Battere il vecchio Paolo a Ciapa no

Nicola Maria Fioni
I Nuovi Giunti
Published in
4 min readApr 5, 2020

C’è una cosa che non ho mai capito dell’estero e delle grandi città: la gente non vuole mai giocare a carte.

Anzi, vi dirò di più, la gente a carte non ci sa giocare.

Ok va bene forse sono stato un po’ troppo tranchant. Non si può infatti discutere che ci siano milanesi fortissimi al tavolo da poker o newyorkesi che non abbiano sbarcato il lunario contando a blackjack. Però sapete cosa? È fin troppo facile, quasi mainstream, giocare con le carte francesi e sentirsi un grandeur stile Casino Royale.

Zach Galifianakis nel ruolo di Alan Garner, Una notte da leoni, 2009

Per chi viene da posti in cui si cresce a pane e salame, le carte sono un’altra cosa. A Cremona, nella mia città natale, e in tutta la bassa Lombardia che a un certo punto diventa Emilia, giocare a carte è un modus operandi, uno stile di vita.

Si tratta di un patrimonio ereditario, che ti porti nel sangue o molto più semplicemente che ti viene insegnato quando ancora non sai contare fino a venti e vai in bicicletta con le rotelle: se a tre anni tutti i canadesi sanno pattinare sul ghiaccio, a Cremona se non sai giocar a briscola entro il primo giorno di elementari rischi di essere per sempre considerato un emarginato.

Avete ragione: forse sto esagerando.

Dopotutto non mi è mai capitato di sentire qualcuno dire: “Hai calato un tre di prima mano, non puoi essere mio amico”, ma poco ci manca. In ogni caso, avrete capito che giocare a carte, in questo angolo di mondo, è una faccenda seria: si potrebbe dire che da noi le carte sono lo sport “nazionale”.
È infatti quell’attività che accomuna tutti i membri di qualsiasi circolo sportivo, in particolare dei canottieri sul Po: no matter età, ideali o status quo.
Non importa che tu sia un giovane vogatore dal fisico scolpito o uno di quegli anziani col cappellino che calcola al millimetro i punti delle bocce, o nemmeno che tu abbia quindici o ottant’anni: almeno una volta al giorno, durante l’afa estiva, ti ritroverai all’ombra delle fronde di un ippocastano a cercar frescura e mischiare un mazzo di carte.

Facciamo un passo indietro: giusto in caso qualcuno di voi fosse, senza offesa, un novellino, è meglio appuntarvi una lista di pochissime ma essenziali regole da sapere:
— il mazzo è rigorosamente uno: si gioca con le piacentine, vietato sgarrare;
— i semi sono quattro: ori (altri li chiamano denari), coppe, spade e bastoni (o bacchi, se si vuol fare uno di quelli sgamati);
— ognuno di questi semi ha un asso (c’è chi addirittura lo chiama asse), una carta dalle fattezze diverse dalle altre, la più forte del seme, rappresentata da un animale o un oggetto ormai diventati mitologici, come l’asso di ori detto pita o poiana o piccione, un grande volatile insomma, il coppone, l’angelone di spade e il baccone, quello che quando lo cali al tavolo qualcuno sentirà male, se stai giocando a Ciapa no;
— numero di giochi, giocatori e varianti? Infiniti.

I 4 assi

Ma torniamo a noi, perché in tempi di quarantena uno dovrebbe parlare di partite a carte? Soprattutto se di fronde di ippocastani non se ne vede neanche l’ombra?

Ogni giorno di reclusione mi trovo a combattere due nemici tipici della mia generazione, acuiti da questa situazione: la noia e la dipendenza dal digitale.
Ho provato a fare una lista delle cose che faccio senza l’ausilio di un device elettronico: sono talmente poche che francamente me ne vergogno, anche perché quando mangio la televisione è comunque accesa, mentre faccio workout ascolto la musica o qualche podcast, e, anche se leggo qualche pagina di un romanzo, sono molte di più le parole sui social network.

Poi l’epifania: un angelo mi è apparso, sotto la forma dell’asso di spade. Era proprio lì su una mensola che sussurrava: “Giochiamo?”.

E così ho chiesto alla mia mamma e al mio papà la stessa cosa con la stessa intonazione che avevo sentito nella mia testa. Poco dopo, seduto al tavolo, mi sono ritrovato bambino a tirare di briscola, rubamazzo e tressette.
Questa scena si è ripetuta più o meno ogni giorno da quando siamo qua.
È un bel momento in cui i telefoni sono posati, gli schermi sono spenti e la testa si concentra solo sulle carte, come sotto le fronde degli ippocastani.

Provate voi a battere il vecchio Paolo a Ciapa No!

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