Il senso della politica
di Andrea Ranieri
“Quegli inglesi mi hanno aiutato a capire meglio quella che nel corso di una lunga vita mi è parsa una distinzione importante: che politica non è solo comando, è anche resistenza al comando, che politica non è, come in genere si pensa, solo governo della gente, politica è aiutare la gente a governarsi da sé”.
Vittorio Foa, dalla prefazione a “ La Gerusalemme rimandata, 1971.
“Capita di pensare che il secolo che viene sarà soprattutto uno scontro tra verticale e orizzontale”
Vittorio Foa, da “Passaggi”, 1991.
“Il Presidente che tutti vorrebbero”, l’ex guerrigliero tupamaro Pepe Mujica, che vive in 45 metri quadri alla periferia di Montevideo, che ha legalizzato la canabis e fatto sposare i gay, in estrema sintesi la dice così, che “chi governa non comanda niente” , chi comanda sono i grandi poteri finanziari, e che oggi “non è più il cane a muovere la coda, ma la coda a muovere il cane”. Il meno “verticale” dei capi di Stato, il più aperto alle istanze di rinnovamento sociale e culturale del suo Paese, confessa che comunque da quel vertice, quello dello stato nazione, quello che eleggono democraticamente i cittadini, non si riesce più a governare l’economia e la società del proprio Paese.
La coda che muove il cane sono i grandi poteri finanziari, lontani, sempre più impersonali, sottratti ad ogni controllo democratico, le cui dinamiche influenzano il vivere e lavorare delle persone in modo ben più stringente che le decisioni dei singoli stati. E’ difficile allora ritrovare un senso alla politica, per come l’abbiamo conosciuta e praticata nel secolo scorso.
Il vertice era allora lo Stato nazione, ancora in grado di variare il valore della sua moneta in funzione della competitività e della coesione sociale, di impostare politiche nazionali di welfare, di mitigare il crescere delle disuguaglianze che è un requisito essenziale della tenuta della democrazia. Già alla fine dellì’800, un giudice della Corte Suprema americana lo diceva così: “Si può avere la democrazia oppure un’enorme ricchezza concentrata nella mani di pochi, ma non si può avere le due cose insieme”. E ne “Il mito degli uguali, che è un ‘avvincente storia della democrazia e delle sue contraddizioni da Atene ai giorni nostri, John Dunn ci dice che funzione essenziale della democrazia nella economia di mercato è stata proprio quella di sperimentare, da parte di chi comanda, il grado di disuguaglianza compatibile con il consenso e la tenuta sociale e civile dei diversi paesi.
Sono proprio le leve che permettono questo sperimentare che vengono meno con la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia. E se la politica non pare più in grado dimettere in moto queste leve la politica perde di senso prima di tutto per i cittadini. I partiti, sottoposti ai vincoli della grande finanza, appaiono sempre più simili. La competizione, più che le grandi scelte di fondo, pare avere per posta le diverse modalità per rispondere a quei vincoli. Da competizione tra coalizioni fondate su interessi e valori diversi, diventa competizione sull’efficienza e l’efficacia per raggiungere risultati che appaiono neutri, oggettivi, non disponibili alla scelta politica. La politica entra in uno stato di necessità, e sulla base della necessità giustifica le sue scelte. Ma se i politici si presentano come attori che agiscono sulla base della necessità, non c’è da stupirsi che per gran parte dei cittadini la politica, compreso il voto alle elezioni, diventi un optional.
Nella crisi poi la necessità si presenta come un continuo stato di emergenza, sulla base del quale diventa pressante l’invito a mettere da parte gli interessi e i valori che dividono. Le ideologie, ma anche le diverse rappresentanze sociali degli interessi, rispetto agli obiettivi comuni- il risanamento del debito, le azioni per rimettere in moto la crescita- che vanno comunque raggiunti. E’ il tempo delle grandi coalizioni, dei leader carismatici- o meglio mediaticamente carismatici- in cui tutti i cittadini, indipendentemente dalle loro condizioni sociali e dai loro convincimenti ideali, sono invitati a riconoscersi. E’ il tempo in cui conflitto diventa una parola e una pratica da evitare. Con qualche inevitabile riflesso sulla democrazia e sulla stessa libertà delle persone se è vero, quello che diceva il Machiavelli dei “Discorsi sulla prima deca di Tito Livio”: “ Io dico he coloro che dannano i tumulti fra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma, e che considerino più a’ rumori e alle grida che di tali tumulti nascevano, che ‘a buoni effetti che quelli partorivano; e che non considerino come e’ sono in ogni repubblica due umori diversi, quello del popolo e quello dei grandi, e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà nascono dalla disunione loro”.
Sia chiaro, non scompaiono le differenze. Non è la stesa cosa pensare di rimettere in moto i consumi e ricercare consenso elettorale tagliando le tasse anche ai più ricchi o riducendo le tasse per i più poveri, ma non cambiano sostanzialmente i vincoli e gli obiettivi. Far ripartire la crescita e i consumi, risultare credibili per i grandi centri finanziari e per i grandi investitori internazionali. La politica si misura in questo spazio stretto, e non c’è da stupirsi che diventi sempre più rissosa. Le macchine del fango sono gli strumenti della guerra fra simili, e aumentano in maniera proporzionale al venir meno delle grandi discriminanti strategiche.
Ridare senso alla politica sarà allora prima di tutto uscire dallo stato di necessità. Prendendo coscienza prima di tutto di come alla finanziarizzazione dell’economia, alla santificazione del mercato, all’espropriazione dei cittadini del potere di decidere su quel che conta per la loro vita, alla subordinazione dei diritti fondamentali di cittadinanza-il lavoro, lo studio, la salute, il sapere- alle esigenze imperscrutabili del mercato, ci si sia arrivati attraverso precise scelte politiche, che hanno visto protagonisti , con diverso grado di responsabilità, le elites degli stati nazione. Dall’America di Reagan e di Bush- ma senza dimenticare che le misure di abolizione dei residui vincoli e controlli sui mercati finanziari furono assunte da Bill Clinton e dai democratici-, all’Inghilterra di Margaret Thatcher- ma senza passare sotto silenzio che le scelte decisive per spostare il comando dell’economia dalla produzione alla Finanza furono fatte da Tony Blair. Come dagli altri Stati, a partire dal grosso degli stati europei, impegnati più a trovare vantaggi posizionali nella situazione data, che a cercare davvero di difendere le istituzioni democratiche e il loro potere di controllo e di decisione, a livello nazionale e sovranazionale.
La convinzione che la finanziarizzazione dell’economia avrebbe potuto far proseguire la crescita che dell’economia che si era arrestata fu l’idea forza che fece accettare questa gigantesca espropriazione del potere degli Stati e dei cittadini. Eravamo alla fine dell’”età dell’oro”, quella che va dal dopo guerra agli inizi degli anni ’70, quella in cui l’aumento della produzione aveva portato con sé anche un aumento dell’occupazione , dei redditi e dei consumi. L’aumento del prezzo del petrolio e delle materie prime restringeva i margini di profitto, e la stessa possibilità di redistribuirne una parte ai lavoratori L’automazione industriale riduceva l’occupazione necessaria a produrre i beni di consumo e di investimento. Le nuove tecnologie della informazione e della comunicazione, e la containerizzazione della logistica, rendevano possibile tenere insieme cicli produttivi che avevano le loro factory sparse in ogni parte del mondo, in ogni parte del mondo alla ricerca dei luoghi in cui il lavoro costava meno, ed era più bassa la soglia dei diritti sociali. Si riduceva la platea dei consumatori solvibili. Ci si trovava di fronte, per lo meno nei punti alti dello sviluppo capitalistico, ad una sempre più evidente crisi di sovra produzione. Ed è allora che la ricerca del profitto si sgancia da ogni responsabilità nei confronti dei lavoratori, del territorio e della nazione. L’unica responsabilità è nei confronti dei detentori dei grandi pacchetti azionari.
Una transizione che ben ci racconta, con un certo anticipo sulle stesse analisi economiche, “Pretty woman”, il film più cult degli inizi degli anni ’90.Richard Gere e il suo socio hanno imparato che i soldi si fanno con i soldi, e che la produzione, la città, i lavoratori sono puri accidenti nel ciclo di valorizzazione del capitale. Comprano fabbriche per spacchettarle, e trasformare la produzione materiale in denaro da valorizzare in quel circuito della grande finanza in cui in pochi secondi si scambiano valori pari al PIL di tutti i paesi del mondo. Ad una concezione così astratta della valorizzazione del capitale corrisponde una concezione altrettanto astratta dell’amore. Infatti Richard va a puttane. Poi sulla realtà prevalgono le regole holliwoodiane. Richard Gere è troppo bello per essere così carogna, e Julia Roberts è troppo glamour per finire puttana. E all’amore che ridiventa concreto rapporto tra persone corrisponde il rinsavimento dello speculatore, che restituisce la fabbrica al vecchio padrone per bene, ancora convinto che per fare i soldi bisognava far lavorare gli operai e produrre cose. Un lieto fine che l’America e il modo avevano ancora voglia di sentirsi raccontare. Le cose, come è noto, non sono andate così. Le Detroti delle fabbriche sono diventate città fantasma. La produzione di massa si sposta in Paesi senza welfare e senza sindacati. Dove può capitare che centinaia di operaie prendano fuoco dentro capannoni fatiscenti. Sono i Richard Gere non redenti dall’amore che fanno girare i soldi per il mondo e continuano a andare a puttane. Gli stati nazione competono per intercettare una quota del flusso. Facendo a gara a chi fa pagare meno tasse, a chi riduce i diritti, a chi abbassa le soglie del proprio welfare.
Ma bisognava trovare un modo per convincere anche i cittadini dell’Occidente che quel flusso di ricchezza sarebbe stato un bene anche per loro, che la crescita della ricchezza avrebbe consentito di mantenere il proprio stile di vita, quell “american way of life” ormai diffuso per il mondo, per difendere il quale gli Stati Uniti, e non solo loro, sono legittimati a fare anche le guerre. Nasce a livello di massa la cultura del debito. Che non è un problema solo degli stati. Ma è il portato presso che inevitabile dei lunghi anni in cui si sono invitati i lavoratori a guadagnare di meno e a consumare di più. In cui al posto delle fabbriche sorgevano i super mercati. In cui l’identità delle persone si spostava sempre più dal lavoro al consumo.
La crisi finanziaria dei sub prime, dei mutui stracciati per comprare case anche chi non aveva i soldi per comprarle, e delle carte di credito apparentemente senza fondo, e dei mutui mai rimborsabili per andare all’Università, nasce proprio da qui. Perché la valorizzazione del capitale ha bisogno che anche chi vede ridotto il proprio reddito, anche chi perde il lavoro, continui a consumare. Finito il sogno di un miglioramento collettivo delle proprie condizioni di lavoro e di vita, finita l’era che aveva visto crescere la classe media, si invitano i poveri a sognare i sogni dei ricchi. Ma “dove la produzione societaria dipende da un’impostazione di squadra… essere consumatore è un’impresa da solista”, ci averte Foster Wallace ad un certo punto de “Il re pallido”. Quando ragioniamo sulla nostra età come età degli individui, bisognerebbe non scordarsi mai che l’individuo di cui parliamo è l’esito di una serie di scelte e di mutamenti politici, economici e sociali.
Nel costruire il nuovo individualismo massificato la televisione e i media svolgono un ruolo essenziale. E’ la TV che consente a Joe Valigetta –l’americano medio di uno splendido saggio sulla televisione di Foster Wallace del 1990- “ di sentirsi parte della più grande massa di tutti i tempi intenta a guardare immagini che suggeriscono che il senso della vita consiste nel distinguersi visibilmente dalla massa”. “Che riesce a coinvolgerti senza richiedere nulla”. Che costruisce il mondo del ”volere e avere, anziché del pensare e fare”. E in quel saggio ci mette anche in guardia dall’idea, allora agli albori, che sarà la tecnologia a riparare i guasti che essa stessa ha provocato. Il moltiplicarsi delle connessioni possibili, il diffondersi dell’interattività, il personalizzarsi dei percorsi di accesso ai media, non faranno che aumentare l’illusione di vivere esperienze in un mondo in cui le esperienze reali- quelle del pensare e del fare- si impoverivano.
La politica deciderà di parlare sopra tutto a Joe Valigetta. Sempre meno differenziata per interessi e per valori parlerà sempre più all’uomo medio consumatore e teledipendente. “Il polso della situazione”, le tendenze della opinione pubblica, quelle che una volta misuravano i militanti nei luoghi di lavoro e nei quartieri sarà sempre di più affidato ai sondaggi. Il messaggio si semplificherà per assomigliare sempre di più agli spot televisivi. Il successo di una iniziativa sarà sempre più misurato da quanto buca sui media che dalla partecipazione delle persone in carne ed ossa e dalla qualità della interazione. Quelli della mia età hanno vissuto il passaggio dal tempo in cui si facevano i i manifesti e i comunicati per invitare le persone e discutere con loro, a quello in cui si radunano le persone per poter avere un qualche spazio sui media.
La mediatizzazione fa si che anche per la politica perda centralità il capitale umano- i militanti che partecipano, elaborano, diffondono le idee e le proposte- e ne acquisti il capitale finanziario, quello necessario a diffondere le idee attraverso i media. E la personalizzazione sempre più spinta. Si vendono i candidati più che i progetti, e i candidati sono invitati a cercarsi in proprio le risorse, e a costruirsi le cordate elettorali che dovranno poi trovare una qualche ricompensa. In questi due processi sta in gran parte la base strutturale del crescere dei costi della politica e dello stesso aumento della corruzione.
E dei format televisivi- quelli che vivono parlando e ironizzando su se stessi-i politici adottano anche l’autoreferenzialità. “L’autonomia del politico”- grande tema della cultura politica dell’Occidente, da Machiavelli in poi- si trasforma nella rete di messaggi e di segnali che dagli schermi e dai giornali i politici si inviano tra di loro, senza più rapporto col mondo reale. Ma siccome il sogno che ci propongono è essenzialmente il sogno del proprio futuro e della propria carriera, non c’è da stupirsi che per continuare a sognare se stesso Joe Valigetta cambi canale.
Ma nemmeno la spettacolarizzazione riesce ad evitare che la politica perda senso e consenso per un numero crescente di cittadini.
Il populismo di Governo- il leader forte che promette nuova crescita in virtù della sua capacità di decidere fuori dai vincoli della vecchia politica- e di opposizione- mandiamo a casa la casta e la economia e la vita riprenderanno il proprio sviluppo virtuoso-sono l’ultima frontiera su cui si attesta la politica verticale per sopravvivere. Una scorciatoia menzognera, ma che risponde alla esigenza dell’uomo medio di continuare a mentire a se stesso, di farsi coinvolgere senza responsabilizzarsi, di credere che tutto-il suo stile di vita, i suoi consumi- se cambia il vertice, potrà procedere come prima.
Ma la politica, la buona politica, riemerge dentro quel tessuto sociale che la politica verticale aveva dato per morto. Ricordate la Thatcher? “La società non esiste. Ci sono solo individui e famiglie”. E’ stato il mantra che ha di fatto dominato la politica nel declinare del vecchio secolo e al principio del nuovo. E che ha di fatto guidato la nuova fase della competizione politica verticale. Ma non della politica tout court.
Perché l’individuo della Thtacher e dell’economia neoclassica, quello dominato dall’interesse e dall’utile, i cui comportamenti sono calcolabili, e comunque orientabili attraverso la cultura del consumismo, si rivela essere esso stesso una costruzione ideologica. Gli uomini e le donne anche in questo nuovo millennio, sono capaci di gratuità, di generosità e di altruismo. Provano a risolvere problemi unendo le proprie forze, continuano cioè a fare politica e a fare società anche quando la politica e l’economia verticale dalla società si sono allontanate. Del resto, ce lo ha insegnato un economista non ortodosso come Karl Polanyi, senza questa ricchezza umana nemmeno la più astratta delle economie e la più prescrittiva delle burocrazie potrebbero funzionare.
Questa umanità si sente oggi a rischio. Sente a rischio la possibilità per ciascuno di costruire un progetto di vita degna. Risolve la contraddizione di Joe Valigetta-sentirsi individuo diverso facendo quello che fanno tuti gli altri- provando a dare un senso alla propria vita, che non sia quello imposto dai media e dal consumismo. E fa i conti con il “vero Stato di emergenza”, come lo chiamava Walter Benjiamin-quello che preclude questa possibilità a se stesso e alle generazioni a venire. I movimenti del nuovo secolo sono l’espressione politica di questa umanità che si sente in pericolo e di questo stato di emergenza.
Le emergenze sono quelle vere. Quelle che la politica verticale evoca ogni tanto per metterle rapidamente da parte. L’emergenza ambientale, per la crescente insostenibilità delle condizioni di vita nel Pianeta, e la messa a rischio del patrimonio culturale e della vivibilità delle città e dei territori, per effetto della crescita di questi anni, quella che la politica verticale si impegna a far ripartire. L’emergenza lavoro perché la crisi, dopo una crescita che ha risparmiato lavoro e lo ha precarizzato, rendono sempre più difficile progettare il proprio futuro e trovare nel lavoro un fondamento della propria identità. La emergenza democratica, perché se non si costruiscono nuovi ambiti di discussione e di deliberazione, di partecipazione e di protagonismo, di educazione alla cittadinanza e alla democrazia, lo svuotamento progressivo della democrazia rappresentativa rischia di generare esiti autoritari. L’emergenza culturale, perché il sistema mercatistico che non riesce più a trovare ambiti di valorizzazione, tende sempre di più a colonizzare la cultura e la vita, provando a piegare la cultura intera a logiche di valorizzazione economica a breve termine, comprimendo sempre di più gli spazi e i tempi della ricerca scientifica, umanistica, artistica. L’economia della conoscenza, che pure del sapere si è alimentata e si alimenta, tende a segare il ramo su cui si è seduta. Su queste emergenze nasce ogni giorno movimento ed azione politica orizzontale, a volte totalmente al di fuori delle istituzioni politiche e sociali consolidate, a volte attraversandole e cercando di utilizzarle in funzione dei propri obiettivi.
Il loro tempo è il tempo-ora, la loro utopia è utopia del presente. Fuori da ogni finalismo e da ogni giustificazionismo storicistico, pensano il presente, come il passato, come il futuro, come un campo aperto di possibilità. Niente di quel che successo era necessario che accadesse, così come il futuro non è lo svolgimento più o meno lineare di quello che è e di quello che è stato. è stato. Qui ed ora si gioca il riscatto del passato e la speranza di un futuro diverso. E gli obiettivi che ci si danno, le modalità di partecipazione che si mettono in atto, hanno valore se cambiano la propria vita, se ti fanno vivere meglio la quotidianità del presente.
Partecipare vuol dire mettere in gioco anche il proprio stile di vita. Ci si valuta ed si è valutati per i propri comportamenti concreti. Scongiurare il disastro ecologico richiede grandi scelte a livello addirittura planetario per cui ci si mobilita, ma anche un vivere quotidiano più sobrio, la pulizia della propria citta e del proprio quartiere, la diminuzione dell’impatto energetico della propria casa. E i diritti non si chiedono solo allo Stato, ma si esercitano responsabilmente. Di fronte al venir meno delle garanzie dello Stato i nuovi lavoratori autonomi impoveriti riscoprono forme antiche e modernissime di mutuo sostegno e di solidarietà.
Sono ancorati al locale e alla concretezza del vivere, lì dove il potere impersonale e lontano concretamente si esercita- ma imparano presto la necessità di uno sguardo più lungo. Che ogni loro problema locale ha corrispondenti importanti in ogni parte del mondo. Con cui si incontrano e imparano a mettere insieme indignazione e speranza. Con una capacità di analisi e di comprensione del mondo reale infinitamente più grande di quelle della politica dei “vertici”. Chi provasse oggi a confrontare i documenti che uscirono dai forum che si tennero a Genova nel 2001 in occasione del G8- in quello che fu il più grande incontro di movimenti sociali di tutto il mondo, stroncato dalla brutalità della polizia e messo in crisi dalle ambizioni partitistiche di qualche suo leader-con quelli partoriti in quell’occasione dal summit dei “grandi della terra” troverebbe nei primi la indicazione puntuale dei temi che saranno al centro del dibattito pubblico fino ai nostri giorni- il riscaldamento climatico, la necessità di mettere sotto controllo le transazioni finanziarie, il contrasto alle disuguaglianze crescenti-, nei secondi la retorica fasulla e inconcludente di chi assume i vincoli dell’economia e del potere come prioritari rispetto alla soluzione dei problemi. E che infatti sulle grandi emergenze- il clima, la fame nel mondo, i diritti umani violati- produce poco più che parole.
I tempi di crescita e di decrescita dei movimenti sono molto diversi da quelli dei partiti della politica verticale. Le “associazioni spettacolari”, cosi chiama Pino Ferraris in un saggio dal titolo molto significativo, “La sinistra. O è sociale o non è”, quelle che mobilitano l’opinione pubblica su temi scottanti come il razzismo e la pace”, sono accompagnate, precedute, incubate dalle “associazioni molecolari” che si dedicano silenziosamente “alle buone pratiche civiche e solidali”
Il carattere carsico dei movimenti è in realtà tale si si considerano solo i momenti spettacolari. .Ma è la continuità delle buone pratiche che spiega come a distanza di anni un tema come quello dell’acqua e dei beni comuni spettacolarmente riemerga a più di un decennio di Genova 2001 e porti a votare al referendum sull’acqua pubblica più persone di quante andranno a votare per la sinistra e per Grillo messi insieme alle elezioni del 2013.
E queste nuove soggettività sono capaci di usare e reinterpretare i media e l’interattività in modo molto diverso da quella di poter scegliere la gabbia in cui isolarsi di cui ci aveva parlato Foster Wallace. Se circolano sogni non sono più i sogni ipnotici di Joe Valigetta o di qualche suo epigono più interattivo, ma quei “sogni ad occhi aperti” che per Ernst Bloch erano la premessa soggettiva de “Il principio speranza”, quelli che non rinchiudono in se stessi ma aprono relazioni e ci propongono ogni giorno un altro mondo possibile. E si mettono in comune nella rete idee ed esperienze, ma senza dimenticare mai che l’incontro più vero è quello che mette a confronto i corpi e le facce.. I grandi movimenti di massa degli ultimi anni avranno tutti come centro reale e simbolico Internet e una piazza. Piazza Tahir, Zuccotti Park, e tante altre per il mondo ,come ci racconta Manuel Castells nel suo “Reti di indignazione e di speranza”.
La ricerca di una vita degna tiene insieme frammenti che la politica “verticale” e centrale non ha mai saputo tenere insieme. Gli operai delle vecchie e della nuove fabbriche, i precari, le femministe, i gay e i transgender. Chi è stato a Genova ai funerali di Don Andrea Gallo li ha visti tutti assieme, a rendere omaggio a questo vecchio prete che aveva saputo trovare le parole e i simboli per unire i diversi.
E nella reti, fisiche e virtuali, si scambiano e si mescolano conoscenze. Perché di sapere e di competenze ha bisogno il nuovo mondo possibile. Ma nel movimento entra in crisi la verticalità dei saperi e la separatezza delle discipline. Dopo la ubriacatura da “esperti” rispuntano gli intellettuali, i “dilettanti” di tutti i saperi, come li definisce e definisce se stesso Edward Said, che decostruiscono gerarchie e costruiscono connessioni. Se il mondo della necessità e della verticalità aveva messo sul trono gli economisti e i tecnocrati, il mondo della possibilità ha bisogno anche di tanti filosofi, narratori di storie, musicisti, poeti. E di economisti che non mettono le astrazioni matematiche al di sopra della vita degli uomini- come ammoniva un grande economista come Federico Caffè, e di scienziati e tecnologi in ogni momento consapevoli delle ricadute sociali e civili delle loro ricerche e delle loro azioni. Di coltivare insieme la ragione e la capacità di emozionarsi e sorprendersi.
Se questa è la situazione quale futuro è possibile in Italia e nel mondo per la sinistra e per i partiti che ad essa si richiamano? Domanda difficile, a cui alcuni- molti di questi tempi- sia fra la sinistra di governo che fra i suoi critici più radicali, tendono a rispondere che questa distinzione non ha più senso, che conta quello che si fa, e i concreti progetti che si mettono in piedi. Ed è vero, se la storia della sinistra la si identifica con quella parte- quella vincente- che fece dello Stato e del potere statuale la posta fondamentale della propria battaglia, sia nella sua versione leninista che in quella socialdemocratica.
Per ridarsi un senso la sinistra dovrebbe ripensare la sua stessa storia come storia delle possibilità, ritrovando nelle possibilità mancate, quelle messe da parte dallo statalismo vincente, idee e storie che possono parlare al proprio presente e al proprio futuro.
E riconnettersi magari al pensiero sconfitto di quanti pensavano in termini democratici e diffusi la stessa lotta rivoluzionaria. Eduard Dolleans , storico del movimento operaio e membro del governo di Fronte popolare nel 1936, così sintetizzava il conflitto che ha caratterizzato l’intera storia del movimento del lavoratori:” Da una parte la gestione della società delegata alle macchine politiche, alle tecnocrazie e allo Stato. Dall’altra il mutamento sociale che cerca le sue risorse principali e prioritarie nell’incremento delle capacità morali e intellettuali dei cittadini, e nell’iniziativa costruttiva e realizzatrice delle libere associazioni”. La rivoluzione delle capacità, che proponeva, tanti anni prima di Amrtja Sen e Martha Nussbaum , un’idea di riscatto dalla miseria e dall’oppressione in contrasto sia con l’onnipotenza del mercato che con quella dello Stato, e che concepiva la democrazia, oltre il puro e semplice esercizio della delega, come tensione alla democratizzazione complessiva degli spazi del lavoro e della vita. Una storia parallela e spesso non comunicante con quella dell’avanguardia politica, sia di stampo rivoluzionario che riformista. Allora, tra l’800 e il 900, queste tendenze furono liquidate come individualiste e piccolo borghesi, il socialismo degli artigiani e dei bottegai, difficilmente in grado di contrastare il crescere della grande fabbrica fordista e l’affermarsi degli Stati nazione. Ma oggi, quando sembra sempre più difficile leggere il mondo a partire dalla coppia “big State, big industry”, ripensare alla rivoluzione delle capacità, e alla istituzioni sociali e civile che seppe generare, può essere un terreno essenziale per ricollegare la sinistra ai movimento sociali.
I partiti politici di sinistra se rinasceranno dovranno pensarsi come nodi di una rete piuttosto che come vertici di una piramide. Rovesciare la logica che fino ad ora ha visto i movimenti sociali, compreso il sindacato, come la piattaforma da utilizzare per quello che conta davvero, la conquista delle leve di governo dello Stato Nazione. Al contrario le leve di governo nazionali e locali dovranno dimostrare di essere strumento per la crescita di quella rete più grande, che ha posto in questi anni difficili al centro della propria azione le vere emergenze del nostro presente e del nostro futuro.
Se sapranno rendersi conto dei propri limiti, e accoglieranno questi limiti non come una sciagura, ma come una straordinaria opportunità. Se sapranno accettare che la politica non è più cosa solo loro, che la buona politica nasce, cresce, si inventa, soprattutto in luoghi diversi dalle loro sedi. Nei luoghi dove vivono e lavorano persone che hanno fatto i conti con la globalizzazione a partire da se stessi, dai problemi della loro scuola, della loro impresa, del loro territorio. E che hanno cercato da li una strada per tenere insieme globale e locale, i grandi problemi del mondo e la loro vita di ogni giorno.
Alain Touraine intitola il suo ultimo libro “La fine della società”. Una società svuotata dalla capacità di aggregarsi e influire sulle scelte che contano sia dalla globalizzazione finanziarizzata, che da quell’individualismo senza limiti, dalla ricerca frenetica di godimento nel presente, senza prospettiva, senza progetto, senza desiderio.
Ma senza società la sinistra non vince. E non sono i partiti i soggetti che possono rifondare il sociale. Al massimo possono provare a rifondare se stessi. La società stanno provando a rifondarla quelle “associazioni molecolari” di cui ci parlava Pino Ferraris.
Mettendo i partiti della sinistra di fronte a un compito arduo ma non eludibile. Come aiutare a crescere, a svilupparsi, con la propria azione politica e amministrativa, un movimento che non governeranno mai, ma da cui dipende, in ultima istanza, la loro stessa possibilità di ridare un senso alle loro ambizioni di governo.