Sarebbe stata una fiera donna trans afroamericana in carriera… oppure no?

Il Rainbow-washing, esattamente, cos’è che lava?

Molte delle azioni di brand che le aziende fanno durante il mese di giugno vengono spesso abbinate alla parola “love” mostrando vicinanza ad ogni forma di amore indipendentemente dal sesso. Questo messaggio è lo stesso con il quale, a livello mediatico mainstream, lo stesso pride molte volte è stato rappresentato, però, seppur importante, non è nel concetto di “amore” che si esauriscono le rivendicazioni.

La stessa parola pride, nella sua più semplice lettura è un concetto ben più ampio, che trasversalmente attraversa molte rivendicazioni civili e sociali e tra le quali la libertà di amare chi si vuole. Infatti questa parola nasce da una concitata notte in cui le lotte erano manifestazione di orgoglio che la comunità ha urlato dopo aver vissuto secoli di repressione.
Chiaramente questa sintesi e spostamento di concetti è uno dei processi con i quali questa ricorrenza diventa “pop” e di conseguenza facilmente assimilabile e rivendicabile da molte aziende che vogliono mostrare vicinanza, senza però doversi necessariamente esporre su molti altri temi più profondi e così alla lunga perderli del tutto.

Infatti, per la comunità LGBTQIA+, nonostante i tanti loghi arcobaleno, le discriminazioni sono ancora un grande ostacolo nel raggiungimento di una vera equità sociale e il problema diventa ancora più visibile durante la ricerca e sul posto di lavoro.

La facciata friendly di molte aziende il più delle volte rappresenta solo il modo con cui queste hanno deciso di reinventarsi col fine di aumentare i profitti e, di fatto, non rappresenta e non prova la loro vicinanza alla comunità.

La comunicazione di un’azienda è importantissima, la percezione che il target ha del brand è vitale. Tra i mille modi in cui un’azienda si posiziona c’è anche il livello politico e sociale, che si manifesta mostrando una certa vicinanza a temi sociali o ambientali.

Questo fenomeno prende il nome di brand activism. Negli ultimi anni è stato ampiamente dimostrato come le persone, oberate dalla pubblicità, inizino a comprare non solo per le caratteristiche estetico/funzionali del prodotto, ma anche per qualcosa di più emotivo, una sorta di ricerca etica, nella quale non solo ci si possa rispecchiare, ma nella quale ci si possa credere e sentirsi parte di una narrazione più ampia del mero acquisto.

Questo processo è molto forte e crea un legame intimo fra il brand e il consumatore. La solidità e la natura stessa di questo legame fa gola a moltissime aziende, che assolutamente consce della potenza di ciò decidono di raccontarsi così, anche se fanno poco o nulla per la tematica in questione o vanno persino contro la stessa. Questa distorsione prende il nome generico di woke-washing, e si declina in diverse sfaccettature in base alla tematica (rainbow-washing, pinkwashing, greenwashing).

È molto semplice cadere in questa trappola, sia attivamente che passivamente. Dall’esterno di un packaging è difficile valutare il livello di impegno reale di un’azienda per una data causa, e se la ricerca è di un legame emotivo/etico, allora dobbiamo sempre confrontarci con il rischio di legarci ad un guscio vuoto, o più precisamente ad un packaging arcobaleno.
Dall’interno anche se è facile fare il logo arcobaleno, è difficile assorbire a applicare tutto quello a cui quei colori fanno riferimento, specialmente perché per l’azienda vorrebbe dire un reale investimento.

Questa difficoltà porta molte aziende a non apprendere davvero il gesto della loro comunicazione e così facendo falliscono e creano danni, in primis nell’idea di marketing (che se smascherata potrebbe portare ad un enorme danno all’immagine e a una quasi totale perdita di credibilità). Ma il danno più grande è alla causa stessa.

Questa, attraverso malsani processi di marketing, si vede semplificata e banalizzata e così l’intera lotta viene depotenziata a livello assoluto. La pluralità di queste realtà non raccontano la lotta per quello che è, ma la snaturano e la distorcono, rendendo ancora più difficile il processo di collettivizzazione e di comprensione di tematiche complesse come quelle LGBTQIA+.

Essere ambientalisti non significa utilizzare il colore verde e le foglioline, ma quello di salvaguardare il nostro pianeta. Allo stesso modo, il pride non lotta per usare l’arcobaleno ovunque, ma per una società realmente inclusiva per ogni persona, indipendentemente dall’orientamento, dal genere, dall’aspetto o dalla razza.

Detta così sembra difficile

E infatti lo è, anzi è molto difficile. Prendere davvero parte a una causa e fare in modo che questa sia più di una semplice trovata di comunicazione prevede un impegno pervasivo che ha bisogno di costanza e dedizione, al fine di apprendere le tematiche e agire per cambiare in meglio. Per un’azienda questo significa tante cose, che toccano tutti gli aspetti della struttura, sia internamente che esternamente. Eppure, per assurdo, questo processo complesso trova una sintesi estremamente semplice, cioè limitarsi ad essere.

Se l’interesse per una data causa sociale permea realmente il “core” della nostra azienda, allora potremo dire che quel fattore per noi è identitario e in quanto tale muove i pensieri e le azioni da un livello più autentico e profondo. In tal caso non è più di aspetto o di narrazione che si parla ma di essenza ed etica ed è con questi cardini che si potrà effettivamente essere parte del cambiamento.

An English version of the article can be found at this link.

--

--