Sempre Lucio lo stesso

Sara Di Cerbo
I Nuovi Giunti
Published in
6 min readApr 9, 2020

Io sono un’ipocondriaca con problemi di ansia.

Questo significa che, quando il 21 di febbraio hanno annunciato i primi malati confermati di Codogno, non solo sono scesa dalla metropolitana con il batticuore cercando di ricordare che cosa avessi toccato e lo stato di salute di tutte le persone che avevo incontrato, ma mi sono anche chiusa in casa ripromettendomi di non uscire mai più. E francamente fino ad ora ho mantenuto la promessa.

Non lavoro e le lezioni in presenza sono state sospese già dalla settimana seguente, inoltre non sono una persona con particolare sete di socialità e a casa mia, devo dire, ci sto abbastanza bene, e con un computer davanti riesco ad assolvere la maggior parte dei miei doveri.

Però degli amici ce li ho e da allora ho cercato di compensare la mancanza con videochiamate, conference call, Risiko online e chi più ne ha più ne metta.

Ho anche una relazione a distanza, e lui vive in una di quelle zone che sembravano fuori pericolo, in principio quanto meno, per cui, per le prime settimane in cui la zona a rischio era concentrata qui al nord, ho rinunciato a vederlo, gli ho impedito per ben due volte di salire su un treno e venire quassù e ho lasciato che la razionalità soffocasse il mio animo emotivo, perché sapevo che era giusto così, nonostante mi mancasse come l’aria.

Sono stata attenta. Sempre.

Per motivi di sopravvivenza mia nonna e mio zio, che fa parte di quella categoria di immunodepressi di cui si è sentito tanto parlare, si sono trasferiti a casa nostra, perché si sa: l’unione fa la forza. Per cui, da quando la Zona Rossa ha conquistato tutta Italia, io mi sono trasformata in una paranoica tendente al nazismo che ha chiuso completamente quei pochi rapporti umani che le erano rimasti, in preda al senso di responsabilità per la salute della famiglia. Una pazza insomma.

Mi sono ritrovata a rimproverare mia madre perché aveva invitato ospiti a cena, a disinfettare la busta delle patatine, a lavarmi le mani ogni volta che toccavo un sacchetto della spesa. Ma come la Morte Nera insegna (quella di Star Wars intendo, non la peste), alla fine una falla nel sistema spunta sempre. Basta un attimo, un momento, un unico fugace punto debole e l’imbattibile macchina da guerra si trasforma in uno spettacolo pirotecnico.

Questa sera quel mio zio immunodepresso ha preteso per l’ennesima volta che ordinassimo pizza d’asporto, nonostante io per l’ennesima volta abbia espresso tutto il mio disaccordo e disappunto. Ma si sa, in certi casi non è facile dire di no, e io di fare la pazza paranoide nazista che tutti disprezzano mi sono un po’ stancata, e così ho abbassato la guardia: grave errore.

Il fatto è che io abito in un piccolo paesino di campagna dove ci conosciamo tutti e tutti ci si vuole bene, soprattutto in un momento in cui i rapporti umani sono una merce così rara. Così quando è arrivato il mio caro amico Lucio a portare le pizze semplicemente non ho pensato. Non ho pensato al fatto che lui potesse essere un portatore, non ho pensato che come è venuto qui sarà andato in altre case e avrà visto altre persone. Non ho pensato alla possibilità del rischio. Ho pensato semplicemente che era Lucio, il mio amico che mi portava le pizze, quello che mi scarrozzava a scuola quando non avevo la patente, quello con cui andavo a bere una birra le sere d’estate al solito pub. Era sempre Lucio, lo stesso. E così gli sono corsa incontro, gli ho presentato la mia collega in conference call e l’ho salutato con quei due baci di cortesia così normali qui in Italia, tanto normali che neanche lui ci ha fatto caso e mi ha sorriso tranquillo come se fosse un normale sabato sera di un normale aprile.

Poi il mio sguardo è caduto sulla mascherina che portava appesa al collo, ho notato i guanti in lattice azzurro, e la realtà è apparsa all’unisono nei nostri occhi: avevamo fatto una cazzata.

«Non dovevamo farlo», gli ho detto con il computer in mano. «No» mi ha sorriso semplicemente lui, perché tanto ormai il danno era fatto, l’uovo rotto e il latte versato. Abbiamo ripristinato subito le distanze di sicurezza, mi ha consegnato le pizze, l’ho pagato e l’ho salutato con la manina mentre riprendeva di fretta il mio vialetto pronto per le altre varie consegne in programma. Una volta chiusa la porta ho preso il flaconcino dell’Amuchina e l’ho spremuta generosamente sul palmo della mia mano, senza più badare alla quantità e alla parsimonia. Me la sono spalmata sulle mani, sulla faccia, sulle labbra e sul naso, cercando di sniffarne anche un po’ se possibile. E poi ho abbandonato nel vuoto il mio sguardo.

Un attimo, un fugace attimo di distrazione.

Per quanti di noi un semplice attimo di distrazione ha cambiato la vita in questo periodo? Quelle azioni sociali assolutamente normali sono uscite fuori dal nostro controllo e si sono trasformate rapidamente in potenziali pericolosissimi atti di contagio colposo. E io continuo a perdere il mio sguardo nel vuoto, a chiedermi se davvero possa bastare così poco, se fra due settimane vedrò la vita mia e della mia famiglia trasformarsi irrimediabilmente per un semplice atto umano, per quel momento in cui ho abbassato la guardia, proprio io che avevo rinunciato a così tanto e mi ero trasformata in quella maniaca tanto temuta tra le mura domestiche.

Ho sbagliato. Eppure è stato così tremendamente normale, così tremendamente piacevole. Sono 43 giorni che ho dimenticato la mia normalità, 43 giorni in cui ho bevuto caffè e ipocondria a colazione, 43 giorni di rinunce e pagine di libri, videoconferenze e Serie Tv. 43 giorni di attenzioni mandati in fumo dal piacere di un saluto normale, trasformatisi in un pericolo prima ancora di averlo potuto apprezzare.

Quando tutto questo sarà finito, saranno proprio quei rapporti normali a cambiare per primi? Saranno quei gesti spontanei a vedersi trasformarsi alla radice? Inventeremo forse un nuovo tipo di saluto: così come siamo passati dal saluto legionario alla stretta di mano, passeremo al saluto a braccia tese, aperte davanti a noi, come un lontano abbraccio a segno di fiduciaria distanza di un metro almeno?

Oppure saremo un po’ tutti come me stasera, e alla fine si abbasserà la guardia e lasceremo che la normalità rientri nelle nostre vite a prescindere dal rischio che corriamo?

Io non sono una persona particolarmente fisica, o almeno non mi sono mai ritenuta tale: non sono tipa da affettuosità esagerate, e non sopporto le persone invadenti che ti parlano a dieci centimetri dalla faccia, quindi non pensavo che qualcosa come un saluto, un abbraccio o un bacio sulla guancia mi sarebbero potuti mancare così tanto. Eppure è bastato un saluto stasera, un piccolo errore per mostrarmi quanto la normalità sia tanto bella da rapirci, fregandosene di tutti i muri che abbiamo costruito negli ultimi 43 giorni.

“I’m not the jedi I should be”

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Sara Di Cerbo
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Studentessa della @ScuolaHolden e del Master in progettazione, comunicazione del turismo culturale @UNITO. Appassionata di parole, pensieri e storie.