So Long Francesco

Matteo Di Venere
I Nuovi Giunti
Published in
6 min readMay 6, 2020

Prima o poi la caduta sarebbe arrivata. Era inevitabile.

Tutti cadiamo: in questo almeno gli esseri umani sono tutti uguali. Quello che cambia è il modo in cui ci rialziamo. C’è chi butta giù un paio di amari, chi si ammazza di flessioni, chi cerca vendetta sulle storie di Instagram e chi ascolta le canzoni tristi perché, come dice Elton John, Sad Songs (Say So Much).

Era da un paio di settimane che sentivo le fondamenta tremare. Era questione di giorni. Tra la noia da quarantena, l’assenza degli amici e l’incapacità di trovare il giusto congiunto, quello che davvero mi ha mandato giù a picco è stata la mancata elaborazione di un lutto.

Mio nonno è morto il 20 febbraio. Sua moglie un anno e quattordici giorni prima. La prima perdita è stata la cosa peggiore che mi sia capitata. Lì, però, per elaborare il lutto non ho aspettato un minuto. Dopo i funerali, ho subito ricominciato la mia quotidianità: lezioni, momenti incredibilmente creativi, aperitivi che finiscono in sbronze e lacrime notturne al negroni. Stavo male, ma avevo la mia vita. Con mio nonno questo non è stato possibile: scuola e bar chiusi, creatività aggredita dal virus e amici troppo lontani.

All'inizio pensavo che il lockdown mi avrebbe salvato.

Niente sbronze, nessuna compassione da parte degli amici e tanto tempo a disposizione per rimettermi in sesto. In realtà, ho vissuto la fase uno con una positività che in altri momenti avrei raggiunto soltanto davanti ad un alcoltest. Ho aspettato la fase due per crollare. Senza esitazioni, ho tentato subito la ripresa. Bevo un paio di whiskey quando tutti vanno a dormire. La mattina ho i sensi di colpa e faccio le flessioni. Ascolto in loop quelle dieci canzoni tristi. Non chiedo vendetta su Instagram, perché quei quattro stronzi che mi seguono non lo meritano.

Al posto dei social, il mio Oki nella cocaina si chiama Ricky Gervais.

Ricky mi fa ridere per ore. Il suo cinismo mi ha sempre salvato. Così, nei momenti difficili faccio affidamento su di lui. L’ho fatto la mattina del funerale di mia nonna. Lo faccio adesso, quando capisco che sto fissando il muro con la bocca aperta, mentre spingo con la lingua l’arcata inferiore dei denti. Amo il suo accento e adoro quella sua risata sgangherata. Sono invaghito di lui, lo ammetto. In alcuni aspetti siamo simili. Sarà per le t-shirt XL nere, per la continua guerra con il sovrappeso o per le guance che quando sorridiamo ci coprono completamente gli occhi. La verità è che dopo un paio di bicchieri faccio le sue stesse battutacce.

Mi rivedo anche in Tony, il personaggio che interpreta in After Life.

Gervais è un cronista di un quotidiano locale che, dopo la perdita della moglie, si difende a colpi di sarcasmo, detestando la vita e chiunque lo circondi. Tony è la mia peggiore proiezione futura a livello lavorativo, sociale e sentimentale. Potrei finire tranquillamente in un giornale locale, in sovrappeso con una t-shirt nera XL. Già mi vedo, davanti al capo che mi consiglia di bere meno, così che io possa godermi le cose che più mi piacciono, mentre replico “Certo, ma bere è la cosa che mi piace di più”.

Nella seconda stagione, Tony perde il padre. Come mio nonno, anche il suo era in una casa di cura. Quella di mio nonno si chiama Villa Eden, quella del padre di Tony Autumnal Leaves Care Home. Chi inventa i nomi delle case di cura? È difficile pensare ad un nome accomodante per un luogo dove entri zoppicando, dopo una settimana passi sulla sedia a rotelle ed esci di lì soltanto da steso su una barella o direttamente nella bara.

C’è poesia in una foglia autunnale.

Nell’Eden c’è solo attesa: quella di sapere che fine farai. Entrambi, sia mio nonno sia suo padre, soffrivano di Alzheimer. Come Tony, passavo la maggior parte del tempo a guardarlo e a prenderlo in giro. È una malattia ridicola. Non puoi non ridere con un malato di Alzheimer. Sia io che Tony abbiamo scoperto la loro morte al telefono. Mio nonno non ha mai dato fastidio a nessuno. Per mezz'ora siamo andati via e lui ci ha lasciato.

Quel posto mi resterà attaccato sulla pelle.

Penso tutti i giorni ai poveri anziani che non hanno ricevuto visite per tutto questo tempo. Penso a lui. Sarei impazzito all’idea di immaginarlo solo, nel suo silenzioso delirio. Rifletto su Silvio, il tipo più arzillo e su due gambe della struttura. Non ha nessuno. Non sapeva neanche perché si trovasse lì. Vive dei parenti degli altri. Un rompiscatole incredibile. Ha continuato a rompere anche quando provavo a vestire mio nonno per il funerale. Penso alla signora che cantava al posto di parlare, a quella che usava solo le vocali e alla fotografa femminista che si ritrovava in un mondo di donne dedite alla casa e al cattolicesimo. Mi manca lanciare di nascosto mio nonno dalle discese della casa di cura. Quanto rideva. Chissà se qualcuno passa di nascosto una sigaretta al signore con il cappello di Valentino Rossi. Penso agli infermieri e agli OS. Non avrei mai immaginato di lasciare nelle loro mani la sua vita. La maggior parte veniva con me alle elementari. Volevano fare i militari da piccoli, mica perdere la testa dietro ai vecchi.

Durante il funerale, Tony fa un discorso semplice quanto adatto per suo padre. Quello su mio nonno sarebbe stato simile. Sarà che quella generazione poco abbiente, nata durante la guerra, era semplice. Mio nonno era buono, silenzioso e dolcissimo con me.

È stato un padre a tutti gli effetti.

Mi ha aspettato al cancello di scuola per anni, mi ha portato ovunque e mi ha sempre capito, anche quando i miei, molto più arguti e colti, non riuscivano a guardare tra le fessure della mia arroganza adolescenziale. È stato lui a dirmi di andare via dalla provincia, ed era sempre lui ad aspettarmi dietro la finestra ad ogni mio ritorno. Mio nonno aveva la terza elementare, era il quarto di dodici fratelli e viveva in un trullo. Si è fatto da solo, come tanti in quel periodo. Aveva la sua cooperativa, il suo camion e le sue bombole del gas. Riusciva a sollevare quattro bombole contemporaneamente. Si è ammazzato di lavoro senza sapere che stava costruendo una Nazione.

Qualche anno fa, ho fatto il mio primo tatuaggio. È sul gomito ed è abbastanza grande. C’è scritto: So Long Bobby. In quel periodo, avevano diagnosticato la malattia a mio nonno e stavo leggendo uno dei miei libri preferiti: Il Romanzo della Nazione di Maurizio Maggiani. Lo scrittore ad un certo punto si ferma su una foto del 1968 dove delle contadine afroamericane mantengono un lenzuolo con la scritta So Long Bobby. La fotografia fu scattata dal treno speciale che aveva portato in giro per gli Stati Uniti la bara con il corpo di Bob Kennedy. Maggiani, come me, resta affascinato da quella foto. Pensa al funerale di suo padre, anche lui finito in una casa di cura e rincretinito di lavoro. Ricorda quel giorno e la mancata celebrazione di un uomo che, come Bobby, aveva lavorato una vita per costruire una nazione che doveva ancora trovare la sua essenza. Sapevo che a mio nonno sarebbe toccata la stessa fine del padre di Maggiani. Così per celebrarlo in solitudine e per sempre, mi sono tatuato quella scritta.

Per me, mio nonno meritava più di duecento o trecento persone. Solo per me, probabilmente, ma meritava altro. Meritava più dolore.

Ora, in questi giorni difficili, guardo il tatuaggio e mi sento stupido. A mio nonno è andata bene. Penso ai miei coetanei che hanno perso i nonni in questi mesi. Lui ha avuto una celebrazione degna, tante persone e aveva me. Se fosse accaduto una settimana dopo non ci sarei stato. Non l’avrei più visto da vivo. Nessun abbraccio per un’ultima volta, nessuna celebrazione. Quel tatuaggio brucerebbe ancora.

So Long Francesco

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