Parigi, Grecia, Europa

Human Factor Lab
Human Factor, per organizzarci
10 min readJan 22, 2015

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documento Sel Lazio

Il suono assordante delle sirene a Parigi ha aperto un tempo che rischia di rovesciarsi nell’ennesima lunga notte reazionaria per il Vecchio Continente. La politica in crisi fatica a contenere gli effetti dell’accaduto. Per affrontarne la tragedia — che da qualsiasi angolo la si guardi, tale è — abbiamo bisogno di ragionare, di costruire letture ed analisi inedite sull’Europa, sulla globalizzazione, sulla crisi della politica. Non abbiamo bisogno della rabbia e dell’odio, dell’ansia di identificarsi o rifiutarsi con gli altri, delle passioni tristi e delle chiusure identitarie. Ora è assolutamente necessario impedire che l’orrore di fronte alla violenza terroristica e alle vittime si trasformi in odio. L’Europa che non ha saputo essere l’Europa dell’accoglienza deve sapere impedire che la paura e lo sgomento di queste ore si avvitino in una ulteriore spirale di violenza.

C’è una prima operazione di igiene politica e culturale da realizzare. L’atto terroristico chiama in causa la terribile responsabilità di chi lo compie e dell’organizzazione politica che l’ha progettato. Deve essere impedito a chiunque di estenderla arbitrariamente a una religione, a un’etnia, a una particolare popolazione. Il terrorismo è sempre una scelta politica individuale o del gruppo che la promuove. Il gruppo stesso tenterà di legittimare la propria scelta autoproclamandosi espressione di un movimento, di una cultura, di un popolo. Bisogna sapere e fare intendere che non vale il reciproco. Non c’è popolo, non c’è cultura, non c’è religione, che promuova il terrorismo. E’ il terrorismo che tende ad appropriarsi indebitamente di un retroterra al fine di darsi quella giustificazione storica che non ha.

In Europa c’è una crisi della coesione sociale, prodotta da anni di politiche di austerità che hanno minato alle fondamenta il modello sociale europeo (di cui parlano, da anni, le vicende delle banlieues francesi e, più recentemente, delle stesse periferie romane). In Europa c’è la crisi della democrazia e della politica. C’è forse una crisi di civiltà. Ma non c’è la guerra civile. Semmai abbiamo di fronte una grande sfida: quella di avviare una convivenza in Europa tra popoli, culture e religioni diverse. Abbiamo di fronte a noi la sfida di aprire l’Europa al Mediterraneo. Senza questa apertura, non c’è cultura per l’Europa, non c’è futuro per i paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Costruire la convivenza è tanto più necessario quanto più possiamo vedere cosa può determinare il suo contrario.

E’ anche per questa ragione che esiste un nesso tra quanto sta succedendo in Francia (la grandiosa manifestazione moltitudinaria di domenica 11 gennaio, la retorica dell’union sacrèe e del nemico esterno, le spinte nazionalistiche, islamofobiche e identitarie) e le elezioni politiche anticipate in Grecia del prossimo 25 gennaio. E’ del tutto evidente, infatti, come quelle greche non siano semplici elezioni “nazionali”: le pesanti ingerenze del governo tedesco e della Commissione europea mostrano chiaramente come in gioco vi sia l’assetto complessivo delle istituzioni europee, ridefinito in questi anni dalle politiche della crisi.

La necessità è quella di spezzare il dominio del pensiero unico del debito, ovvero di quella ideologia della colpa privata e collettiva che, in nome del rigore e delle politiche di austerità, rappresenta la cornice politica della gestione della crisi in Europa. All’interno di essa, si sono andati definendo scenari di stabilizzazione neoconservatrice, di drammatico approfondimento delle disuguaglianze, di emersione di figure sociali (come l’uomo indebitato) che alludono a modificazioni antropologiche che garantiscono la tenuta biopolitica della “nuova ragione del mondo”. L’attacco alle condizioni di vita, di cooperazione e di lavoro è particolarmente violento ed è accompagnato da una acutizzazione della crisi della rappresentanza, dei processi di finanziarizzazione, delle trasformazioni dello Stato all’interno della globalizzazione. E queste politiche hanno finito per favorire la nascita e la crescita di una pletora di destre “nazionali”, spesso apertamente fasciste, che introducono nel tessuto sociale elementi di violento disciplinamento e di nuova gerarchizzazione. Questi processi e queste tendenze hanno un forte radicamento nelle società europee. Non sarà certo un’elezione a bloccarli: e tuttavia, il concatenamento tra le elezioni greche, quelle spagnole (entro il 2015) e la dinamica di conflitto sociale in atto nel continente (a partire dall’Italia) può aprire una breccia nella loro continuità, può determinare quello scarto di cui abbiamo bisogno per fare uscire le sinistre e le lotte di questi anni da una dimensione meramente “resistenziale”.

E’ necessario un atteggiamento sperimentale di apertura verso la costruzione e il consolidamento di una nuova trama di contropoteri, di nuove istituzioni, di esperienze di autorganizzazione sociale, di pratiche di conflitto sociale, di buone prassi amministrative.

La Sinistra che verrà: lavoro, reddito, mutualismo

Il processo di costruzione di una nuova soggettività della sinistra e del cambiamento, di cui Sel è parte, non può che collocarsi a questa altezza.

Nell’ultimo anno la politica italiana è stata attraversata da eventi che le hanno impresso un’accelerazione potente. E’ tutto l’assetto dei rapporti tra politica e società che è entrato in fibrillazione: sono giunte al capolinea molte di quelle forme peculiari del postfordismo italiano, fatto di capitalismo molecolare e concertazione con cui il Paese ha gestito la sua lunga uscita dal fordismo e dal sistema dei partiti di massa.

Sinistra è oggi uno spazio da ridefinire e rifondare, uno spazio che riguarda il rapporto tra politica, statualità, Europa e nuova composizione sociale dei lavori.

Gli eventi politici delle ultime settimane e il dibattito sulla elezione del nuovo Presidente della Repubblica a loro modo esprimono l’accelerazione di questo passaggio. La via “ungherese” della Lega di Salvini, il populismo trasversale di Grillo con un occhio ai beni comuni e l’altro all’antimmigrazione, la modernizzazione carismatico-tecnocratica di Renzi, la rappresentanza del disagio, materializzatasi con forza nelle piazze della Cgil (pensionati, senza lavoro, lavoratori poveri, precari, esodati, indebitati) e nelle esperienze di sciopero metropolitano.

In particolare, le piazze della CGIL hanno dato visibilità ad una società degli esclusi che negli anni della crisi è cresciuta di dimensioni. Una sorta di Terzo Stato in versione moderna. Essa è formata innanzitutto di donne e di giovani, ma più in generale è costituita da quanti aspirano a un lavoro regolare e ad un reddito, vivendo invece una condizione occupazionale fatta di “nero”, di disoccupazione, di inattività, di precarietà, di discontinuità di reddito. Circa 10 milioni di persone, un segmento della società italiana sostanzialmente privo di rappresentanza. Ricostruire una soggettività politica della sinistra significa costruire reti, pratiche campagne che consentano di rideterminare una “connessione sentimentale” con questa composizione sociale del Paese, frammentata, smarrita, umiliata, e, al tempo stesso, desiderosa di ricominciare a ragionare di futuro.

Ma l’eclissi della società di mezzo, per dirla con De Rita, pone con forza anche il tema della ricostruzione di legami sociali e di rappresentanza.

Se la statualita e sempre piu artefice e garante del nuovo capitalismo mercantile e sempre meno centro di redistribuzione delle risorse, la funzione della società politica e dei partiti cambia.

In questo quadro, per molti versi ormai postdemocratico, il tema di fondo della politica e della sinistra è quello di ricostruire trama sociale, fare società dentro la transizione, ricostruire i tessuti connettivi tra società e politica. Insomma, il mutualismo, la costruzione diretta di vertenze, socialità e servizi diventano centrali nella costruzione di una moderna forza politica della trasformazione nel tempo della crisi.

IL PARTITO

La crisi della politica va indagata innanzitutto dentro il ciclo lungo della globalizzazione capitalistica: la sua riduzione a tecnica, lo spostamento dei veri centri decisionali fuori dai Parlamenti, il carattere intrinsecamente ademocratico dei vari istituti di regolazione dei mercati. Essa investe direttamente anche noi. Un noi largo, SEL, associazioni, sindacati, movimenti, forze che guardano ad un orizzonte qualitativamente differente dall’attuale. Un noi che va investigato anche nella dimensione del partito, delle sue regole, del suo funzionamento, dei suoi costi. Dobbiamo indagare i caratteri di questa crisi nei suoi elementi di fondo e nei caratteri specifici che assume la crisi della forma partito nel contesto della crisi del sistema politico italiano. Un sistema malato alla radice dalla sussunzione della politica dentro le grandi lobbies del potere economico e finanziario, un intreccio perverso, corrotto e corruttivo (di cui la vicenda di Mafia capitale parla in maniera esplicita) tra politica, affari e incrostazioni corporative che si propone come onnivoro, pervasivo di una trama che avviluppa tutti i gangli della società. Un sistema malato nella sua autoreferenzialità, nel proporre un apparato politico istituzionale, spesso separato, che si fa notabilato e che utilizza la politica come un approdo, un salto di appartenenza sociale, l’ingresso in un club esclusivo e privilegiato (anche di questo parla la recente scissione che abbiamo subìto). Per provare a contrastare tutto questo è necessario recuperare una visione complessiva, un progetto di cambiamento da sinistra delle politiche della crisi.

In questi anni, SEL nel Lazio, è riuscita generosamente ad ottenere risultati importanti sia sul piano politico (la vittoria alla Regione Lazio e in diversi Comuni, a partire da Roma e Rieti, ne sono l’emblema) che su quello organizzativo (per iniziativa politica, per numero di tesserati, di circoli, di amministratori, di parlamentari la nostra struttura regionale è tra le prima del Paese). Ma se il livello di complessità con il quale dobbiamo misurarci è quello sopradescritto è evidente la necessità di mettere a tema una modificazione profonda di limiti ed inadeguatezze che attengono sia alla dimensione generale della crisi della politica, sia alle modalità di vita, di organizzazione, di confronto politico che in questi anni abbiamo costruito e sviluppato. Abbiamo la necessità di fare una discussione vera e senza reticenze sulle nostre difficoltà.

Occorre nominare i guasti che si sono prodotti a tutti i livelli:

a) Irrigidimento correntizio che spesso ha prodotto un ingessamento del dibattito interno;

b) Maschilismo nelle modalità generali di selezione dei quadri e dei gruppi dirigenti, difficoltà a praticare il tema decisivo della differenza di genere che pure astrattamente si è assunto;

c) Difficoltà dei gruppi dirigenti nel partito e nelle istituzioni a mettersi in relazione e al servizio dei conflitti diffusi e della vertenzialità sociale;

d) Elettoralismo ed eccesso di litigiosità legate alla selezione delle rappresentanze istituzionali (vicenda delle Parlamentarie docet)

e) Verticismo nel rapporto tra centro e territori, tra Roma e le province esterne, che rischia di essere ulteriormente acuito dalle pesanti riforme istituzionali che hanno determinato la nascita dell’area metropolitana di Roma e la cancellazione delle province

La conferenza programmatica regionale può essere l’occasione per affrontare seriamente questi problemi.

Va data piena centralità ai circoli. Ma con la consapevolezza che essi vanno cambiati, potenziati, forniti di mezzi e poteri di funzionamento superiori agli attuali. In particolare, l’inchiesta deve diventare il centro di una nuova capacità di ascolto e di radicamento dell’iniziativa dei circoli e delle federazioni, oltre che della definizione delle priorità dell’agenda politica, superando una pratica che, al centro come nei territori, spesso privilegia l’autoreferenzialità. La costruzione di relazioni con i movimenti e con le pratiche di conflitto sono elementi decisivi della rifondazione di una nuova idea della politica e del rapporto tra essa, la società e i movimenti. E’ necessaria una nuova trama di relazioni tra centro e territori e di decentramento di funzioni e decisioni. Pensiamo anche ad una nuova relazione tra la funzione dei dipartimenti e coordinamenti nazionali, il lavoro concreto delle federazioni e dei circoli, alla messa in rete e alla circolazione di esperienze territoriali, alla costruzione di campagne, mobilitazioni, vertenze.

Va, inoltre, superata una idea ed una pratica della politica totalizzante che si impone anche per una modalità di funzionamento generalista (fatichiamo a livello regionale a costruire momenti e spazi di approfondimento su problematiche come i rifiuti, le risorse idriche, la sanità ed il rapporto con le strutture “periferiche” finisce per essere improntato soprattutto a discussioni di carattere politico generale). Va favorita, accanto ai circoli territoriali e di luogo di lavoro, la nascita di circoli tematici, di movimento, di pratica della differenza. Vanno incentivate, anche con apposite risorse dedicate, le sperimentazioni di pratiche di mutualismo e di autorganizzazione, sull’esempio di quanto già avviene in realtà come la Villetta, la Cacciarella, Testaccio.

In questo contesto, appare fondamentale ripensare anche il ruolo delle federazioni. Accanto a quella dell’area metropolitana di Roma che dovrà farsi carico di una maggiore integrazione politica tra Roma e i territori della sua provincia, anche per rispondere con maggiore efficacia alle importanti innovazioni istituzionali e alle problematiche urbanistiche e di assetto del territorio (emergenza abitativa, mobilità, rifiuti) che la caratterizzano, va mantenuta la funzione di livello politico di coordinamento e di ricomposizione unitaria, rappresentata dalle altre federazioni provinciali (con un numero minimo di 100 iscritti). Il coordinamento e gli istituzionali regionali devono favorire maggiormente di quanto non sia avvenuto fino ad oggi un processo di integrazione politica tra Roma, la sua area metropolitana e il resto del Lazio, attraverso forme di decentramento organizzativo, messa a disposizione di competenze, risorse materiali ed immateriali, costruzione diretta di iniziativa politica, definizione, insomma, di un livello di direzione politica che corrisponda effettivamente alle esigenze del partito regionale nel suo complesso, provando a superare una impostazione eccessivamente “romacentrica”. Riteniamo sbagliato ridurre il ruolo delle federazioni a semplici coordinamenti territoriali. In questo senso va altresì accantonata l’ipotesi di comporre le assemblee provinciali solo sulla base dei congressi di circolo. Si rischia la frantumazione dell’iniziativa politica, il localismo, il venir meno di una visione di area vasta. Certo anche le federazioni vanno ripensate, dotandole di strumenti adeguati a sviluppare una funzione di direzione politica più fficace, più orizzontale, più in grado valorizzare le pratiche di autorganizzazione sociale e di internità ai conflitti. Utilizzando gli strumenti di comunicazione verrà istituito un database relativo agli atti politicamente più significativi proposti ed approvati nei comuni della Regione, con una sezione apposita sul sito del Regionale, al fine di migliorare la fruibilità e implementare lo scambio di informazioni tra circoli e federazioni. In questo senso sarebbe utile affiancare al tesseramento on-line anche un tesseramento cartaceo, di prossimità. Così da favorire ed implementare l’adesione.

Nello specifico, anche il Coordinamento regionale va ripensato nel suo funzionamento. Ferma restando la rappresentanza territoriale, garantita dalla presenza dei coordinatori di federazione, esso deve assumere maggiormente il carattere di luogo della direzione e della sintesi politica regionale. E’ necessario provare a costruire organismi snelli, pienamente rappresentativi, unitari. Le deleghe di lavoro, verificabili (attraverso report periodici all’Assemblea regionale) vanno assegnate, in via generale, nell’Assemblea stessa (al cui interno costituire Forum tematici aperti), mentre la costruzione di campagne deve diventare la modalità prioritaria di lavoro politico.

Infine, un’attenzione particolare dovrà essere posta al tema delle risorse. Con il venir meno, a breve, del finanziamento pubblico, costruire politiche che ci consentano di stabilizzare ed implementare le entrare diventa questione cruciale e democratica. Accanto alle modalità più tradizionali (tesseramento, cene, feste), vanno sperimentati meccanismi come la raccolta del 2 per mille che devono diventare un pezzo strutturato del nostro finanziamento.

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