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8 min readNov 26, 2014

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Per una politica della vita consapevole, cooperativa e solidale

Parte 1

Partire dalle domande

Chiedersi dove va il mondo, e con esso l’essere umano e la natura, è la più profonda delle domande. Tocca il senso e il destino di questa nostra civiltà, da ogni latitudine la si guardi. Ma per tanta parte della politica odierna, delle sue èlite e classi dirigenti, dell’intero o quasi sistema mediatico che l’asseconda e spesso la condiziona, resta una domanda inattuale. Il suo giro d’orizzonte sul mondo si esaurisce nella contingenza del presente, sempre dentro e nei dintorni del potere come esso è, mai andando più in là, fuori e distante, nel mondo grande e reale e dentro la sua nuova complessità.

Eppure mai come oggi è necessario uno sguardo critico, un pensiero radicale, per intercettare nel profondo le dinamiche così inedite e sconvolgenti della contemporaneità. Perché quel che chiamiamo neoliberismo non ha semplicemente improntato di sé la vita materiale delle persone, elevando la sfera economica a monoteistica religione del nostro quotidiano. Ha fatto molto di più, nel corso del suo incontrastato dominio culturale, scavando giorno dopo giorno dentro le coscienze. Ha piegato e plasmato alla propria suprema finalità, quella del mercato e del profitto, la stessa identità umana, la relazione con l’altro, il rapporto con la natura, operando un mutamento antropologico dell’essere, oggi, uomo, donna, giovane, migrante, vivente, fino a rovesciare ed immiserire il valore delle parole — lavoro, libertà, futuro, sopra tutte le altre — che danno senso alle nostre esistenze.

La politica che abbiamo in mente è quella che si nutre, ad ogni passo che compie, di un proprio autonomo punto di vista, che prepara la propria strategia d’azione a partire da un progetto di cambiamento, che si misura ogni volta con i saperi e le culture critiche, che ritrova sé stessa e il senso del proprio operare dentro il dolore sociale prodotto da questa lunga crisi.

Lo scopo della Conferenza di Programma sta qui, nel bisogno di rompere il guscio paludoso di un modo di fare politica tutto ripiegato nelle sponde intrecciate di emergenze e contingenze, di compatibilità date e intoccabili, di schieramenti che si scompongono e ricompongono dentro lo stesso orizzonte di subalternità al dominio economico prevalente, e per “cercare ancora” una diversa strada da intraprendere.

E il capo di quel filo va dipanato dalle mani di uomini e di donne, dato che segna il corso delle loro vite.

La Conferenza di Programma che proponiamo è diverse cose insieme. Un confronto aperto e plurale, prima di tutto, inclusivo di intelligenze, esperienze, pratiche, soggettività; una ricerca di conoscenza dei mutamenti prima ancora che una proposta precostituita per affrontarli; un ponte da ricostruire tra cultura critica e politica dell’alternativa, tra saperi della complessità ed esperienze reali e vitali; un lessico da riscrivere e da coltivare per dare alle cose il senso che le rende tali. E’ anche un lavoro di ricognizione e di relazione da non chiudere, una volta fatto dopo questo nostro appuntamento, in un cassetto per sentirsi la coscienza a posto e tornare immediatamente dopo a praticare la piccola politica di giornata. Occorre invece tessere il filo che lega dal profondo politica e cultura, ricerca e azione, analisi e proposta. E il capo di quel filo va dipanato dalle mani di uomini e di donne, dato che segna il corso delle loro vite.

Perché se è vero che la crisi che attraversiamo non è soltanto finanziaria, neppure soltanto economica, ma è innanzitutto crisi del pensiero universale, della coscienza planetaria, della qualità delle relazioni tra i soggetti, delle finalità stesse dell’esistere, allora la politica di cui abbiamo bisogno può solo partire da lì: dal Fattore Umano.

“Sono i giovani a scontare il massimo della pena, generazioni intere dominate e a rischio di risultare subalterne.”

Se il mercato si fa mondo e il mondo si fa merce

E’ il fattore umano il più acuto e irrisolto dei problemi del nostro tempo. Lo diventa irrimediabilmente in questo preciso momento storico in cui l’essere umano, nella sua dimensione individuale come in quella sociale, rischia di risultare il vero soggetto perdente dentro la grande trasformazione in corso in ogni parte del pianeta.

Della natura economica e finanziaria della crisi sappiamo ormai tutto. Conosciamo le dinamiche delle cause materiali da cui è scaturita, il retroterra culturale che l’ha preparata e poi alimentata, conosciamo i fallimenti che hanno accompagnato, particolarmente in Europa, le disastrose terapie messe in atto da quelle stesse classi dirigenti dalla cui inettitudine essa è stata originata. Possiamo persino prevedere il contesto storico e geografico entro il quale, ciclicamente, si ripresenterà, una volta che si sia attenuata senza che i meccanismi da cui nasce siano stati modificati alla radice.

Mai l’economia è stata così in auge e popolare, nel dibattito pubblico, come in quest’epoca nella quale essa si è posta al centro di un sistema dove la condizione materiale e morale delle persone scivola via verso un piano inclinato che pare non avere fine. Essa diviene prima arbitro insindacabile dei destini delle nostre vite reali e poi struttura portante dell’unica storia possibile, ci impone di vedere il mondo, il futuro, dal proprio esclusivo orizzonte. Ed è, quello che ci impone, un mondo sempre più ridotto a merce, oramai sua forma assoluta, e da cui scaturiscono assetti presentati come necessari e immutabili, così da rendere inattuale, nel senso comune diffuso, la via del cambiamento e dell’alternativa allo stato di cose presenti.

La stessa libertà del singolo individuo, proclamata idealmente nel suo valore universale dalla cultura liberista, assume viceversa il senso, nel lessico comune e nell’esperienza reale, di libertà esclusiva di possesso e consumo di merce da parte di un soggetto sempre più isolato socialmente, preda di un sistema produttivo determinato nei suoi fini dalla sola sfera economica. L’individuo come persona e soggetto autonomo, decidente di sé, non è già più tale nella società di oggi. Al suo posto egli ritrova un ruolo dentro il quale deve prima o poi rientrare, e il parametro, il valore che lo definisce è ogni volta quello che misura il grado della propria efficienza rispetto a ciò cui è stato da altri assegnato.

Così nell’acquisto compulsivo di beni materiali indotti, negli stili di vita precostituiti e confezionati su misura, il soggetto finisce per “comperare” in definitiva la propria identità, l’ora d’aria del proprio personale successo, e qui trova riflessa la propria immagine di vita, l’unica che gli sia concessa. Occorre disvelare il carattere predominante del potere economico che pervade ormai ogni ambito delle nostre società — fino alla vita intima dei singoli e al loro rapporto con la corporeità — se si vuole costruire una politica che sia dedita al “fattore umano” come scopo della propria azione. Un potere economico, quello cui siamo di fronte, che sempre meno fonda la propria legittimità come scienza “neutra” al servizio dell’individuo e della società e sempre più si afferma invece come la vera e propria ideologia dominante del nostro tempo.

Prendiamo l’insieme delle misure economiche di impianto neoliberista imposte con inesorabile crescente gradualità in questi decenni, ancor prima del precipitare della crisi. Improntate alla filosofia dello Stato minimo, delle privatizzazioni indiscriminate persino dei beni comuni, delle logiche deregolative da cui originano flessibilità e precarietà, della restrizione dei diritti sociali, pur essendosi rivelate le reali responsabili del riemergere nel cuore dell’Europa della disoccupazione di massa e del precipitare dei salari, vengono presentate e giustificate come stato di “necessità” e come perpetua “emergenza” dettata dalla crisi in corso. La progressiva e sistematica distruzione dell’idea stessa di lavoro, del suo valore fondante l’identità del soggetto in quanto tale, nasce di qui, e precipita giorno dopo giorno dentro un vortice dove si cancella la dignità di chi lavora, fino a rinchiuderlo nel recinto di semplice e inanimata merce tra le altre merci.

Cos’è infatti la precarietà, certificata dal biglietto da visita del “contratto a termine”, se non la dura metafora che marca la più mortificante delle separazioni, quella tra il soggetto e il suo diritto esistenziale al futuro come vita che si fa ogni volta progetto di un tempo ed uno spazio proprio, autonomo? E questo soggetto, nella fattispecie dell’unica forma di lavoro a lui concessa come flessibile e precaria, è essenzialmente giovane.

Quel che si sta creando, o forse già si è creato, è allora, proprio a partire dal nodo della precarietà come cuore amaro di questo sistema, un nuovo modello umano per il quale la mancanza del futuro come dimensione di sé è divenuta parte costitutiva della propria storia di vita, biografia intermittente senza più filo conduttore cui mai è concesso uscire dall’agonia del tempo presente. Sono i giovani a scontare il massimo della pena, generazioni intere dominate e a rischio di risultare subalterne. Su di loro si riversano le contraddizioni laceranti dell’attuale sistema di produzione e di consumo, espropriante, dissipativo, eppure costretti a viverlo come esito di un destino da altri segnato e immutabile, cui diventa sempre più difficile opporre una resistenza che rechi in sé la speranza, individuale e collettiva, di un cambiamento possibile all’orizzonte.

Presentando la precarietà come il prodotto “naturale” del tempo che segna la sfera del lavoro e di lì pervade ogni altro rapporto umano, il potere economico proprio mentre espropria i giovani di ogni possibilità di dare un progetto alla propria vita, li proietta verso l’ingannevole mito di una illimitata gioventù, del tutto speculare e funzionale allo stato della loro precarizzazione tanto lavorativa quanto esistenziale. La dimensione politica dei giovani viene oscurata in ogni lato da bisogni indotti e da stili di vita preconfezionati, il cui unico scopo è di allontanarli da una reale coscienza della condizione in cui sono gettati dal predominio di un potere economico che li priva di futuro, di lavoro e dignità.

Se il senso di assuefazione all’esistente, di rassegnazione al sistema stabilmente dato, di crescente insicurezza soggettiva e sociale diventano il segno distintivo del tempo vissuto, si squaderna allora per questa via una triste prospettiva nella quale alla precarizzazione dell’oggi fa riscontro, nella vita dei giovani, la desertificazione del domani e ognuno degli impetuosi mutamenti globali che contrassegnano questa fase storica apparirà immodificabile da una politica dell’azione umana, avvertita come impotente a governarli.

Ecco perché la precarietà va messo al primo posto dell’agenda culturale e nell’azione di una sinistra di governo, come parola da abolire nel lessico di una politica che pone al centro di sé il fattore umano. La precarietà ha avuto fin qui tutto il tempo per dimostrare, senza appello, come essa da forma lavorativa si estenda rapidamente a metro di misura del nostro stesso tempo storico, rendendo eterno il presente e inaridendo l’avvenire, alienando l’individuo, privandolo della libertà di dare un senso autonomo alla propria vita. Il lavoro precario produce un senso di sé, un pensiero di sé e del mondo altrettanto precario, dentro il quale la propria vita resta inchiodata ad un presente senza mai domani.

continua nella Parte 2…

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