Un designer non dovrebbe mai smettere di imparare

Bob Noorda, due metropolitane, un font e il dono della sintesi che rende un designer un vero progettista

Davide Giovanni Steccanella
I Diari del Digitale
5 min readFeb 19, 2018

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“Lights in the windows of an office building in Moscow” by Mike Kononov on Unsplash

Ho spesso avuto molta difficoltà a spiegare a persone che non sono del settore cosa significhi «fare design» — ma addirittura anche agli stessi designer.

Le idee sono molte, spesso confuse e mescolate a idee e convinzioni personali.

Il design ha sempre avuto il sapore della sintesi in tutta la mia esperienza lavorativa e il designer è la figura professionale che esprime quel nodo di sintesi.

La sintesi è utile e quantomeno necessaria in una realtà dove vengono prodotti terabyte su terabyte di dati e dove discipline di ogni tipo fioriscono assieme a nuovi strumenti e tecnologie avanzate.

Il designer si occupa del progetto e il progettista, per definizione, ha una visione generale di ogni passaggio del processo.

Se progettassimo una casa senza, però, aver studiato la composizione del suolo, il risultato finale non sarebbe ottimale e potrebbe diventare addirittura rischioso.

Il design è sintesi

Un designer non è solo «quello che fa le cose belle», ma è colui che ha la capacità di prendere elementi da campi di diverso genere, da quello creativo a quello più tecnico, per poi plasmare un prodotto, un servizio o una realtà.

Fare solo copia-incolla di un layout di un poster non è fare design, secondo me, proprio per l’intrinseca natura meccanica del gesto.

Essere sintesi vuol dire raccogliere dati da input, rielaborali secondo pattern, richieste, vincoli e aspettative, per poi produrre un risultato che risponde a un bisogno o a un problema, magari elicitandone altri, ed è funzionale e produttivo.

Un esempio pratico può venire da Achille Castiglioni, che produceva i suoi prodotti conoscendo le più avanzate tecnologie in ambito di polimeri e leghe metalliche, nonché di lavorazione delle stesse.

Una sua lampada non partiva solo da un vezzo artistico, ma integrava in un solo prodotto una linea estetica, un processo produttivo industriale, una conoscenza dei materiali, una funzionalità e un obiettivo di business.

Ancora più illuminante è la storia di come Bob Noorda sia arrivato a progettare il sistema di segnaletica della Metropolitana di Milano, che unisce conoscenze di ottica e architettura a tipografia e semiotica.

Studi di ottica per la metropolitana di Milano

Il dono che ha fatto Noorda al mondo delle metropolitane costruite dagli anni ’60 in poi è immenso (il font di quella di New York l’ha progettata lui e se vedete i nomi delle stazioni su strisce che percorrono le pareti delle metro lo dovete a questo olandese italiano) ed è frutto della sintesi.

Per fare ciò, il designer deve sempre imparare.

E per imparare bisogna provare disagio.

L’apprendimento rende un designer tale

L’apprendimento è un meccanismo molto potente messo in atto dal nostro cervello: i neuroni sono plastici e capaci di creare connessioni nuove, modificare quelle vecchie e cancellarne altre.

Per apprendere in modo duraturo, però, ci vuole tempo e dedizione. Nuove skills e nuove conoscenze nascono e si consolidano se vengono applicate, rielaborate e riflettute.

E per fare ciò ci vuole motivazione.

La motivazione è sembra una bestia mitica, sembra che tutti sappiano cosa sia ma nessuno l’ha mai vista, specialmente al lavoro.

La motivazione è qualcosa di semplice però: la capacità di individuare obiettivi e perseguirli fino a quando non sono stati ottenuti.

E per mettersi obiettivi capaci di spronarci a raggiungerli, bisogna che quegli obiettivi abbiamo un valore particolare, che sia di ricompensa, emotivo o altro.

Una grande fonte di motivazione è il disagio.

Il disagio nasce, a esempio, quando facciamo un passo fuori dalle nostre zone di comfort. Un designer che non ha mai sviluppato e mai toccato il codice per implementare i suoi lavori si trova in un a comfort zone.

Quando viene costretto, per un motivo o per un altro, a programmare e scrivere i suoi componenti, esce dal comfort e inizia a provare disagio.

Nel disagio, parte il meccanismo cerebrale di riduzione della sensazione di minaccia: millenni di evoluzione ci hanno donato questo salva-vita collegato strettamente a tutto il nostro sistema nervoso.

Per ridurre il disagio si mettono in atto strategie di vario tipo — perché siano virtuose, però, non bisogna farsi spaventare o demotivare.

Il disagio è un utile alleato, soprattutto se ci si lascia alle spalle quella convinzione che ci trasciniamo dietro dalla scuola elementare che se non si è bravi in tutto si è solo un branco di deficienti.

Il «perfettinismo» è solo nocivo

La perfezione e il «so-tutto-io-allora-sono-meglio-di-te» funzionano solo fino alla terza media: nel mondo del lavoro, ma non solo, è una mentalità sciocca che crea due tipi di personalità dannosi — il vanesio, e l’insicuro impaurito.

Il disagio, come lo stress, sono alleati perchè la loro funzione primaria è farci sopravvivere.

Un buon motivo per rendere tale il discomfort è riflettere da dove venga. Per fare ciò, è anche necessaria una buona dose di umiltà da parte del designer — l’umiltà è essenziale per capire che è perfettamente naturale non eccellere in ogni campo e soprattutto che non vuol dire essere peggiori ammettere le proprie lacune.

Capire la fonte del disagio, infatti, permette di farlo sparire.

Il designer che mai aveva toccato il codice che ho citato sopra sono io.

La fonte del disagio è sparita proprio quando ho cominciato a imparare i linguaggi e a mettere in pratica le conoscenze, senza paura di essere giudicato, senza sentirmi da meno e senza il terrore di sbagliare.

Per tale motivo, quando si avverte disagio in terreni nuovi nel proprio lavoro, la strategia migliore per crescere e diventare sempre più un designer capace di sintesi è proprio rimanere in quel disagio e capirlo.

Perché un designer che non cresce e non impara smette di essere un designer.

Pic by Anastasia Petrova on Unsplash

TL;DR
Il designer è tale perchè capace di fare sintesi tra numerose discipline e creare un prodotto che usi con virtù il meglio di quelle discipline a favore dell’utilizzatore finale — per fare ciò, il designer non dovrebbe rinchiudersi nella sua bolla di comfort ma esplorare gli universi al di fuori, anche quelli più lontani dalla sua professione e dal suo ecosistema.

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