Tecnologia e Spiritualità. Il ruolo della tecnica nella riflessione teologica

Qual è il rapporto tra tecnologia e spiritualità? Andrea Vaccaro, docente di filosofia e teologia, esplora i suggestivi quanto sorprendenti parallelismi tra trascendenza religiosa e fenomeno tecnologico.

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TECNOETICA
27 min readNov 4, 2016

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Autore: Andrea Vaccaro

Nella sua opera, La Linea Obliqua: Il ruolo della tecnologia nella riflessione teologica (2015), di cui proponiamo alcuni estratti, il filosofo e teologo Andrea Vaccaro avanza un’interpretazione decisamente ottimista del fenomeno tecnologico, rintracciando in esso una strategia essenziale per la realizzazione del Disegno concepito da Dio sin dalle origini del mondo, e giungendo ad esaminare la “speciale intimità che intercorre tra tecnologia e Spirito Santo”.

1. La tecnologia ‘fa’ miracoli

La Gaudium et spes n. 33 [uno dei principali documenti del Concilio Vaticano II e della Chiesa cattolica, NdR] chiude il primo capoverso, che constata gli esiti più rilevanti dell’attività umana, ottenuti “specialmente con l’aiuto della tecnica”, con una proposizione dalle implicazioni così profonde da lasciare stupiti. Esso recita: “ne deriva che molti beni, che un tempo l’essere umano si aspettava dalle forze superiori, oggi se li procura con la sua iniziativa e con le sue forze”. Alla domanda: “cosa è ‘un bene atteso dalle forze superiori’?” non tutti risponderanno con: “miracolo” (o “grazia” o comunque qualsiasi termine che sia sinonimo di “intervento divino”), ma probabilmente una larga maggioranza accoglierà in questo senso il nucleo della definizione. Quindi sembrerebbe lecito cogliere dal testo l’interpretazione secondo cui molti eventi considerati un tempo alla stregua di miracoli oggi l’essere umano se li procura da solo, anzi con la sola tecnologia. Un altro aspetto della proposizione in esame, tuttavia, osta alla linearità dell’affermazione secondo cui “la tecnologia fa miracoli”. La proposizione infatti parla di beni “che un tempo” l’essere umano considerava doni/concessioni delle forze superiori, per cui si potrebbe obiettare che la tecnologia non fa propriamente miracoli, ma riesce a compiere solo quello che erroneamente in passato appellavano come miracolo. Questa obiezione complica non poco la riflessione e introduce implicazioni anche ambigue. Sembrerebbe innanzitutto opportuno, a questo punto, individuare quali eventi “un tempo” gli esseri umano consideravano “interventi divini” e verificare, alla luce del presente, se tali interventi furono designati propriamente o impropriamente “miracoli”. Può darsi — con alta probabilità — che per “bene atteso dalle forze superiori” possa essere intesa l’acqua un tempo impetrata al cielo dall’agricoltore affinché bagni il campo seminato, e oggi, in vaste aree, ottenuta tramite ingegnosi sistemi d’irrigazione; si può anche pensare alla selvaggina o al banco di pesci che il cacciatore/pescatore implorava alla divinità di porre sul proprio percorso per poter tornare al nucleo familiare con una degna quantità di cibo, una quantità di cibo che invece al presente è offerta in modo talvolta indegnamente esagerato dal supermercato vicino casa. In questi casi, il significato del passo in esame si avvicinerebbe al pungente aforisma del filosofo Bertrand Russell che, approssimativamente, faceva notare come un uomo in mezzo all’oceano su una barca a remi ha molte più ragioni per credere in Dio che non uno su uno splendido yacht.

Come ipotizzato, tuttavia, sembra che il passo della Gaudium et spes possa estendere ampiamente la sua area semantica, fino a comprendere quello che comunemente è detto “miracolo”. Per verificare ciò, nulla sembra più pertinente che andare ad indagare gli interventi divini tradizionali del Vecchio e del Nuovo Testamento. La distinzione tra i due Testamenti è decisamente necessaria perché se gli interventi di Gesù possono essere considerati “beni” in senso assoluto, ovvero universalmente riconoscibili come tali, gli interventi divini del Vecchio Testamento sembrerebbero piuttosto “beni parziali”, ovvero interventi molto benefici per una parte dell’umanità, ma non proprio graditi dal resto. Le cosiddette “piaghe d’Egitto”, con la decima che uccide tutti i primogeniti egiziani (sterminio al cui confronto la “strage degli innocenti” erodiana è opera dilettantesca), sono esempi emblematici di questo tipo di “beni parziali”. Le acque del mar Rosso che si aprono al momento giusto sono un gran bene per chi vi passa in mezzo, asciutto, verso la salvezza, ma non altrettanto devono essere apparse a chi vi ha trovato la morte quando esse si sono strategicamente chiuse. La stessa valutazione è da estendere a tutte le vicende in cui il Dio degli Eserciti combatte al fianco del popolo eletto conducendolo alla vittoria contro altre comunità umane. Sebbene un giudizio malizioso potrebbe ammiccare ad intendere che alcune nazioni riescono ad ottenere oggi gli stessi scopi senza più allearsi alle forze superiori divine, ma solo ricorrendo alle forze superiori bellico-tecnologiche, è forse opportuno lasciare sospesa l’analisi della maggior parte degli interventi divini veterotestamentari e passare agli interventi divini del Vangelo, che si aprono con il concepimento della sterile (Elisabetta) e quello della vergine (Maria) e proseguono con i miracoli di Gesù: guarigioni da vari tipi di malattie, moltiplicazioni degli alimenti per sfamare i poveri, resurrezioni, comandi sulla natura e altro. Molto probabilmente sono le guarigioni e la moltiplicazione delle risorse che più si prestano ad essere associati a quei “molti beni” del nostro testo conciliare. Le tecniche — talvolta proprio le tecnologie — mediche che consentono oggi di guarire da molte malattie che Gesù ha sanato contengono, in loro, qualcosa di miracoloso. Certo, se si dà al termine “miracolo” il significato di intervento divino è implicito che all’essere umano — fintantoché non raggiunge lo stato di divinizzazione — sia precluso l’atto di compiere miracoli. Se, invece, si considera miracoloso l’atto in sé di oltrepassare (disobbedire) le leggi del “regno della materia” come, ad esempio, il guarire da una determinata malattia che la natura relegherebbe a una invalidità permanente o conclamerebbe subito in morte, il moltiplicare il cibo “innaturalmente” (si pensi ai recenti risultati delle ricerche sulla carne sintetica che ricava salsicce, hamburger o bistecche dalle sole cellule muscolari di un animale) o il permettere di generare a persone per natura impossibilitate a farlo, allora, è lecito e consequenziale ritenere che l’essere umano dotato della giusta tecnologia (o addirittura che la tecnologia) può “fare miracoli”. I biblisti stessi insegnano che nella sacra Scrittura ricorre più di un termine riconducibile al concetto di “miracolo”: vi è l’espressione “semeion”, segno, come in Esodo 4, 8 in relazione al potere taumaturgico concesso dal Signore a Mosè (bastone che si trasforma in serpente, mano che diventa affetta da lebbra) e in Matteo 12, 38, allorché gli scribi e i farisei chiedono al Maestro di mostrare loro un segno (e Gesù lo rifiuta, rimandando alla propria resurrezione); v’è il termine “téras”, prodigio, come le piaghe d’Egitto in Esodo 7, 3 e come i portenti dei falsi profeti in Matteo 24, 24; v’è la parola “dinamis”, il più tipico per designare i miracoli di Gesù; v’è “èrgon” tradotto come “opera di Dio”, ad esempio in Giovanni 9, 3; ci sono i “paràdoxa”, le cose incredibili che fanno sgorgare lodi a Dio agli astanti stupiti e timorosi di Luca 5, 26. Su tutti questi casi si potrebbe fare una verifica per appurare se i loro risultati sono alla portata dell’attuale tecnologia, ma tralasciando la puntigliosa e letterale comparazione è forse più utile soffermarsi sullo spirito insito in un’ultima espressione biblica riportabile al significato di “miracolo” che abbiamo separato dal resto. Si tratta di “thaumàsia”, le meraviglie compiute da Gesù, ad esempio in Matteo 21, 15, che provocano gli osanna di lode dei fanciulli e dei puri di cuore e lo sdegno dei gelosi detentori del potere religioso. E’ il significato che più si avvicina all’accezione latina di “miraculum”, dal verbo “mirare”, ammirare, meravigliarsi, stupirsi. Come non associare a quest’ultimo significato il sentimento che deve aver accompagnato i padri conciliari mentre redigevano il loro primo decreto intitolato proprio Inter mirifica. L’apertura ha tutte le sembianze di un inno di lode al Signore per i doni con i quali, si potrebbe dire, continua a “viziare” l’umanità: “Tra le meravigliose invenzioni tecniche che, soprattutto nel nostro tempo, l’ingegno umano è riuscito, con l’aiuto di Dio, a trarre dal creato, la Chiesa accoglie e segue con particolare sollecitudine quelle che più direttamente riguardano le facoltà spirituali dell’essere umano e che hanno offerto nuove possibilità di comunicare, con massima facilità, ogni sorta di notizia, idee, insegnamenti”. Si capisce bene che la recente espressione di Francesco vescovo di Roma: “internet è un dono di Dio”, non è uno slogan estemporaneo di captatio benevolentiae per i giovani d’oggi, ma solo l’adeguamento linguistico di un principio che innerva profondamente il pensiero della Chiesa. “Mirabili” e “meravigliose” chiamava per tre volte le invenzioni tecniche già Pio XII nell’enciclica Miranda Prorsus del 1957; “mirabolante”, “meraviglioso”, “prodigio”, “mirabile” sono le espressioni che erompono dallo stupore di Paolo VI nella citata visita al Centro di automazione di Gallarate, dinanzi ad un innovativo (preistorico, per i nostri tempi) cervello elettronico che facilitava lo studio dei testi di san Tommaso; “meravigliosi” appellava ancora il concilio Vaticano II “gli sviluppi della tecnica”, nella dichiarazione Gravissimum educationis. “Meravigliose” ripeteva in più e più occasioni Giovanni Paolo II mentre “strabilianti” (Caritas in Veritate n. 69) definisce Benedetto XVI le applicazioni del progresso tecnologico. San Tommaso, nella Summa Theologiae [1], rintracciava nei miracoli due ingredienti essenziali: la capacità di eccedere le facoltà della Natura e la manifestazione di qualcosa di soprannaturale. Il primo ingrediente non fa alcuna difficoltà alla tecnologia; qualora si riesca a percepire in essa un’essenza divina, allora anche il secondo esame sarebbe superato in bellezza.

2. La tecnologia prefigura ed anticipa il regno

La Costituzione pastorale Gaudium et spes n. 39 e l’enciclica di Giovanni Paolo II Sollicitudo rei socialis n. 47 rendono lecito — anche se non lo enunciano completamente — il titoletto di questa ottava azione teologica della tecnologia. Nei due testi si ripete lo stesso schema argomentativo. Si pone come soggetto della riflessione un’area concettualmente piuttosto ampia che ruota intorno a espressioni quali “progresso terreno”, “realizzazioni umane” o “lavoro”, in cui si può riconoscere, come denominatore comune, l’apporto insostituibile della tecnologia. Una volta determinato il soggetto in questa attività tecno-umana, ci si premura di prevenire un’affrettata induzione basata su ciò che si intende dire circa questo soggetto. E’ degno di nota il fatto che, in entrambi i testi, prima sia sottolineato ciò che “non” si deve concludere, e solo dopo si stenda ciò che effettivamente si vuol dire. L’aspetto per così dire cautelativo consiste nell’avvisare il lettore che l’attività tecno-umana “non si identifica”, ovvero è accuratamente da “distinguere” dal regno di Dio. Una volta precisato questo, i due testi possono finalmente asserire che tale attività tecno-umana “è di grande importanza per il regno di Dio”, addirittura essa “già riesce ad offrire una certa prefigurazione, che adombra il mondo nuovo” e, infine, con le parole di Giovanni Paolo II, essa può “rifletterne ed anticiparne la gloria”. Un tentativo di interpretazione di questi significativi testi è già stato saggiato nel capitolo relativo al Magistero della chiesa. Adesso, in fase conclusiva, si è tentati di sciogliere maggiormente la vela e di lasciarsi spingere dal vento forte che soffia dall’immagine delle prefigurazioni escatologiche insite nelle realizzazioni tecno-umane.

La navigazione è decisamente audace anche perché, nei nostri tempi, la teologia è diventata estremamente riservata e prudente riguardo alle realtà escatologiche. Il paradiso ed il regno di Dio hanno ispirato tesori di opere da parte di tutte le arti, come Jean Delumeau ha esposto nella sua splendida trilogia sul tema [2], in maniera magistrale, ma anche, ovviamente, infinitesimale. Anche gli stessi Padri o i Dottori della Chiesa o autori cristiani meno noti hanno generosamente tratteggiato tali realtà, per quanto la sacra Scrittura e la Tradizione permettevano loro di attingere. Assaliti dalle curiosità dei fedeli o candidati-fedeli circa le realtà ultime, essi si imponevano di non lasciar domanda senza risposta, forti di un’impareggiabile conoscenza scritturistica e, laddove neppure questa bastava, sopperivano con un ispirato sensus fidei. Ci sono così rimasti repertori di descrizioni escatologiche la cui lettura lascia un misto di candida ingenuità e di fascino non consumato. Ne sono esempi il libro XXI de La Città di Dio di sant’Agostino, il libro IV dei Dialoghi di Gregorio Magno, il libro IV della Summa contro i Gentili di san Tommaso, con i passi “paralleli” nell’altra più famosa Summa e i capitoli che vanno dal CLV al CLXX del Compendio di teologia. E addirittura opere totalmente dedicate alla tematica, minuziose, delicate, trasudanti spiritualità — vere perle di storia della teologia — come il Prognosticon futuri saeculi di Giuliano Toletano del VII secolo [3]. Queste “descrizioni” escatologiche pre-figuranti sono, come si suol dire, solo ombre rispetto alle realtà del regno, ombre terrene di realtà celesti. Ebbene, adesso sul contorno di tali ombre è come se la tecnologia, sulla base di una singolare “ingegneria riflessa”, stesse progettando i suoi imminenti artefatti. La corrispondenza tra gli slanci escatologici degli autori cristiani di molti secoli fa e i progetti dell’attuale tecnologia avanzata ha qualcosa di stupefacente. Una delle principali caratteristiche dei corpi risorti sarà il “sapere tutto”: sarà a disposizione, scrive Agostino, “la scienza di tutte le cose, perché si potrà attingere alla fonte del sapere[4]; Bruno d’Asti, collegandosi ad Apocalisse 8, 1, spiega: “Aperto il settimo sigillo è fatto silenzio in Cielo perché non sarà più necessario parlare l’un l’altro: tutti, infatti, sapranno tutto[5]; Cassiodoro, nel De anima, entra nel dettaglio, specificando che sarà acquisito senza studio il contenuto di ogni disciplina, “quanto è grande il numero, la discrezione delle linee, l’armonia della musica, il moto degli astri”, ecc. [6] Aldilà delle specifiche nozioni disciplinari, i beati avranno un’altra prerogativa conoscitiva, infatti, come aggiunge Agostino, “anche i nostri pensieri si apriranno scambievolmente”. [7] Ora, perseguendo il parallelismo teo-tecnologico, sostenere che internet ci mette a disposizione il deposito conoscitivo di tutte le discipline è, al momento, indebito, ma forse non è disdicevole sostenere che, nella linea ideale tra il punto di partenza rappresentato dalla conoscenza della maggioranza delle persone dei primi secoli cristiani e il punto di arrivo di avere nozionisticamente tutto lo scibile a disposizione, probabilmente internet ci colloca tendenzialmente a metà percorso. Un percorso che si fa idealmente in discesa con gli ingenti e proficui studi sul collegamento wireless cervello-computer e con quelli — rispondenti al corollario di Agostino — del variamente denominato settore del mind reading, thought identification o neural decoding (John Dylan-Haynes, Jack Gallant, Gerwin Schalk …), che mirano, in breve, a decifrare ciò a cui una persona sta pensando analizzando, mediante il computer, le aree del cervello attivo. [8] L’attiguo esperimento, in cui eccelle Henrik Ehrsson dell’Istituto Karolinska di Stoccolma, del cosiddetto “scambio dell’io” — tramite particolari dispositivi visivi e tattili in cui soggetti diversi si scambiano reciprocamente le percezioni cerebrali del sé fisico — rinvia invece alla domanda del discente curioso dell’Elucidarium di Onorio d’Autun: “I beati possono dunque fare quello che vogliono. E se io volessi essere simile all’apostolo Pietro?”, a cui il maestro spiega: “Essere simile a Pietro sì, essere lui stesso no”. [9] Lo stesso maestro dell’Elucidarium spiega al discepolo che il santo in paradiso si realizza come un dio e in quanto tale è “tanto onnipotente da poter creare un nuovo mondo” (non lo farà comunque perché il bene che sta provando è talmente perfetto che neppure immaginabile è il poterlo migliorare). [10] La casistica parallela è corposa: il programmatore Tom Pittman, in Deus ex Machina, confessa che, in certi momenti cruciali del suo lavoro/passione: “io che sono cristiano sento di potermi avvicinare a quel tipo di soddisfazione che poteva aver sentito Dio quando creò il mondo[11], e così ratifica il rapporto dell’antropologo Stefan Helmreich che, visitando i laboratori di Vita artificiale dell’Istituto di Santa Fe, apprese che per i programmatori di “Tierra” “descriversi come una specie di dio è strategia frequente e un ricercatore mi chiese esplicitamente di ‘pensare teologicamente per un momento’”. [12] Gli esempi abbondano. Aubrey de Grey, il paladino della “guerra all’invecchiamento”, pronostica un imminente futuro in cui il ringiovanimento cellulare potrà mantenere gli esseri umani in una perenne giovinezza [13]e i maggiori esperti del paradiso, compreso san Tommaso, si dicono convinti che l’età dei corpi risorti sarà al vertice della parabola delle energie vitali, intorno ai trentatré anni insomma. Pier Damiani, nell’Opusculum quinquagesimum, prevede che “tutti gli elementi obbediranno interamente alla felicissima volontà dei santi[14]e Eric Drexler, pioniere della nanotecnologia, assicura che, intervenendo a livello atomico, possiamo trasformare tutti gli elementi: trasmutare il vile in prezioso e il malato in sano. [15] Agostino aggiunge che potremo essere presenti a chiunque altro appena lo volessimo [16] e, in maniera virtuale, questo è già largamente raggiunto. Gregorio Nisseno, ripetendo soltanto la sacra Scrittura, insegna che colà saremo “tutti uno”, [17] e la creatura planetaria ha già mostrato di avere acceso i motori. Il corpo spirituale stesso è sempre stato difficile da immaginare, ma da quando esistono gli ologrammi, lo è un pochino di meno …

Dove conduce tutto questo? Almeno a due conclusioni.

La prima concerne la fonte ideale da cui i fantasmagorici progetti tecnologici traggono la loro scaturigine. La questione richiama alla memoria le osservazioni che Henry de Lubac esternava circa la sicurezza ostentata dai marxisti di un futuro di giustizia, pace e benessere generale. In Alla ricerca di un uomo nuovo domandava: “In quale libro eterno i marxisti hanno letto quel senso della storia che essi stabiliscono con tanta sicurezza? … Dove hanno preso l’idea del termine verso il quale, secondo loro, si incammina infallibilmente la storia? Come sanno che, in quell’ultimo stato, l’uomo avrà finalmente i mezzi per risolvere tutti i problemi umani, la cui soluzione adesso è impossibile: i problemi della felicità, della conoscenza, dell’amore e della morte? … In verità, l’esperienza non ci mostra niente di simile”. [18] Karl Lowith, con Significato e fine della storia, indirettamente offriva la risposta: “la moderna filosofia della storia trae origine dalla fede biblica in un compimento futuro e finisce con la secolarizzazione del suo modello escatologico”. [19] E Jacques Maritain, in Per una filosofia della storia, da parte sua, notava che la ragione umana, basandosi solo sull’esperienza, non ha la possibilità di lanciarsi oltre la sfera del senso ultimo della storia. Per fare questo, la ragione deve allargarsi fino a comprendere l’esperienza religiosa. [20] Ebbene, queste considerazioni magistrali sono mutuabili dinanzi al potente tecno-ottimismo di molti ricercatori. A prescindere dall’attuabilità di queste “promesse”, dalla valutazione etica e da quant’altro, la prima conclusione intende sottolineare che chiunque proclami un’imminente era di benessere, se non di perfezione, a qualsiasi filosofia dica di appartenere, per qualsiasi fine, interesse, utopia si stia adoperando, sta calcando (prendendo in prestito, sviluppando) un’idea originariamente cristiana. Di un paradiso precedente, tipo Isole felici o Età aurea, in molti hanno parlato anche fuori dal coro giudaico-cristiano, ma di un paradiso finale sono i cristiani ad avere i diritti d’autore.

La seconda conclusione ripete invece uno schema concettuale già proposto. L’aver collocato nel mezzo — tra l’ombra delle prefigurazioni cristiane d’epoca patristica e la realtà del regno — le realizzazioni tecnologiche (attuali o potenziali) non intende insinuare il messaggio che le realizzazioni tecnologiche, presto o tardi, edificheranno il regno (manca peraltro totalmente, in quest’ordine di discorso, la dimensione essenziale dell’amore). Intende piuttosto solo notare che alcuni segnavia indicano che la direzione è giusta per andare millimetricamente, ma degnamente, incontro al regno che viene. Insomma, conclusione delle conclusioni, si può dire con sicurezza che la condizione terrena che la tecnologia riuscirà a realizzare non si identifica con il regno, ma è pure certo che essa è di grande importanza per il regno stesso, tantoché in certi aspetti riesce addirittura ad offrirne una certa prefigurazione, ad adombrarlo e a rifletterne ed anticiparne la gloria.

3. La speciale intimità della tecnologia con lo Spirito Santo.

Questo decimo titoletto non designa propriamente un’azione teologica della tecnologia: esso riguarda l’essere, anziché l’agire, della tecnologia. Questo decimo titoletto, concentrato sull’essenza della tecnologia, costituisce anche la conclusione effettiva, o l’approdo maggiore raggiunto dalla presente opera di navigazione alla ricerca di una teologia della tecnologia.

Due venti, due tipi, per così dire, di spirazione hanno donato la spinta iniziale alla ricerca: una spirazione di natura filosofica ed una di carattere teologico. La riflessione filosofica del Novecento e oltre ha avuto nella questione tecnologica il suo tema dominante. Lo abbiamo appurato con l’autorevolezza sintetica di Vattimo, ma chiunque altro l’avesse esplicitato non avrebbe errato. Il tema dominante della filosofia contemporanea è dunque la questione della tecnologia, così come il tema dominante della filosofia antica era la questione dell’Essere e quello della filosofia medievale era la questione di Dio. Essere, Dio, Tecnologia: aldilà dei termini, ciò che la filosofia di ogni tempo ricerca è sempre lo stesso. La raffigurazione più comune a cui sono addivenuti i filosofi novecenteschi e oltre propone la tecnologia come una potenza superiore alla volontà umana, capace di guidare la Storia al di là delle stesse intenzionalità umane e anche in grado, a seconda delle congiunture, di concedere all’umanità la massima perfezione o di condurla sull’orlo del baratro, mettendo a repentaglio la sua stessa sopravvivenza. Una potenza abissalmente attraente e intimorente: proprio le due caratteristiche che Galimberti attribuisce al Sacro. La tecnologia, però, non ha preso il posto della divinità sacra di una volta, come pensa Galimberti; essa è piuttosto la forma in cui, al presente, la divinità dà mostra di sé. Ovviamente non è il singolo strumento tecnologico — un tablet o un iPhone — a rappresentare l’epifania sacra, ma è la tecnologia come essenza che apre spiragli alla trascendenza: la tecnologia come forza che — con le selci scheggiate, il fuoco, la ruota e tutto quello che è seguito — ha trascinato l’essere umano fuori dallo stato di minorità naturale e lo ha reso capace di soggiogare la materia; la tecnologia come utopia che trasforma lo straziante lamento del “bisognerebbe che l’impossibile fosse” nella convinzione fiduciosa che l’impossibile sarà; la tecnologia come “la forma più potente della volontà”, che tutte le ideologie sopravvissute della contemporaneità, come rileva Severino, cercano di asservire ai propri scopi, solo per scoprire che essa, con un rovesciamento dialettico tanto amato da Hegel (ma anche dal Vangelo), da serva è divenuta signora; la tecnologia come maestoso affresco che induce a pensare da dove siamo partiti come umanità e fino a dove arriveremo, lasciandoci attoniti dinanzi al senso della Storia individuale e collettiva, con il sostegno della sincera annotazione wittgensteiniana secondo cui “pregare è pensare al senso della vita”. [21] E’ questa essenza della tecnologia che rimanda, oggi, alla dimensione del Sacro. La filosofia contemporanea ha dunque constatato ampiamente la presenza nella nostra vita di questa potenza tecnologica superiore, autonoma, illimitata, che impaurisce e attrae, che permea di sé la vita umana e la stessa persona, che ha ormai preso le redini della storia, che trasforma con una velocità esponenziale la scena di questo mondo. La filosofia contemporanea ha ciò appurato spesso con sconforto, con apprensione, con cupo e irreversibile pessimismo, talvolta, però, ad esempio con Kurzweil e Kelly, anche con una buona dose di fiducia, speranza e positività. Da più di un secolo, insomma, la filosofia pone al centro della propria analisi la tecnologia: ne ha studiato le espressioni, gli effetti, gli aspetti morali, economici, psicologici, ma non ne ha tuttavia individuato la più intima identità. La tecnologia, per la filosofia, è rimasta un enorme punto interrogativo al centro della storia, che copre con la sua ombra tutto il reale, ma che non intende rivelare la sua essenza. Fino a qui ci ha condotto il vento filosofico.

Da qui sono sopraggiunte le “folate” teologiche. Da una parte sottolineando il fondamentale ruolo dello Spirito Santo nella guida della Storia; dall’altro rimarcando le variegate funzioni che la tecnologia svolge all’interno del Disegno divino.

Per il primo aspetto, sotto il nome di Spirito Santo, o quello di Provvidenza, non vi sono mai stati dubbi per il cristianesimo che Dio conservi la guida (nonché la sussistenza) della storia umana o, altrimenti detto, che sia ancora impegnato nell’opera di Creazione, impresa che vedrà la sua compiutezza quando, con il libero contributo dell’essere umano, sarà raggiunta la perfezione. Nella liturgia di Pentecoste, si recita: “Lo Spirito del Signore ha riempito l’Universo”. Quando Michael Schmaus, in I novissimi del mondo e della chiesa sostiene che dal giorno di Pentecoste “lo Spirito Santo, lo spirito dell’amore, della vita e della gioia, agisce per la trasformazione della Terra”; quando sottolinea che “lo Spirito Santo sospinge in varie maniere verso questa nuova forma di esistenza, prima di crearla nella sua forma finale”; quando precisa che “noi possiamo dire che tutti i tentativi ragionevoli di dare una forma al mondo, dalla trasformazione della materia in cibo umano, fino alle più sublimi opere d’arte stanno in qualche modo sotto l’influsso trasformatore dello Spirito Santo”, [22] l’idea che la tecnologia — non ancora rivelatasi nella sua fulgida potenza negli anni Sessanta — divenga la forma per eccellenza con cui lo Spirito agisce per la trasformazione della materia e sospinge l’agire umano verso il Fine Ultimo è molto vicina dall’essere afferrata.

Per il secondo aspetto, ovvero per le funzioni della tecnologia nel Disegno divino, il Magistero della Chiesa ha offerto una quantità di riconoscimenti in certa misura inaspettata.

Sul solo piano umano, è stato riconosciuto innanzitutto che la tecnologia risponde perfettamente alla missione divina di soggiogare la Terra, quindi consente all’umanità di rendersi libera collaboratrice dell’opera di creazione, nonché di realizzare, tramite tale attività, i caratteri di somiglianza con Dio. Oltre ciò si è elencato pure un’ulteriore serie non certo secondaria di benefici che la tecnologia apporta agli esseri umani: essa ci consente di realizzare la nostra umanità, ci alleggerisce dalle fatiche, ci regala tempo libero e, in esso, ci concede di dedicarci a ciò che effettivamente vale, ci stimola a porre le domande fondamentali del senso e, non certo come ultimo in ordine di valore, ci rende maggiormente liberi e, potendo esercitare un maggior grado di libertà, aumenta di conseguenza la nostra dignità di persone. Oltre a questo innegabile pacco-dono di valori, la tecnologia eleva anche l’essere umano fino al piano del compiere miracoli, o meglio fino al piano del compiere quello che un tempo era considerato “miracolo”: in certi casi riesce a far camminare gli storpi, a far generare le sterili, a far scomparire molte malattie e ad allontanare la morte, a moltiplicare le risorse laddove la natura è parca nel concedere…

Dal piano umano al piano cosmico, il Magistero ha sottolineato anche il potere di trasformazione proprio della tecnologia. Oltre ad umanizzare la condizione di vita degli esseri umani, la tecnologia contribuisce pure ad umanizzare il creato intero. Ed è già stato rimarcato nel corso della riflessione come nel concetto di “umanizzazione” sia analiticamente implicito quello di “divinizzazione”, essendo l’essere umano fatto a immagine e somiglianza di Dio. Affinché l’opera di trasformazione sia efficace è necessario, però, che non si fermi ad un livello esteriore ed accidentale, piuttosto penetri nell’intimità dell’ente da trasformare, in siffatto modo da comprenderne l’ordine e le dinamiche profonde. Asserendo che la tecnologia è capace di trasformare il mondo si sostiene così anche che essa sia in grado di attestarne la logica, ovvero di accertarne il Logos, nel quale, per il quale e in vista del quale tutto è stato creato. Ciò significa che essa certifica in maniera perentoria il meraviglioso ordine che contraddistingue il cosmo e la proporzionale grandezza del suo Autore. La tecnologia inoltre non si limita a riconoscere il “codice spirituale” che “fa girare” la materia, per calcare la metafora informatica, ma si adopera anche per velocizzarlo, potenziando la tensione e il progresso verso lo spirituale di tutto il creato. Informazione è sinonimo di immaterialità, e nel dualismo filosofico tradizionale al polo “materiale” si contrappone quello “spirituale”. Velocizzare il processo di spiritualizzazione del reale, detto in terminologia teologica, significa “affrettare il regno”.

In tal modo, dopo il piano umano e quello cosmico, la riflessione conduce linearmente verso la terza “funzione” che svolge la tecnologia nel Disegno divino, ovvero il suo ruolo escatologico. A questa componente è stato dedicato l’ampio titoletto n. 8.

Giunti sin qui, individuare quell’identità essenziale della tecnologia che la filosofia ha così lungamente ricercato per il cristiano non dovrebbe essere compito improbo. Ora, questo intimo legame tra tecnologia e Spirito Santo si può raccontare tramite una triplice gradualità.

Il primo piano della narrazione non comporta alcuna difficoltà. In esso si raffigura una tecnologia che è innervata, ispirata e fortificata dallo Spirito Santo. Non presenta difficoltà teologica alcuna in quanto il suo concetto, in varie forme e in vari luoghi, è sostenuto apertamente dal Magistero. La speciale intimità tra tecnologia e Spirito si esprime, qui, nel senso che la prima è suscitata, purificata, elevata dal Secondo. Queste, pur diversamente articolate, sono le parole scelte dal Concilio Vaticano II.

Per ascendere al gradino superiore è necessario cominciare ad azzardare qualcosa, sfidando non tanto la concettualità di fondo, quanto le abitudini ed i tipi con cui la Tradizione ci ha cresciuto. Riprendendo la metafora precedente, qui i venti filosofici e teologici hanno cessato di spirare, e occorre mettere mano ai remi. L’immagine che faticosamente si profila è quella di una tecnologia che assume la forma di nuovo simbolo dello Spirito Santo. La tecnologia non è solo mossa e assistita dallo Spirito; essa ne costituisce propriamente un simbolo. La rappresentazione diventa di non poco facilitata se al posto di tecnologia si pone il concetto che, al presente, ne costituisce il nucleo e l’anima: l’informazione. Il passo non è gravoso dato che la nostra epoca è ormai già codificata come l’era delle tecnologie dell’informazione. Agile, eterea, immateriale, rarefatta, senza limiti spaziali e immortale, l’informazione ha tutti i requisiti, come e più degli altri segni, per simboleggiare lo Spirito. L’informazione è anche la modalità d’espressione del software, il codice e motore segreto che misteriosamente fa obbedire la componente materiale. L’informazione è anche la diretta discendente di quel concetto di “forma” che per Aristotele costituiva la sostanza per eccellenza e per Tommaso d’Aquino, come anima, presiedeva alle operazioni del corpo (anima forma corporis). E l’informazione è anche il messaggero per eccellenza che raggiunge chiunque ovunque esso sia, non dimenticando che un tempo era immediata l’associazione tra il messaggero e l’angelo. Quale contenuto assume il messaggio che il nuovo simbolo dello Spirito dovrebbe veicolare? Il principio fondamentale consiste nell’avvertire che tutto va de-materializzandosi: l’atomo è già diventato energia e informazione e il corpo umano, non persistendo molecolarmente, è studiato sempre più come un pattern, e la sua biologia come effetto di un codice (genetico). L’essenza della tecnologia e l’informazione come simboli dello Spirito Santo ci dicono che lo spirituale ci viene incontro.

Partendo dalla visione della tecnologia come suscitata e sostenuta dallo Spirito Santo (primo piano) e attraversata l’immagine della tecnologia come simbolo dello Spirito Santo (secondo piano) si lascia intravedere anche un terzo scenario (o piano). Per affacciarsi su esso occorre molta audacia ed anche una buona dose di imprudenza. Da qui si vede, per farla breve, la tecnologia come un’incarnazione dello Spirito Santo. Lasciandoci al momento dell’Elevazione al Cielo, il Figlio ha assicurato, tra di noi, la presenza dello Spirito fino alla fine dei tempi, per aiutarci, sostenerci, spingerci oltre. Ebbene, lo Spirito Santo ha ottime ragioni per abitare l’essenza della tecnologia.

La prima ragione sta nel concetto di “strumentalità”. La principale associazione che sorge per il termine “tecnologia” è quella di “mezzo” o “strumento”. Prima che computer e missile interspaziale, la tecnologia è ascia, ruota, carro. La tecnologia, sin dalle origini, è lo spirito della strumentalità: essa è ciò che serve ovvero è al servizio, ciò che si rende utile (utensile), ciò che senza mai pretendere rimane a disposizione (dispositivo) per i nostri bisogni. La tecnologia è strumento e mezzo per eccellenza. Mezzo per quale fine? Le finalità sono davvero tante, quasi quanti sono i verbi del vocabolario di ogni lingua. Pur essendo le finalità così estese, esse hanno il vantaggio di confluire in un’unica meta che tutte le accoglie e le eleva: trascendere l’attuale nostro stato in vista di una condizione migliore. La meta definitiva di questa trascendenza è il regno di Dio. E allora, se la tecnologia porta in modo tanto intimo il suo desiderio di infinito, come non riconoscere in essa l’incarnazione dello Spirito Santo? Non solo di desiderio di trascendenza infatti si parla, ma anche e soprattutto di mezzo e di strumento tramite cui oltrepassare l’attuale insoddisfacente condizione (per la questione continuità/discontinuità fra questo mondo e quello futuro, v. il par. 6. 1). Dio si è fatto essere umano affinché l’essere umano si faccia Dio; lo Spirito Santo si fa tecnologia affinché grazie alla tecnologia l’essere umano oltrepassi, limitatamente a certe dimensioni, la propria condizione umana. Dio è il Servo sofferente in una delle immagini più struggenti della Scrittura; la tecnologia è per essenza “serva”, “strumento” e per questo in essa si può riconoscere il tratto divino. Il cristiano ha il compito di farsi servo degli altri (compito così difficile da praticare); la tecnologia “è” il servo per natura.

Seconda ragione per immaginare la tecnologia come un’incarnazione dello Spirito Santo: tramite la tecnologia l’essere umano pratica quella “creatività”, o meglio “partecipazione alla creazione” che il Creatore gli ha richiesto con la missione di “soggiogare la Terra”. Un tipo creativo si può definire anche un soggetto con una fantasia fervida che trasforma, con la sola immaginazione (o le sole parole), la realtà. La creatività a cui ci chiama il Creatore, tuttavia, è effettiva, concreta, oggettiva. E purtroppo con i soli arti naturali difficilmente la nostra creatività avrebbe un’efficacia ragguardevole nel mondo circostante. Per ottemperare a questa vocazione c’è bisogno di un medium che, nella sua generalità, risponde al nome di tecnologia. Dunque la tecnologia è ciò che ci permette di collaborare all’atto divino della creazione. Rivoltando i termini, tuttavia, alla domanda su cosa sia ciò che ci permette di partecipare all’atto divino non è difficile rispondere: lo Spirito Santo. E così, per un altro verso, tecnologia e Spirito Santo coincidono.

La terza ragione ha a che vedere con la volontà. E’ Severino a sottolineare, in modalità totalmente insospettabile, che la tecnologia è la forma più potente della volontà, e la volontà — continua il filosofo — è essenzialmente volontà che le cose divengano altro. La volontà dunque come massima spinta per trasformare il mondo, perché questi cieli e questa terra divengano altri cieli e altra terra. E la tecnologia è la forma più potente di questa volontà. E’ difficile, però, non riconoscere che il vero soggetto che spinge la storia verso l’autentico cambiamento è una forza trascendente che si chiama Provvidenza, o anche Spirito Santo. Lo Spirito Santo è la volontà di trasformare il mondo e la tecnologia di questa volontà è la massima espressione. La concatenazione tra Spirito Santo e volontà ha un altro padre illustre. Molto tempo prima e con afflato esplicitamente teologico sant’Agostino tratteggiava analogicamente le Persone della santissima Trinità come le tre componenti essenziali dell’essere umano: se il Padre stava per la memoria e il Figlio per l’intelligenza, lo Spirito Santo, guarda caso, era rappresentato dalla volontà. Come potrebbe, tuttavia, la pura volontà attuare la sua missione trasformatrice, o meglio la sua concretizzazione, senza l’apporto della tecnologia? Ovvero: come potrebbe agire lo Spirito Santo per far sì che l’essere umano partecipi all’atto creativo senza incarnarsi nella tecnologia?

La quarta mediazione per l’idea della tecnologia come un’incarnazione dello Spirito Santo è offerta dall’intreccio tecnica-libertà-Spirito. Lo Spirito soffia dove vuole: per operare liberamente lo Spirito non ha bisogno di alcunché. Per far sì che anche l’essere umano operi liberamente, invece, lo Spirito Santo ha bisogno di qualcosa di molto concreto: la tecnica, appunto. La libertà è l’elemento più essenziale dell’essere umano (insieme all’amore), ma per poter agire liberamente, occorrono campi d’azione ove poter estrinsecare tale suddetta libertà. Cole-Turner, provocatoriamente, dice che con le nuove strumentazioni bio-tecnologiche Dio ha più modi per realizzare la sua spinta creativa. E’ una provocazione, appunto. Il senso intenzionato vuole indicare che l’essere umano ha più modalità per estrinsecare la sua partecipazione all’atto creativo divino. Ha anche più possibilità per mettersi di traverso a tale atto creativo, ovviamente. Insomma, l’essere umano ha più possibilità per esercitare la propria libertà. Ecco allora che tra tecnologia e libertà vige un intimissimo legame, quasi che la seconda non potesse avere uno statuto reale senza la prima. La libertà si incarna nella tecnologia. La componente spirituale dell’essere umano — quell’elemento che gli permette di agire liberamente e che altro non è se non lo Spirito che Dio insuffla in Adamo — si incarna dunque nella tecnologia.

Quinto: la tecnologia dell’informazione, in pochi anni, ha permesso una crescita a dismisura della comunicazione interpersonale e, più in generale, delle relazioni umane. A differenza dei beni materiali, che nella suddivisione diminuiscono, le informazioni e la comunicazione si accrescono distribuendosi a più persone. Come tutti gli altri beni spirituali. L’immagine della rete intorno alla Terra, che talvolta è usata per rappresentare il livello di connessione cosmica di tutti con tutti, è il manifesto del livello di potenziale relazione/comunicazione dell’umanità di oggi. Anche lo Spirito Santo è, trinitariamente, la Persona della relazione, dell’unione e della comunicazione. Lo Spirito Santo che si incarna nella tecnologia potrebbe anche avere, iconograficamente, la forma di questa rete che avvolge, collega e unisce l’umanità ovunque dislocata.

Infine, l’intuizione tanto usata della filosofia della tecnologia novecentesca: la tecnica come potenza che guida la Storia, a prescindere dai singoli indirizzi che, alla Storia stessa, i potenti della Terra (ma anche quelli meno potenti) vorrebbero imporre. Quasi tutti i filosofi in questione, al di là del chiamarla “tecnologia”, lasciano nell’anonimato l’identità essenziale di questa potenza e quasi tutti la temono, perché sembra essere sfuggita dalle mani dell’umanità. La teologia della tecnologia, invece, riconosce tale essenza — lo Spirito Santo che guida la Storia — e non la teme affatto, anzi non desidera altro che ci conduca con solerzia al porto sicuro.

I vari aspetti della tecnologia come pura strumentalità e servizio, come realizzazione della creatività umana, come volontà di trasformare terra e cieli consueti in terra e cieli nuovi, come libertà in atto, come madre feconda di comunicazione, come sommessa, ma potente guida della Storia inducono a vedere in essa un’incarnazione dello Spirito.

Una tale conclusione è oltremodo inusuale e azzardata, anche se le ragioni per sostenerla — come abbiamo tentato di esporre — non mancano. Dalle altezze di questo terzo piano, l’orizzonte è molto ampio e il panorama attraente: l’esposizione della fede riassapora quel qualcosa di inaudito e anche di eccitante che doveva caratterizzarla in origine.

A tutti coloro che non trovassero, però, tali ragioni sufficientemente cogenti o le ritenessero comprensibilmente fuori misura, ricordiamo la prima premessa posta ad apertura del libro e la “filosofia” delle sfilate di moda: si tratta solo di soggetti accentuati, finanche eccessivi, che non devono essere presi alla lettera, ma solo nello spirito della tendenza.

NOTE:

  1. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q. 178, a. 1, ad 3.
  2. J. DELUMEAU, Une histoire du paradis. Le jardin des délices, Fayard, Paris, 1992; tr. it., Storia del paradiso. Il giardino delle delizie, Il Mulino, Bologna, 1994; ID., Mille ans de bonheur, Fayard, Paris, 1995; ID., Que rest-t-il du paradisis?, Fayard, Paris, 2000; tr. it., Quel che resta del paradiso, Mondadori, Torino, 2000.
  3. GIULIANO TOLETANO, Prognosticon futuri saeculi, PL 96, 453–524.
  4. AGOSTINO, De civitate dei, XXI, 21, PL 41, 792.
  5. BRUNO D’ASTI, Expositio in Apocalypsim, L. II, c. VIII, PL 165, 644.
  6. CASSIODORO, De anima, c. XII, PL 70, 1303.
  7. AGOSTINO, De civitate dei, XXI, 29, 6, PL 41, 801.
  8. Cf. A. VACCARO, “Quando il pc riesce a leggere nella mente”, in Avvenire, rubrica “L’Antipinocchio”, 8. 7.2010, 29.
  9. ONORIO D’AUTUN, Elucidarium, L. III, 17 “De operatione et gaudio beatorum”, PL 171, 1169.
  10. ONORIO D’AUTUN, Elucidarium, L. III, 17, PL 171, 1169.
  11. T. PITTMAN, cit. in P. HIMANEN, L’etica hacker, 108.
  12. S. HELMREICH, “The Word for World Is Computer”, in M. NORTON WISE (ed.), Growing explanations, Duke University Press, Duhram and London, 2004, 284.
  13. A. DE GREY, Ending Aging: The Rejuvenation Breakthroughs that Could Reverse Human Aging in Our Lifetime, St. Martin’s Press, New York, 2007.
  14. PIER DAMIANI, Opusculum quinquagesimum, c. XV, PL 145, 750.
  15. K. E. DREXLER, Engines of Creation. The Coming Era of Nanotechnology, Anchor Book, New York, 1986.
  16. AGOSTINO, De civitate dei, XXI, 30, 1, PL 41, 801.
  17. GREGORIO DI NISSA, Homiliae in Canticum canticorum, homelia IX, PG 44, 954.
  18. H. DE LUBAC, Affrontements mystiques, Témoignage chrétien, Paris, 1950; tr. it., Alla ricerca dell’uomo nuovo, Borla, Torino, 1964, 64s.
  19. K. LÖWITH, Meaning in History. The Theological Implications of the Philosophy of History, University Chicago Press, Chicago, 1949; Significato e fine della storia, Comunità, Milano, 1963, 24.
  20. J. MARITAIN, Pour une philosophie de l’histoire, Seuil, Paris, 1959; tr. it., Per una filosofia della storia, Morcelliana, Brescia, 1967, in partic. 33ss.
  21. L. WITTGENSTEIN, Tagebücher 1914–1916, in ID., Werkausgabe, Band I, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1960; tr. it., Quaderni 1914–1916, in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914–1916, annotazione datata 11.6.1916, Einaudi, Torino, 1968, 173.
  22. M. SCHMAUS, Katolische Dogmatik, IV/2, Von der letzen Dingen, Max Hueber, München, 1959; tr. it., I novissimi del mondo e della chiesa, Paoline, Alba, 1969, 379.

Andrea Vaccaro, docente all’Istituto di Scienze Religiose Galantini di Firenze, è vicedirettore della Scuola di Teologia della diocesi di Pistoia. Collaboratore di Avvenire, Rassegna di teologia, Vita e pensiero, Quaderni di semantica e Sapienza, con EDB ha pubblicato Perchè rinunziare all’anima? La questione dell’anima nella filosofia della mente e nella teologia (2002) e L’ultimo esorcismo. Filosofie dell’immortalità terrena (2009). Tra le sue pubblicazioni piu’ recenti: Bit Bang. La nascita della filosofia digitale, con Giuseppe O. Longo (2013) e La Linea Obliqua: Il ruolo della tecnologia nella riflessione teologica (2015).

Tutti i testi sono stati pubblicati con l’esplicito consenso dell’autore.

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