Gli occhi della fruttivendola

Nicola Maria Fioni
I Nuovi Giunti
Published in
4 min readMay 6, 2020
Photo by 🇨🇭 Claudio Schwarz | @purzlbaum on Unsplash

Sono un animale sociale.

In particolare adoro fraternizzare con i commercianti e i ristoratori delle vie in cui abito. Era successo a Milano dove mi bastava dire: «Terzo piano, scala a destra» e il kebabbaro Tolka avrebbe soddisfatto i bisogni alimentari dei tre di Bligny 50, così come a Uppsala dal vecchio Zidan di Johannes Grill, autore di una pizza coi finferli in mio onore.

Io che imbocco Zidan di Johannes Grill
Io che imbocco Zidan di Johannes Grill

Lo sanno bene anche nei pressi di via Vanchiglia a Torino.

Adoro scambiare quattro chiacchiere con gli esercenti che mi offrono un pasto o un servizio, che si tratti del piadinaro Ivo, che mi ha più volte offerto in dote le sue figlie, oppure di Carlo, il ciclista che mi monta un sellino diverso a settimana. Più che per farci quattro chiacchiere, mi pare quasi di adottarli come psicologi con cui riflettere sui massimi sistemi o, viceversa, di essere per loro l’amico che li ascolta e li rincuora in seguito al break up con un partner.

Questa sorta di rapporto di fiducia, che si instaura a colpi di sorrisi e battute, diventa per me quasi indissolubile.

Ad esempio sono rimasto fedele anche al bangla Aladin, nonostante l’apertura di un suo concorrente dai prezzi stracciati sul lato opposto della strada. Sarà forse perché mi regala una Lupo Alberto ogni volta che gli compro 8 euro di schifezze? Non lo so, credo sia anche perché ogni volta che passo in dolce compagnia di fianco al suo store mi sorride come se fra le coperte del divano-letto di casa mia ci fosse un po’ anche lui.

Tuttavia al momento non metto piede a Torino dal 3 marzo, e nell’angusto appartamento di Via Vanchiglia probabilmente non ci tornerò più, se non per liberarlo dalla marea di cianfrusaglie di cui è disseminato.
Così mi ritrovo a Cremona, costretto a non uscire di casa, con la impellente domanda: come faccio con le mie amicizie commerciali?

Non penso di essere uscito più di cinque volte dall’inizio della quarantena.
Una volta ho portato le medicine e la colomba pasquale a mia nonna. Un’altra ho riconosciuto alla cassa del supermercato il mio vecchio compagno di catechismo Alessandro: non mi sono azzardato a uno sproloquio pomposo e mi sono limitato alla battutina di circostanza condita da un «Come stai?», e in risposta mi sono meritato il più classico dei: «Dio son passati così tanti anni che quasi non ti riconoscevo». E nulla di più.

C’è solo un luogo in particolare che ho frequentato più di una volta in questa quarantena: l’ortofrutta.

Indosso la mascherina, mi metto l’amuchina in tasca, metto su le scarpe rigorosamente riposte nell’angolo destro dell’atrio ed esco. La mia autocertificazione recita: vado a comprare le scorte di frutta della settimana.
Scendo le scale e mi ritrovo in quella che nei temi delle elementari descrivevo come la via ciottolosa. Svolto un paio di volte a destra e mi ritrovo sulla via parallela alla mia, una delle arterie più importanti della città.

Si tratta di Corso Garibaldi, famoso in tempi ormai non più così recenti per le strisce blu il cui manto era stato ritinteggiato in onore del fiume Po. Non dico che il corso sia completamente deserto, tutt'altro, ma è come avvolto da un senso di timore degli altri e rispetto delle distanze che ti impone di scansarti alla vista di un altro essere umano manco fosse un proiettile di Matrix.

Cammino qualcosa come duecento metri nella direzione opposta al centro e arrivo a destinazione. In un gesto quasi meccanico dico: «Buongiorno! Tre cipolle bianche». La signora le pesa e le ripone in un sacchetto. Poi: «Tre gambi di sedano». Ripete il gesto. E ancora: «Due cesti di fragole, quattro/cinque zucchine belle dure». Ogni volta che devo richiedere un ortaggio differente cerco di dare delle sfumature pseudopoetiche per non sembrare un automa. Provo a imitare nei gesti il più possibile mia mamma, che quando ero bambino mi portava molte volte alla bottega della Fio e della Rossi, le mie zie.

«Anche un casco di cinque/sei banane, ma belle indietro neh, ancora un po’ vèrdi!».

Però le interazioni sociali adesso sono al minimo, non si può mica troppo scherzare con il virus. Così lei è bardata con una mascherina e i guanti, vestita tutta di nero: ricorda vagamente una donna con l’hijab. Mi porge i due sacchetti verdoni della spesa: «Ecco fatto!».

Però so che mi sorride con gli occhi, vedo anche le guance sotto quell’impalcatura contrarsi. Alla fine la gente un po’ dev’essere felice.

«Grazie mille! Ecco, sarà stupido ma mi dispiace essere sembrato freddo e un po’ antipatico, giuro che normalmente sono il più caciarone di tutti. Arrivederci». O forse l’ho solo pensato.

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