Se il cuore ricomincia a battere

di Elettra Deiana

Non ho ovviamente nulla contro l’uso dell’inglese né sono contraria a formule evocative. Ma certe formule, in quella lingua, sono oggi soprattutto funzionali a alimentare gli automatismi — sociali e psicologici, oltre che politici e simbolici — di accettazione delle imperanti politiche di austerity, a cominciare dai processi di oggettivazione e riduzione a pura funzionalità dell’umano. Capitale umano, risorse umane, forse anche “fattore umano”, virano verso questo campo semantico: viventi incarnati e funzioni del vivente messi a disposizione del governo biopolitico del mondo e della governamentalità neoliberale.

Atti di sottrazione e reinvenzione dei concetti, del modo di guardare alle cose, dei tagli epistemologici da operare, per districarci nel disordine del mondo liquefatto che il potere economico-finanziario ingabbia e domina, con l’ “Europa pallida madre” al seguito: di questo oggi c’è massimamente bisogno. Riattivare processi di liberazione umana e inventare una nuova politica radicata nel mondo, nel cuore pulsante dell’umanità offesa e dei giovani, ragazze e ragazzi in sofferenza o in rivolta: questo è il cimento. Con parole taglienti come lame, senza edulcorati giri di parole. Per questo c’è bisogno di interrogare la dimensione dell’umano che ha a che fare soprattutto con i sentimenti, le emozioni, la complessa attitudine alla relazionalità, che ci lega o ci slega, ci collega o scollega, secondo come va la ratio del governo delle cose. Ma anche secondo come va il cuore, se il cuore ricomincia a battere. E continuamente ricomincia a battere. Almeno ci prova. Lo vediamo da tutte le parti, quando abbiamo il coraggio di andare oltre il canone della politica politicista, di cui anche noi siamo prigionieri e ostaggi. E anche artefici, siamo chiari, dove quel “siamo” è imperativo.

Batte soprattutto il cuore delle generazioni più giovani. I movimenti Occupy di questi anni, gli Indignados, le primavere di altri Paesi, Syriza a e Podemos. E’ nelle cose. Tutti i passaggi storici le hanno avute al centro del cambiamento. Al di là del colore del cambiamento e del giudizio che si possa dare dei risultati. Lo sguardo distratto su questo aspetto essenziale è il principale blocco per un agire politico che scommetta sul futuro, cioè sulla politica del cambiamento, che non si riduca, al di là delle parole, in autoconservazione o messa in scena di biografie già sperimentate. O memoria nostalgica di altre vicende, che hanno sì segnato positivamente la storia ma vengono così ridotte a mera fantasmatica rievocazione. Per lo più inutile, quando non dannosa.

Tutte le generazioni hanno ovviamente da dire e fare — spesso molto, spesso di importante — ma senza quelle che più strettamente devono vedersela col futuro e hanno da dire sul futuro, la partita è chiusa prima di cominciare.

Mi piace, per questo, pensare che sin dalla fase preparatoria della Conferenza programmatica di gennaio il concetto di human factor venga via via decostruito e rielaborato come idea della human empathy o qualcosa di simile, perché il campo semantico su cui dobbiamo lavorare è quello del senso critico, dell’ironia, della creatività e genialità umana, dell’umano in tutta la sua complessità affettiva, psichica, esistenziale e nel suo intrinseco e intimo rapporto con il pianeta che ci ospita. L’amore per il mondo e la cura del mondo — i paradigmi che guidano oggi la riflessione più avanzata del femminismo politico, da agire contro la pervasiva incombenza del potere — si misurano con questa fondamentale dimensione, su cui mettere in gioco la sfida per quell’economia globale di cui parla Ina Praetorius in “Penelope a Davos”. A cominciare da come ripensare tutto della nostra vita e del nostro rapporto con l’ambiente e il pianeta.

Affinché la politica torni a essere produttrice di senso per donne e uomini e riannodi per questa via il suo agire con la vita delle persone, c’è bisogno di un mutamento profondo dell’antropologia umana, tale da produrre crepe nei dispositivi sociali, psicologici e psichici che ci hanno reso creduli e adattivi a come va il mondo oggi, interiorizzando come “naturale” il totale rovesciamento dei criteri interpretativi, delle pratiche, dei risultati che storicamente hanno dato senso e forza di cambiamento all’idea del diritto, della giustizia, della democrazia, della libertà. Dico “interiorizzando” e non “accettando”, perché nell’accettazione è compreso un margine — piccolo o grande non importa — di resistenza; nell’interiorizzazione non c’è scarto alcuno, ma soltanto la totale riduzione dell’umano al canone dominante. Fenomeni endemici come la povertà e il crescente impoverimento di vasti settori della società si moltiplicano non più soltanto nell’indifferenza generale, ma nell’idea interiorizzata che le cose vanno come vanno perché è così e non si può fare altro. Altrettanto avviene di fronte alla dimensione epocale del lavoro/non lavoro, alla frantumaglia delle prestazioni lavorative e alla precarizzazione delle vite, alla cancellazione di ogni diritto, alla dispersione di giovani vite. Per non parlare dell’immigrazione disperata, dei dissesti e disastri idrogeologici, della forsennata corsa agli armamenti. E altro ancora, a non finire.

Dov’è il dolore sociale, il coinvolgimento affettivo, l’indignazione morale, la scommessa politica di dare visibilità, parola. rappresentanza a tutto questo? Tutto sta insieme e si alimenta. Ma non c’è nulla di tutto questo. Solo odio e rancore popolare, paura e performativa costruzione del nemico di turno, compiacimento cortigiano e convenienza castale. Con in più reclutamento di giovani speranze già funzionali all’uso. Tutto ridotto a materia di compulsivo entertainment mediatico. Il peso del debito, inoculato come veleno, cancella la consapevolezza delle crescenti distanze sociali che lo stesso debito produce, distanze di classe, per dirla alla maniera classica, da rivisitare. E occulta le responsabilità storiche e politiche di partiti e sindacati e sinistra di tutte le sfumature. Oltre ai tre magnifici alfieri della destra occidentale (Reagan, Thatcher, Kohl) che a tempo debito hanno aperto la strada al neo liberismo, come ha continuato a funzionare l’apporto della sinistra alle stesse strategie? Come la sinistra ha contribuito a rendere adattivo l’umano?

L’economia fondata sul paradigma neoliberista agisce potentemente, sul piano pratico e psicologico-psichico, utilizzando la chiave di volta del debito: sia pubblico sia privato, gigantesco e inesauribile, da qui all’infinito. Il debito rende orizzontale l’umana condizione nell’opprimente dimensione penitenziale del sentirsi fuori gioco, inadatti e colpevoli per aver partecipato allo spreco delle risorse: troppo welfare, troppo pubblico, troppa scuola gratis, troppo tutto. La sinistra e il debito.

La domanda da cui una nuova politica deve cominciare a misurarsi è la seguente: com’è possibile che a dispetto delle catastrofiche conseguenze delle politiche neoliberiste, esse siano sempre più attive? Come è possibile che negli ultimi decenni (molto più di trent’anni ormai) si siano approfondite e diffuse senza aver incontrato resistenze all’altezza della sfida e reclutando a destra e a sinistra i loro paladini? Non se ne esce se non si fanno i conti con questo problema, perché il neoliberismo si muove sì nella direzione di distruggere o sterilizzare i principi costituzionali, le istituzioni democratiche, le regole e le procedure della prassi giuridica — Renzi e il suo governo segnano in Italia una tappa decisiva in questa parabola — ma è attivo anzi attivissimo, con tutta l’enorme grancassa mediatica potentemente e performativamente al suo seguito, per produrre un altro senso delle cose, un’altra percezione dei problemi, un altro sentimento del mondo, un’altra idea delle relazioni sociali, dello stare al mondo, della soggettività e della stessa libertà. Universo di competizione senza tregua. Autoreferenzialità estrema e estrema fragilità dell’umano.

Da dove cominciare allora? Dalle donne, per esempio, che posseggono e conoscono ancora la forza del fondamentale legame che ci mette al mondo, da cui possiamo apprendere di nuovo come scoprire l’altra dimensione dell’umano — quella della relazione con l’altro che è fondamentale e insostituibile per la vita privata e la vita pubblica e per i legami tra la politica e la vita; e dalle giovani generazioni, soprattutto e in primis, con quel loro cuore che sa ritrovare ancora la strada per battere all’impazzata, da cui possiamo apprendere il coraggio di dare vita a un’altra politica, che, accanto alla rinnovata tensione verso le sfide della contemporaneità, sappia riscoprire la dimensione e la pratica del conflitto, perché senza conflitto nulla davvero cambia. Per questo dobbiamo augurarci e lavorare perché la sinistra — o con qualsiasi altro significante la si voglia nominare — sia soprattutto nelle loro mani, di giovani donne e giovani uomini. Nasca di nuovo dal loro cuore che riprende a battere.

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