Nuove politiche industriali

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14 min readJan 21, 2015

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di Ciccio Ferrara — Deputato Sel

Dal dopoguerra fino alla fine degli anni ottanta l’Italia ha avuto una politica industriale che le ha consentito di diventare il secondo paese manifatturiero in Europa e di far parte delle prime sette potenze economiche mondiali. In realtà le origini della crescita industriale italiana le possiamo collocare già nei primi anni trenta, con la nascita dell’IMI e dell’IRI, come risposta alla crisi mondiale del ’29 per evitare il fallimento delle principali banche italiane e dell’economia. Proprio in quegli anni comincia la grande stagione di Adriano Olivetti alla guida dell’azienda fondata dal padre, che raggiungerà negli anni sessanta la sua massima espansione e che rivoluzionerà il concetto stesso di fabbrica e di prodotto così come conosciuto fino ad allora. Adriano Olivetti affiancava a una gestione aziendale innovativa anche una cultura del prodotto che andava ben oltre la semplice estetica. Riuscì a creare un’esperienza di fabbrica nuova ed unica al mondo, credeva che fosse possibile creare un equilibrio tra solidarietà sociale e profitto, tanto che l’organizzazione del lavoro comprendeva un’idea di felicità collettiva che generava efficienza. Gli operai vivevano in condizioni migliori rispetto alle altre grandi fabbriche italiane: ricevevano salari più alti, vi erano asili e abitazioni vicino alla fabbrica che rispettavano la bellezza dell’ambiente. Nel 1953, ad esempio, decise di aprire una fabbrica di macchine calcolatrici a Pozzuoli offrendo posti di lavoro con salari sopra le medie e assistenza alle famiglie degli operai la cui produttività in questo stabilimento superò quella dei colleghi nella fabbrica di Ivrea. Adriano Olivetti credeva nell’idea di comunità, unica via da seguire per superare la divisione tra produzione e cultura. La prima calcolatrice scrivente in grado di realizzare le quattro operazioni prodotto al mondo era una Olivetti, così come lo era uno dei primi computer centralizzati interamente a transistor o il primo personal computer.

Accanto all’esperienza della Olivetti, grazie al finanziamento per le imprese industriali e l’acquisizione delle azioni di grandi industrie in difficoltà che erano possedute da banche italiane o da privati si è creata una tale sinergia tra pubblico e privato che ha consentito l’avvio di un vero processo di industrializzazione del Paese, anche attraverso il consolidamento in mano pubblica di aziende come Ansaldo, Ilva, Cantieri Riuniti dell’Adriatico, SIP, SME, Acciaierie di Terni, Edison. Tutte realtà che hanno fatto la storia dell’industria italiana. Così come l’Eni di Enrico Mattei che ha portato il gas in tutto il paese così come fu fatto con l’elettrificazione. La giusta intuizione fu quella che le industrie sarebbero fiorite una volta completata la rete elettrica e i collegamenti con i grandi fornitori gas.

Tutto ciò fu possibile proprio perché lo Stato aveva ben chiare quali fossero le linee di politica industriale da seguire e negli anni cinquanta e sessanta, quando c’era da ricostruire un Paese che veniva fuori dalle macerie della seconda guerra mondiale, lo Stato e l’impresa seppero modernizzare e rilanciare l’industria e l’intera economia italiana. Insomma, in quella fase vi era un disegno, una progettualità di lungo respiro, degli obiettivi precisi da raggiungere e lo Stato faceva da programmatore, regolatore e mediatore tra gli interessi pubblici e quelli privati per il bene della collettività.

Agli inizi degli anni novanta invece le politiche neoliberiste prendono il sopravvento e si accredita l’idea che il mercato e la finanza debbano e possano regolamentarsi da soli, senza alcuna intromissione da parte dello Stato. La globalizzazione dell’economia ha cambiato lo scenario economico mondiale e ha preso il sopravvento rispetto all’economia reale. Le produzioni si spostano verso quei paesi dove il costo del lavoro e quello delle materie prime è più basso. Hanno inizio in modo massiccio i processi di delocalizzazione e contestualmente cominciano gli attacchi al mondo del lavoro e dei diritti di chi lavora, dei pensionati, dei giovani resi precari nella formazione, nel lavoro e nella vita. I Paesi europei reagiscono in maniera differente, in Inghilterra con le politiche ultraliberiste della Thatcher, in Germania, una solida politica di tipo socialdemocratico ha permesso la salvaguardia del patrimonio economico e industriale pubblico e delle grandi aziende private tedesche che alla lunga ha premiato, visto che oggi è il paese più ricco e avanzato d’Europa.

In Italia, in quegli anni, lo Stato dismette i panni di soggetto programmatore e regolatore e avvia i primi processi di privatizzazione e dismissione delle aziende pubbliche. Telecom, Poste Italiane, Enav, ferrovie, Alitalia, Eni, Snam, Finmeccanica, Ansaldo, Ilva, hanno subìto o sono ancora oggi soggette a processi di privatizzazione. Da quel momento in Italia non si fanno più politiche industriali ma ci si limita a gestire le emergenze e lo Stato fa soltanto grande ammortizzatore sociale per i lavoratori e le lavoratrici delle aziende in crisi, che chiudono o si ristrutturano.

Quindi ai problemi strutturali di un Paese che smette di individuare i propri asset strategici e di elaborare un’efficace programmazione economica e industriale si aggiungono gli effetti della crisi economica mondiale esplosa nel 2008, il peso del deficit e del debito pubblico e le politiche di austerità sempre più soffocanti che l’Europa impone. Questo combinato disposto ha prodotto la situazione che conosciamo: disoccupazione record, arretramento sul piano dei diritti sociali, desertificazione industriale, precarietà giovanile. Per questo occorre recuperare quello spirito originario che ha permesso all’Italia di crescere e svilupparsi, diventando una grande potenza industriale nel panorama mondiale. Per questo chi governa oggi il Paese deve porsi il tema della costruzione di un progetto economico e industriale di lungo respiro, di individuazione degli asset strategici, di ricostruzione delle filiere produttive, deve fare in modo che il pubblico, attraverso un massiccio intervento economico, crei una nuova sinergia tra l’impresa pubblica e quelle privata, tra le aziende e il mondo del lavoro e quello del credito, tornando ad essere appunto quel soggetto programmatore e regolatore che era un tempo. Non si tratta di statalizzazione ma di far in modo che l’economia reale torni a prevalere su quella finanziaria e di mercato. E la vera scommessa del presente e del futuro è quella che ci suggerisce anche Naomi Klein nel suo ultimo saggio: tenere insieme le questioni ambientali con quelle economiche perché sono lo stesso problema e insieme vanno affrontate. Per questo una nuova politica industriale non può prescindere da un’idea di riconversione ecologica dell’industria e dell’economia e di un piano per il risanamento la messa in sicurezza del territorio dal dissesto idrogeologico.

La crisi economica che stiamo vivendo da sette anni quindi è il frutto sia delle politiche neoliberiste adottate negli anni ante crisi che di alcuni paradigmi sbagliati che ne hanno determinato l’esplosione.

Il primo di questi paradigmi è stato senz’altro affermare che a minori diritti dei lavoratori, a turni di lavoro più lunghi e meno pagati, corrispondesse una maggiore resa produttiva degli stabilimenti, maggiore occupazione e di conseguenza più vantaggi finali per tutta l’economia e quindi per il Paese intero, lavoratori inclusi. Salvo poi scoprire, dati alla mano, che niente di tutto ciò si è verificato.

Il secondo paradigma è quello secondo cui lo Stato deve intervenire il meno possibile in economia, rinunciando a ogni funzione di progettazione a favore della capacità del mercato di autoregolarsi al meglio. Anche questo principio è stato smentito dalla storia, visto che, una volta scoppiata la crisi, lo Stato è dovuto intervenire con investimenti senza precedenti per salvare il sistema bancario e finanziario e impedire il tracollo anche dell’economia reale. E nonostante ciò esistono molte criticità nel nostro sistema bancario, per cui il tema della sua tutela è ancora all’ordine del giorno. Basti pensare che nei confronti di MPS ci sarebbe l’interesse ad acquistare sia da parte di una cordata di Fondazioni bancarie che di investitori esteri. L’Italia non può permettersi di perdere la terza banca nazionale, per questo è indispensabile metterla in sicurezza attraverso l’ingresso del pubblico (diretto o indiretto) nel capitale e contestualmente fare pulizia al suo interno, individuando i responsabili della cattiva gestione e del malaffare. Il Gruppo Veneto Banca ha palesato delle criticità circa l’operatività, con riflessi negativi sulle politiche commerciali e gestionali dell’istituto. Dal Gruppo Banca Carige sono emerse criticità concernenti la posizione debitoria nei confronti di Mediobanca e le incerte prospettive del programmato aumento di capitale. Banca Etruria è a rischio di commissariamento.

Il sistema favorisce sempre di più l’ingresso di nuovi soci stranieri nel capitale di intermediari finanziari nazionali ritenuti appetibili. Inoltre i non ancora ottimali livelli di patrimonializzazione degli istituti italiani, potrebbero frenare ulteriormente nel medio/lungo periodo l’offerta di credito a favore del sistema produttivo nazionale. Infine, secondo UBS, Banca Carige, Banco Popolare e Veneto Banca sono esposti a rischio di default.

L’Italia poi, nello specifico, si è trovata con dei governi del tutto inadeguati ad affrontare tale crisi. Ricordiamo il governo Berlusconi che avendo per anni negato perfino l’esistenza della crisi che investiva il mondo e l’Europa, ha impedito al secondo Paese manifatturiero d’Europa di mettersi in condizioni di reagire rapidamente. A questo va aggiunto che l’economia italiana è arrivata alla crisi in condizioni peggiori di quelle degli altri Paesi europei, in termini di debito pubblico e crescita. Poi è arrivato il governo dei professori e dei tecnici che non è stato capace di impostare una politica industriale seria e lungimirante. Anzi, quel governo, in continuità con il precedente, ha collaborato in maniera attiva alla cessione dei principali asset strategici dell’Italia, basti pensare ad Ansaldo Energia e all’intenzione di cedere l’intero settore civile di Finmeccanica con Ansaldo Breda e Ansaldo Sts in primis. E anche il governo Renzi percorre la stessa strada, quello della privatizzazione delle partecipate, facendo finta, pur di fare cassa, di non vedere che in Italia disponiamo di tutte le risorse necessarie per il loro rilancio.

Ci sono più di 150 tavoli di crisi aperti al Ministero dello Sviluppo Economico e l’Italia rischia di perdere intere filiere produttive: dalla siderurgia all’alluminio, dal tessile alla ceramica, dall’automotive alla cantieristica navale, alle telecomunicazioni, l’Italia rischia una vera e propria desertificazione industriale. Davanti a tutto questo il governo non è in grado di incidere e di immaginare un intervento programmatico che sia slegato dalla gestione ordinaria delle emergenze e quelle poche volte che si arriva ad una soluzione alternativa alla chiusura ci troviamo di fronte a condizioni peggiorative per i lavoratori o alla svendita del nostro patrimonio ai concorrenti stranieri. Gli interessi economici, scientifici e industriali nel Paese vanno quindi tutelati e non dispersi. Parecchie realtà storiche italiane stanno invece progressivamente passando in mano straniera nell’indifferenza generale. Per citare solo qualche esempio tra i più recenti:

la De Cecco potrebbe essere rilevata dal gruppo spagnolo Ebro Foods SA (che ha già acquisito la Garofalo). Il rischio per la De Cecco è quello di un potenziale “svuotamento” finanziario, di sostituzione dei canali di approvvigionamento di materie prime e di delocalizzazione della produzione;

il porto turistico di Fiumicino potrebbe essere acquistato dal fondo sovrano di Singapore Temasek Holdings;

la MCM di Piacenza ha concluso una trattativa con esponenti del gruppo cinese RIFA;

il gruppo So.F.TER. spa sarebbe oggetto di mire espansionistiche da parte dei giapponesi della Mitsubishi, interessato ad appropriarsi del know-how tecnologico e dei brevetti;

il gruppo Indesit è stato acquisito dal gruppo statunitense Whirlpool;

la Mangiarotti spa, azienda che produce apparecchiature a pressione di grandi dimensioni per il settore della generazione di energia è stata acquisita dal colosso americano Westinghouse Electric Company, società del gruppo nipponico Toshiba;

il gruppo Ansaldo Nucleare è oggetto di attenzione da parte di competitor stranieri;

la Merlo spa, che produce sollevatori telescopici e trattori avrebbe delle trattive in corso per la cessione alla cinese Foton Lovol;

il Gruppo Alitalia è stato ceduto agli Emirati Arabi di Etihad;

la società argentina “Corporacion America S.A.” ha acquisito una quota del capitale delle società di gestione degli aeroporti di Pisa e Firenze, è impegnata nella definizione di un accordo per il subentro nella proprietà dell’aeroporto di Palermo, manifesta interesse a rilevare una partecipazione nella società che gestisce l’aeroporto di Catania ed è azionista privato della società che gestisce l’aeroporto di Trapani;

la Societé Nationale Des Chemins De Fer Francais avrebbe manifestato un possibile interesse all’acquisizione del 70% del capitale della società italiana Nuovo Trasporto Viaggiatori Spa;

la Lucchini è stata ceduta agli algerini;

vi sarebbe un possibile acquisto da parte di Eni di materiale hardware dalla società russa Positive Technologies, potenzialmente pericoloso per la sicurezza informatica: gli strumenti infatti potrebbero fungere da “cavallo di troia” permettendo all’azienda russa di accedere alle informazioni della clientela;

il gruppo cinese Insigma ha avanzato un’offerta vincolante per acquisire Ansaldo Breda e Ansaldo STS. Anche la Hitachi, la società francese Thales e gli spagnoli di Caf hanno mostrato interesse ad acquisire le due aziende. In più i francesi della Thales avrebbero anche un interesse verso Avio;

la Fiat ha spostato la propria sede legale e amministrativa all’estero e il core business negli Usa. Pagherà le tasse altrove e nei fatti smette di essere un’azienda italiana se non per il fatto che continua a percepire dall’Italia i soldi pubblici per pagare i lavoratori e le lavoratrici in cassa integrazione.

Per quanto riguarda l’Ilva (che anch’essa in prospettiva rischia di finire in mani straniere) prima entrerà in amministrazione straordinaria con la rivisitazione ad hoc della legge Marzano e poi verrà costituita una società a capitale pubblico che prenderà in affitto l’azienda Ilva, ponendo in essere tutte le iniziative necessarie a risanarla. L’azienda quindi rimane di proprietà di Ilva spa e non diventa pubblica ma resta privata. Al termine del contratto di affitto e a risanamento avvenuto, l’azienda torna di proprietà dell’amministrazione straordinaria che avrà la possibilità di metterla sul mercato in cerca di un acquirente interessato a rilevarla. Detto questo, o si utilizza questo tempo per fare finalmente un’opera di bonifica ambientale e di messa in sicurezza dello stabilimento e della città che tuteli tutti i cittadini e le cittadine di Taranto oppure sarà stato tutto inutile. In questo senso preoccupa la “nazionalizzazione” a scadenza prevista nell’ultimo decreto del governo per Taranto, che potrebbe non essere sufficiente a raggiungere tutti gli obiettivi necessari, specialmente se al momento mancano addirittura i fondi per la bonifica. Si spostano in avanti i tempi di attuazione delle prescrizioni Aia ritardando nei fatti l’ambientalizzazione, non è chiaro quali e quante risorse saranno messe a disposizione, se quelle di cassa depositi e prestiti o i soldi dei Riva che però, al momento, si trovano in Svizzera. Inoltre è prevista una sorta di immunità per la struttura commissariale che quindi non potrà mai essere richiamata alle proprie responsabilità sulla bontà e l’efficacia del proprio operato. Infine, qualsiasi idea di spacchettamento e di vendita dell’Ilva per parti separate sarebbe controproducente per il futuro dell’azienda. Se si vuole davvero salvare quella realtà e conseguentemente la produzione di acciaio in Italia occorre salvare l’intera filiera e l’intero ciclo produttivo dell’Ilva.

In prospettiva i principali settori dell’industria nazionale (manifattura, energia, ICT, moda/lusso, agroalimentare, logistico/trasporti) resteranno a rischio di acquisizione nel medio termine, con un aumento dell’interesse di investitori stranieri, specie di fondi di private equity, per l’acquisizione anche di aziende nazionali medio/piccole (manifatturiere e Oil&Gas). Gli investitori traggono profitto da una serie di vulnerabilità del tessuto economico nazionale: le variabili di natura fiscale, la generalizzata situazione di debolezza finanziaria delle aziende nazionali, la scarsa propensione allo sviluppo e agli investimenti da parte degli imprenditori, la generale mancanza di liquidità, i rating bassi, l’esiguo grado di internazionalizzazione e le carenze infrastrutturali.

Nel lungo periodo uno dei principali effetti delle acquisizioni straniere sarà rappresentato dalle problematiche connesse alla destrutturazione delle filiere italiane a favore di quelle estere e dal correlato spostamento del baricentro tanto dell’indirizzo strategico quanto della localizzazione geografica degli asset, in un quadro di accentuate criticità connesse al trasferimento di kow-how italiano strategico all’estero.

Sul fronte della sicurezza energetica Russia, Emirati Arabi, Kuwait e Qatar sono interessati nei confronti del nostro settore energetico nazionale e a all’acquisizione di aziende italiane.

Ripartire significa restituire allo Stato le funzioni di progettazione, fissare per i prossimi anni alcuni obiettivi precisi, rimettere al centro l’economia reale, fare in modo che la finanza sia al servizio e a disposizione dell’economia reale e non più il contrario. In questo consiste l’attività di un governo in quanto a politica economica.

Non basta evocare la ‘crescita’ senza definire una priorità di interventi, senza specificare quale tipo di crescita si intenda perseguire, senza adeguate politiche industriali di indirizzo e sostegno all’impresa che genera innovazione a livello di processo produttivo e di prodotto, che crea posti di lavoro a tempo indeterminato. Crescere significa scommettere sul coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle imprese e permettere a chi fa buona impresa di aumentare lo loro dimensione, la qualità del loro prodotto, il livello tecnologico e il ciclo produttivo.

Il terreno principale su cui si deve muovere oggi una nuova politica industriale è quello che ha l’obbligo di coniugare lo sviluppo con la compatibilità ambientale, con la finitezza delle risorse e con il rispetto dei diritti e dei tempi di vita delle persone. Immaginare una riconversione ambientale dell’industria e dell’intera economia è quindi la frontiera della modernità e un imperativo sia per la salvaguardia del pianeta che per la produzione di energia pulita e a buon mercato e quindi di ricchezza.

Per questo lo Stato, che per troppi anni ha delegato tutto al mercato, deve ricominciare a svolgere un ruolo più attivo, impostando e progettando politiche economiche di medio e lungo periodo a sostegno dell’innovazione e dei settori industriali in espansione, intervenendo per frenare la dismissione degli asset e del sistema Italia, assumendo come spia per la valutazione del proprio operato criteri come il benessere sociale, la capacità di far funzionare l’ascensore sociale per i giovani, l’accesso al credito per le imprese e l’ambiente.

L’obiettivo principe di una nuova politica industriale deve essere quello della riconversione ambientale dell’industria e dell’intera economia, attraverso un massiccio intervento pubblico che affronti e risolva da un lato i drammi provocati dal dissesto idrogeologico mettendo in sicurezza il territorio, le strade, gli uffici, le scuole e le abitazioni e dall’altro immagini un modo di produrre che sia ambientalmente compatibile.

Per rilanciare l’economia sono necessari in tempi brevissimi alcuni interventi senza i quali non si muoverebbe un passo in avanti. Prima di tutto occorre una radicale sburocratizzazione, prosciugando la palude burocratica che rallenta ogni investimento e crea il terreno ideale per la corruzione. In secondo luogo occorre spostare in maniera significativa la tassazione dal lavoro alla rendita. Urgono poi interventi corposi per costruire un adeguato sistema di infrastrutture che permetta uno spostamento veloce di merci e persone, condizione indispensabile per attrarre investimenti esteri e riparare la spaccatura tra nord e sud del paese. Infine, altro fattore fondamentale è la velocità dell’informazione. La banda larga quindi deve figurare ai primi posti tra le priorità di un buon governo.

Inoltre va analizzato e contrastato il rapporto tra la criminalità organizzata e l’impresa e la sua capacità di ingerenza nella pubblica amministrazione e nelle amministrazioni locali, con tentativi di far eleggere i propri referenti. Vi è inoltre un tentativo ormai palese da parte della criminalità organizzata di diventare player di riferimento in numerosi settori dell’economia legale e a farne le spese sono soprattutto le piccole e medie imprese che, afflitte dal calo della domanda e dalla stretta creditizia hanno finito per favorire l’offerta finanziaria dei circuiti criminali. Esiste un’ “area grigia” in cui politica, imprenditoria e criminalità convergono e gli interessi economico-affaristici delle mafie trovano sempre più spazio. La Lombardia, ad esempio, rappresenta un area di investimento privilegiata per le cosche, attraverso i lavori di Expo 2015 ma anche con l’acquisizione di aziende in crisi di liquidità, la costituzione di una galassia di piccole cooperative anche con sedi all’estero, utilizzate per esportare capitali o effettuare sospette manovre di risanamento finanziario.

Un altro esempio che illustra le ragioni del declino italiano è senz’altro quello del comparto istruzione, ricerca e formazione pubbliche. Quello delle risorse umane di un Paese è il settore più cruciale di tutti, quello da cui dipende il futuro del Paese. Eppure in formazione e ricerca investiamo meno della metà dei Paesi occidentali più avanzati e il numero dei giovani che lasciano l’Italia per mancanza di prospettive è sempre più alto. Prima o poi andrebbe calcolato quanto costa e quanto perde l’economia italiana quando un ricercatore, un ingegnere o un medico sono costretti a cercare lavoro in qualche Paese competitivo con il nostro. Al contrario bisogna incentivare le menti più brillanti e creative a restare o tornare in Italia per studiare e lavorare, mettendo in sinergia le aziende e le università, al fine di offrire sbocchi certi ai nostri giovani talenti. Una delle differenze fondamentali tra le politiche economiche che mirano solo a fare cassa e quelle che dispongono di una visione strategica si misura proprio su quanto si investe nella scuola e nella formazione.

Quando insistiamo per una discontinuità netta con il passato non intendiamo solo interventi più equi e giusti che non penalizzino principalmente il ceto medio e le fasce più deboli ma intendiamo anche e soprattutto politiche più efficaci in termini di progettualità industriale e di risanamento economico e ambientale.

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