Prima l’ignoto, prima la maggioranza invisibile

Human Factor Lab
Human Factor, per discuterne
12 min readJan 15, 2015

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“Alcuni di voi sono venuti da zone in cui la domanda di libertà
ci ha lasciato percossi dalle tempeste delle persecuzione
e intontiti dalle raffiche della brutalità della polizia.
Siete voi, i veterani della sofferenza creativa.” M.L.King

Scegliere. Scegliere da che parte stare, ovviamente. Scegliere tempi e spazi dell’agire politico, naturalmente. Ma scegliere tante altre cose, scegliere con chi e per andare dove. Scegliere l’abito, scegliere i gesti, scegliere i silenzi, scegliere i sessi, scegliere lo stile, scegliere di includere, scegliere di lottare, scegliere di rinnovare, scegliere di scontentare, scegliere di farsi da parte.

Scegliere le parole e scegliere il tempo.

Sono solo alcune delle scelte che la politica dovrebbe compiere se ambisce a rappresentare qualcosa di più della propria conservazione e della propria sopravvivenza. La politica, così come la sinistra.

Per troppo tempo la sinistra non ha scelto, o ha scelto di non scegliere: si è nascosta in stanchi rituali o, peggio ancora, ha pensato di trovare la propria essenza nel costruirsi unicamente come una debole controparte.

Per questo accogliamo con entusiasmo l’aprirsi di uno spazio di discussione come Human Factor. Perché parte proprio dalle domande, senza formule magiche o processi da imitare, ma invitando tutti a mettersi a disposizione, a raccontarsi e proporre. Sarà difficile trovare le risposte senza le domande giuste, senza una comunità sana e virtuosa, senza il coinvolgimento di tutte e tutti. Il rischio è, come al solito, di pensare di rideterminare la sinistra secondo ricette algebriche, geometriche e politiciste (allargando il perimetro dell’insieme e sommando micro ceto politico sconfitto e senza più un’idea del mondo) oppure affascinarsi e copiare le ricette estere, come se evocare un nome o un’esperienza di successo potesse riprodurla senza che vi sia la necessità di riempirla di politica.

Come ormai più d’uno racconta, il presente è in completa metamorfosi, il conflitto esclusivo tra due schieramenti di interessi e di relazioni contrapposti ci sembra ormai una storia raccontata solo a metà. Da una parte i liberisti, la società del rischio, la finanza, il lavoro autonomo, i padroni e dall’altra i socialdemocratici, i sindacati, il mondo del lavoro dipendente, del pubblico impiego e gli operai. Il racconto è più complesso. Non esiste più un blocco sociale compatto, ma un mondo sconosciuto, frammentato, disorganico, che fa fatica a percepire e percepirsi, che vive all’interno di una nuova composizione di classe. Un mondo inascoltato, ancora poco interpretato: “la maggioranza invisibile”, o “il quinto stato” o il “partito che non c’è”. Quei milioni di persone senza garanzie e tutele: disoccupati, inoccupati, migranti, pensionati a poche centinaia di euro al mese, lavoratori dipendenti dai salari bassi e le garanzie decrescenti, precari, partite Iva e Neet. Milioni di persone a cui la parola “sinistra” non dice nulla, esclusi dalla politica e, peggio ancora, dai processi di rappresentanza.

Nel passato la sinistra si era costituita come un racconto comune, unificante. Oggi quel racconto è annebbiato e diviso perché troppe volte alle domande, all’ignoto e alla ricerca si sono preferite la certezza e le risposte consuete.

Quando un’intera generazione si allontana dalla politica e non riconosce la sinistra lo fa perché sente una distanza crescente e percepisce la sinistra solo ed esclusivamente come un luogo privatizzato ed inospitale, sordo ai cambiamenti del mondo del lavoro. Quando ogni giorno si concretizzano attacchi a diritti acquisiti e fondamentali c’è bisogno di alzare ogni barricata possibile. Eppure non è più sufficiente la sola pratica di resistenza, bisogna unire garantiti e non garantiti in una nuova narrazione e provare a conquistare nuove tutele universali. Solo così riusciremo a ritrovare un senso e rappresentare la maggioranza invisibile.

Il dramma vero però è che la sinistra troppo spesso non sceglie di includere questo pezzo di mondo perché sceglie, involontariamente e per inerzia, di costituirsi riferimento solo di “una parte”, di un punto di vista. La stessa trappola in cui, spesso, sono apparsi rinchiusi i sindacati, lasciando questo mondo sconosciuto a chi, del conflitto generazionale così come dei cambiamenti antropologici dell’intera società, ne ha fatto un mero strumento di potere.

L’ignoto sono le periferie, dove le grida rabbiose di fascisti e leghisti attraggono più del buonismo retorico di certe ricette sull’immigrazione. L’ignoto sono gli operai a tempo determinato, a chiamata, in nero. Sono i tirocinanti dietro una cassa al supermercato, in un centro commerciale o in magazzino. L’ignoto sono le partite Iva, i lavoratori della conoscenza, i freelance, gli autonomi, gli artigiani, i piccoli imprenditori. Persone quasi sempre precarie che subiscono la burocrazia e le tasse smisurate che li rendono incapaci di mettere a valore i propri talenti. Persone che una volta perso il proprio lavoro, la propria scommessa, la propria partita iva, non hanno nessun ammortizzatore sociale e finiscono in povertà. L’ignoto sono le nuove pratiche del mutualismo e della condivisione, le forme dell’innovazione sociale, le capacità trasformative di una generazione che sta già cambiando l’Italia.

L’ignoto sono le comunità in lotta contro le devastazioni ambientali, contro le trivelle, contro gli inceneritori. Sono tutti quei movimenti che lottano contro i cambiamenti climatici e per la giustizia ambientale. L’ignoto sono tutti quei piccoli agricoltori che difendono con fatica la loro terra e i loro prodotti.

Partire dall’ignoto per noi, in questi anni, ha significato questo: partire dalla precarietà, dal fattore umano appunto, dal racconto della complessità e della vita di ogni individuo e provare a mettere tutto in rete, partendo dalle singole specificità. Ci è servito per provare a raccontare la trasformazione della società e del mondo, cercando di evitare gli errori spesso compiuti dalla sinistra istituzionale, ci è servito per provare ad unire e a parlare agli invisibili, ci è servito per creare comunità che includono, che viaggiano tra diversi in un racconto comune, in un luogo ospitale ed inclusivo.

La precarietà non è solo assenza di futuro e di progetti degni che favoriscano l’ascesa di tutti e non solo quella personale. E non è nemmeno solo spreco e regalo agli sfruttatori. La precarietà è un sistema di frammentazione sociale, per cui al centro c’è il “si salvi chi può”, c’è l’apologia dell’uomo che si fa da solo, imprenditore di se stesso, che deve eccellere, esser meritevole, efficiente e a basso costo. Un vero e proprio sistema sociale, senza nessun aiuto da parte dello Stato, senza nessuna solidarietà della propria comunità, senza nessuna possibilità di avere le stesse opportunità di chi è più ricco o fortunato.

È qui che hanno vinto le destre e i conservatori d’Italia e d’Europa: non solo con la raffigurazione decadente dei festini di Berlusconi, ma con la penetrazione di un modello culturale ed economico in cui l’unica competitività è determinata dal costo del lavoro (e quindi dal suo abbassamento, fino a togliere ogni diritto e soglia di dignità) e dalla polverizzazione del collettivo, per lasciare l’individuo solo in balia del mondo e in competizione costante con i suoi simili.

Per questo è fondamentale oggi mettere al centro non solo il lavoro, ma il lavoro e il welfare, e il welfare mai dopo il lavoro. C’è il lavoro, quello che si ricerca, quello nobile, quello che ciascuno può e sa fare. Poi c’è un “lavoro” italiano, senza dignità. Quello che priva di valore e senso ogni quotidianità, quello percepito come un dono dal datore di lavoro, anche quando non è tutelato. Questo oggi sono le miriadi di contratti di lavoro gratuito, finti stage o lavori fintamente retribuiti. Il lavoro oggi è un rimborso spese. Il lavoro oggi è guerra di sopravvivenza, è il terreno dove conta più di chi sei figlio e chi conosci, piuttosto che quello che sei e cosa puoi dare. Il lavoro oggi è l’oggetto del desiderio, in cui il tempo libero è spesso vuoto di cultura, conoscenza, saperi e pieno invece di disperazione e ricerca.

Il lavoro che non riesci ad ottenere è paragonabile alla macchia del peccato originale, che non riesci a lavar via finché non cedi ad un compromesso al ribasso. In questo racconto non c’è spazio per il noi, non c’è spazio per lo stato sociale, non c’è spazio per quell’Europa che abbiamo imparato a sognare.

Tenere insieme lavoro e welfare è per noi essenziale e ci aiuta a focalizzare la crisi dell’organizzazione stessa della società. Nel passato le lotte per l’acquisizione dei diritti si sono fatte insieme, sollevando una questione generale che interrogava la natura complessiva dei rapporti sociali. Oggi si fanno invece ad excludendum, perché non ci si pone più l’obiettivo dell’universalità. Per questo oggi il welfare viene prima, per il suo carattere universalistico (seppure in questo paese strutturalmente parziale) che il lavoro non ha e non avrà nel futuro prossimo. Per questo restiamo fortemente convinti che il reddito minimo garantito debba essere la prima delle riforme con cui far cambiare passo al Paese. Perché l’autonomia, delle persone come della politica tout court, si nutre della libertà dai ricatti, e la libertà dai ricatti si nutre di uguaglianza di opportunità, di diritti di esistenza (così come affermato dalla carta di Nizza), di luce sulle zone grigie del lavoro e della vita.

Oggi che “scopriamo” — ma sarebbe meglio dire riscopriamo — una corruzione annidata soprattutto in quella terra di confine tra politica ed economia, riscoprire la speranza significa dipanare i compromessi, mettere a nudo non solo il re ma anche i vassalli, i valvassori e i valvassini. Non attraverso un giudice (o non solo), ma attraverso strumenti di liberazione universali che diano a tutti la possibilità di essere davvero “sentinelle” della democrazia.

La politica è conflitto per cambiare le cose, visioni del mondo in continuo movimento, decisioni condivise. Troppo spesso la sinistra del “governo per il governo” ha prodotto solo classe dirigente ed ha perso qualsiasi contatto con i territori, le città, le persone e le loro sofferenze.

L’esigenza che si impone attualmente è quella di costruire uno spazio di alternativa che sia innanzitutto alternativa all’attuale dinamica produttiva, alle diseguaglianze, alle forme tecniche di gestione politica ed economica come alle loro modalità di riproduzione e perpetuazione. Pensiamo sia il momento di ribaltare la piramide, imparando ad essere magmatici, ad agire attraverso le nostre vite e i nostri corpi, impattando sia negli spazi pubblici di partecipazione sovranazionale ed europea, sia nello spazio delle metropoli, riconoscendone il ruolo fondamentale ed ambiguo di spazio della quotidianità e di luogo della produzione. Dobbiamo essere in grado di intercettare e rappresentare quelle realtà invisibili che la città non possono o non vogliono viverla; rilanciando l’importanza della cura e il presidio del territorio, dando dignità a tutte quelle persone che vivono in luoghi ampi e poco urbanizzati, dove la vita scorre con tempi completamente differenti.

Abbiamo l’urgenza di tornare ad essere riferimento sociale e politico e possiamo farlo solo se ridiventiamo credibili, se mettiamo in campo strumenti per coinvolgere ed includere, se siamo disposti a innovare e rinnovare, partendo dallo studio e dalla ricerca di nuovi tempi e di nuovi spazi, di nuove modalità creative, valorizzando e stimolando le esperienze di mutualismo, condivisione, coworking e produzione culturale, costituendo spazi sociali capaci di aprirsi all’emergere di nuove potenzialità, a partire da modalità innovative nell’erogazione di servizi. Una sinistra delle pratiche, dunque, oltre le etichette e i confini tradizionali. Noi diciamo che “si è ciò che si fa!”. Diciamo che non basta definirsi di sinistra, socialisti o chissà come, senza mai rompere la continuità con i modelli che ci hanno trascinato nel baratro. Vogliamo praticare la sinistra attraverso la solidarietà, lo studio e la contaminazione fra esperienze e culture differenti. Attraverso reti di mutualismo orizzontale e di auto-organizzazione sociale, immersi nei conflitti che attraversano il nostro tempo, assumendoli come il terreno ideale per costruire un’alternativa ad una società prigioniera delle sue contraddizioni. Una sinistra che, in questa prospettiva non politicista, è già capace di essere maggioritaria, diffusa, vincente.

Il tema delle giovani generazioni e la politica è un tema fondamentale per un progetto di alternativa e cambiamento. La sinistra non le conosce, non le attrae, non le fa sentire parte di un percorso. Anzi. Troppo spesso le esclude o le include solo per comodità, in un abbraccio retorico, freddo e caricaturale. È urgente porsi il tema di una generazione non solo perché non riusciamo ad intercettarla, ma soprattutto perché oggi quella generazione è la più compiuta interprete della grande trasformazione sociale e la più energica alleata di ogni tentativo di nuova emancipazione. Per capirci, meno paternalismo e meno retorica della “cessione di sovranità”. Oggi il punto non è chiedere a chi non si è mai fatto da parte di farlo. Perché non lo farà. Oggi il punto è costruire una sinistra che sia un luogo in cui ci sia “contendibilità”, delle idee quanto delle classi dirigenti, perché proprio quella competizione permette di innovare e allargare i nostri confini. Se esiste una maggioranza invisibile, deve potere incidere sulle scelte.

Mafia Capitale, i fatti di Roma, parlano non solo al PD ma a tutti i partiti della sinistra, nessuno escluso. Tutti quelli che hanno selezionato la propria classe dirigente attraverso congressi in cui c’era la rincorsa al (vero o finto) tesseramento, cordate, correnti, capibastone, filiere che la facevano da padrone e primarie false e falsate. Questa stagione è finita. Ma non dobbiamo rinunciare alle primarie e a qualsiasi strumento di coinvolgimento degli elettori per la scelta dei rappresentanti nelle istituzioni, anche per la scelta dei dirigenti.

Cominciamo allora da noi: da Human Factor in avanti apriamo realmente uno spazio di elaborazione politica, che veda le diverse anime della sinistra, i cittadini, i movimenti e i partiti confrontarsi sui contenuti, prima ancora che sui contenitori. A tornare a parlare di politica, e non di posizionamenti e rendite di potere. A connotarsi per la proposta, e non per contrarietà a qualcos’altro, ad unirsi sui contenuti e non per la formazione dell’ennesimo cartello elettorale.

È anche per questo che un progetto politico, come quello de L’Altra Europa, si è trasformato nel nostro Paese da un possibile fattore di speranza nell’ennesima cocente delusione. Un percorso potenzialmente capace di rimettere in discussione le solitudini delle sinistre italiane, giorno dopo giorno, sotto i nostri occhi, si è trasformato in gruppo d’élite intellettuale che non solo non ha rispettato gli accordi presi con gli elettori, ma si è sempre costantemente auto-rappresentato, auto-diretto e auto-legittimato in un recinto reso sempre più microidentitario. Tutto questo a danno di chi ha creduto che quel processo potesse rappresentare veramente un inizio e un terreno d’incontro e rinascita per tutta la sinistra.

Per rendere visibili gli invisibili o gli inesistenti c’è bisogno di un meccanismo collettivo che generi un movimento politico tenuto insieme dal comune interesse per la redistribuzione del reddito, l’universalizzazione dei diritti sociali e la giustizia, sociale e ambientale. Si tratta di dare all’Italia una nuova storia, un nuovo racconto, un nuovo linguaggio. Un linguaggio che parli di riscatto, di libertà dalle bugie di governi ciarlatani, libertà dall’insufficienza e inadeguatezza delle risposte alla crisi, di emancipazione da un’agenda subalterna alla Troika. Una storia da costruire insieme alle voci tremanti di oggi, alle bocche chiuse, e non a tavolino tra notabili. Nella maggioranza invisibile ci sono persone che hanno visto l’indifferenza cadere sulle loro battaglie, deluse di fronte a proposte di cambiamento e trasformazioni del reale, che hanno usufruito degli ultimi scampoli di un’istruzione pubblica sempre più impoverita, di un welfare familiare in esaurimento, e che oggi non vedono molte alternative alla fuga all’estero in cerca di futuro. Forse queste persone non sanno cosa sia la sinistra dei partiti ma possono insegnare cosa vuol dire appartenere ad un gruppo senza ascensore sociale.

Con tutti questi soggetti va ricostruito il campo.

Non ci sono scorciatoie, non basta parlare con uno per rappresentarne cento. Serve aprire spazi e luoghi di confronto liberi da liturgie e compromessi. Serve perché c’è un’idea alternativa a quella “cerimonia cannibale” che è la politica di oggi: qualcosa che divora e mangia se stessa nei suoi rituali autoreferenziali.

Per questo vogliamo mettere prima l’ignoto, perché le domande su ciò che non conosciamo devono precedere le risposte dei soggetti classici con cui ci relazioniamo. Siano essi professori, sindacati, associazioni di categoria o gruppi dirigenti.

Se parliamo di crisi del partito novecentesco parliamo di crisi dell’organizzazione, di processi che si ripetono più per inerzia che per vera utilità sociale, di incapacità di fotografare il mondo e dare delle risposte. Ma non ci sentiamo obbligati a prenderne atto e consegnarci nelle mani di santoni salvifici. Ci sentiamo invece pronti a trovare strumenti di democrazia deliberativa digitale come strumento decisionale per permettere a tutte e tutti di sentirsi parte di un soggetto aperto e trasparente; pensiamo a una tessera che comprenda servizi, che dia la possibilità di avere consulenze sul lavoro, accesso a produzioni culturali e infine pensiamo a veri e propri momenti di formazione politica e culturale nazionale e sui territori. C’è bisogno di studiare, e studiare tanto: perché un soggetto politico che punta al cambiamento deve farsi carico di costruire appuntamenti ampi e popolari che producano coscienza e capacità critica.

Per noi Human Factor sarà anche questo, la possibilità di dimostrare che esiste un modello di comunità, di aggregazione e di lotta completamente diverso, una rete a sinistra fatta di nodi tematici e territoriali, che sa tornare ad essere riferimento sociale, che sa dare servizi, che si rigenera, che produce contenuti innovativi e che sa uscire una volta per tutte dalla naftalina in cui la sinistra si è conservata negli ultimi anni.

Maria Pia Pizzolante (Presidenza SEL — Presidente TILT!)
Marianna Pederzolli (Presidenza SEL — Lista Doria)
Diego Blasi (Assemblea nazionale SEL)
Alessandro Capelli (Assemblea nazionale SEL)
Giulia Ragonese (Assemblea nazionale SEL)
Cesare Roseti (Assemblea nazionale SEL)
Jacopo Argilli (Consigliere Roma)
Alessandro Gerosa (Consigliere Monza)
Alessio Gratton (Consigliere Friuli Venezia Giulia)
Fabio Bertoni (Altragorà)
Giuliana Buzzone (No Muos)
Stefano Gaggero (Rete a sinistra)
Giulia Giraudo (Left Lab)

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