Cartoline dal mio viaggio — di Luisa Presicce

domitilla.pirro
I racconti del SÉno
8 min readJul 22, 2016

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Illustrazione di Luisa Presicce

Lei doveva iniziare la chemio e per festeggiare il risultato dell’esame istologico, non proprio positivo ma buono, Salvatore volle portarla a vedere l’oceano. Quindi a Lisbona, in Portogallo, a mangiare zapateira e marisco, granchi grossi come il piatto e frutti di mare mai visti prima per non pensare ai dubbi, alle cure future.

Anni dopo, dimenticato il tumore e tutto il resto, avevano deciso di sposarsi, lasciando sconcertata la figlia quindicenne. Mica un matrimonio normale: al consolato di Casablanca. E per festeggiare cena marocchina all’Hotel Continental di Tangeri con cous cous e pollo al limone, insieme agli amici e alle sorelle che li avevano seguiti. La decisione era stata presa prima, ma lo scambio delle fedi comprate nel souk di Casablanca e la cena sulla terrazza di fronte all’Europa succedevano dopo il secondo intervento e prima della seconda radioterapia a Perugia.

Un giorno, in ospedale, dopo la mastectomia bilaterale che questa volta doveva sancire la fine di ogni paura e ogni ulteriore rischio — era il terzo intervento — , un giovane ricercatore era entrato nella sua stanza, aveva mandato via tutti e dopo un po’ di discorsi sull’infanzia e sulla fragilità aveva cominciato a parlare di alimentazione. Finalmente: nell’arco dei dieci anni precedenti nessuno le aveva mai menzionato comportamenti positivi o negativi. Questo ragazzo in camice, invece, parlava del fatto che le proteine animali non sono proprio indicate nell’evoluzione dei tumori e che in tante ricerche quest’influenza è venuta fuori. Punto.

Le vennero in mente tutti i pranzi e le cene della sua amica Roberta, vegetariana da molti anni: finora le aveva vissute come rinunce e privazioni. Non era stata mai sfiorata dall’idea di prestare attenzione a cibi nocivi: scegliere le cose più strane, i sapori più insoliti, i miscugli più impensabili — questo era il suo modo di mangiare. All’estero, poi, diventava una missione: si doveva assaggiare tutto quello che non era nella tradizione italiana. Senza minimamente preoccuparsi della ordinaria capacità digestiva, spesso sovraccaricata.

La conversazione col giovane dottore rischiava di non avere futuro. Bastava guardare la tavola di ogni giorno: era carica di proteine animali, erano in ogni pietanza. Come sarebbe stato, senza? Siamo quello che mangiamo. Cioè carne proveniente da allevamenti intensivi di animali tristi; verdura uguale tutti i giorni dell’anno come se le stagioni non esistessero (“Sa tutto di mela”, aveva detto quando dalla provincia del sud era arrivata a Roma); formaggi che, al di là della forma e della confezione, avevano tutti lo stesso sapore sintetico e salato — salato come il gusto degli affettati, anche i più genuini. Studiare le presenze sulla sua tavola significava fare uno slalom tra i cibi. Poco simpatici per le sue cellule? Forse nemici?

Sempre difficile, per lei, scegliere qualcuno a cui rivolgere queste domande. Sin da piccola aveva dovuto imparare a fare a meno delle risposte della mamma, in effetti. Degli anni settanta ricordava le facce serie: il dottore e i grandi chiusi con lui in una stanza. Da dietro la porta, brandelli di frasi: “Da quanto ce l’hai? Come hai fatto a non scoprirlo prima? È molto grande, un cordone sotto l’ascella. Adesso dovremo andare avanti con le indagini. Vi consiglio di andare a Milano”. Facce scure, ricordava, e nessuna delle solite battute del medico di famiglia, quelle che di solito facevano ridere tutti anche chi stave male un minuto prima. Queste erano le immagini che segnavano un prima, fatto di tranquillità in famiglia, e un dopo in cui i genitori partivano ogni tanto: poi cure, parrucche, parole strane e serate a dormire con la nonna, sempre molto silenziosa. Risultato?

A 16 anni, col primo fidanzato, non poteva chiedere alla mamma come trattarlo, se essere distante o molto affettuosa. A 18 anni, quando viveva da sola a Roma, poteva esporre qualsiasi dubbio alla nonna — ma era troppo vecchia — , alle zie — troppo poco intime — , alla sorella — sempre chiusa in se stessa. Vabbè, c’era suo padre: ma non era femmina. Bisognava fare diversamente. Non essendoci una mamma cui rivolgersi parlava allora con le amiche, con se stessa: sorvolando, però. Alla fine andava avanti senza. Non era chiaro cosa, ma era chiaro il senza. Si poteva parlare di assenza, ma equivaleva a sorvolare sui fatti.

Come prese a sorvolare, da adulta, sulle proteine animali, dopo la conversazione illuminante col giovane dottore: pranzi senza carne, senza formaggi, senza latte, senza uova, senza burro, senza salumi. Il pesce restava: eccezione dovuta per confermare la pazza strategia di una che non aveva mai ammesso regole. Così, leggendo qua e là con curiosità, arrivarono le scoperte. L’esotica quinoa: alimento base delle popolazioni andine, ricca di proteine vegetali ma non spaventosa come la soia. L’amaranto, che viene addirittura dai popoli precolombiani. Tutti i legumi e anche quelli antichi come la roveja e la cicerchia, tirate fuori dalla storia. Poi le specialità da preparare quasi ogni giorno, i biscotti fatti in casa con olio e farine integrali di vari tipi: farro, riso, orzo, grano saraceno. Ovviamente, pochissimo zucchero, nutrimento amato dale cellule del tumore. La libertà di poter mangiare tutta la frutta secca e i semi, sfizi aggiunti in ogni minestra, tisana o dolce. E le verdure: tante, ognuna col suo sapore e ogni stagione con verdure diverse, da trovare anche senza passare dalla grande distribuzione. Si aprirono mondi.

Non è una strada di rifiuti, limitazioni, rinunce o tristezze, quella che lei ha intrapreso da allora: somiglia molto di più a un viaggio. Un viaggio in solitaria, perché in famiglia nessuno la segue, ma comunque un’avventura; un viaggio all’estero in un paese esotico, dove le spezie e i profumi nuovi hanno anche qualità eticamente corrette. Comprare da produttori locali che lavorano quello che la stagione offre, a km zero, permette di superare la mafia dello sfruttamento del lavoro e della grande distribuzione, che impone prezzi troppo bassi per essere veri. Il costo della verdura così va direttamente a chi la produce, senza disperdersi in intermediari e soprattutto senza consentire lo sviluppo della filiera sporca, che sfrutta la manodopera di irregolari a bassissimo costo, tenuti schiavi dei permessi di soggiorno, a vivere in ghetti senza diritti e senza dignità.

Semplici comportamenti quotidiani le consentono di seminare un piccolissimo grano di giustizia per raggiungere quell’umanità che ha nel cuore e nei pensieri. È così che conosce, per esempio, un gruppo di ragazzi africani che avevano lavorato a Rosarno per la raccolta di arance e pomodori, non più stagionali ma perenni; arrivati a Roma, hanno creato una cooperativa per fare lo yogurt e portarlo in bicicletta direttamente nelle case. Figli di contadini che creano lavoro, un ottimo yogurt e una realtà pulita. Questa volta la bellezza della loro storia vince sulle regole di lei: non ha importanza che sia frutto di proteine animali, lo yogurt è molto buono e deriva dal modo tradizionale di produrlo in Mali, Senegal e Costa d’Avorio. Etico è bello!, no? Dopo un paio di click sul computer, nei giorni stabiliti lei esce di casa per comprare le cassette di verdure di stagione che ha scelto: i cavoli e i finocchi d’inverno, per esempio, e fino a fine maggio niente peperoni, melanzane e zucchine. Tornata a casa le cucina, e se non le consuma subito le congela per averle pronte per la prossima focaccia.

La nuova strada non l’ha condotta al senza, dunque… ma, proprio come l’ennesimo viaggio di scoperta, l’ha accompagnata a scoprire nuovi menù e nuovi ingredienti, senza troppe regole, verso esperienze diverse, fino a raggiungere una nuova dimensione: così come, a suo tempo, avevano raggiunto una nuova forma anche il suo corpo e la sua sensibilità, dediti a sperimentare e sorvolare ogni cosa. E adesso?

Beh, adesso lei sono io. Dal terzo intervento, quello che doveva definitivamente eliminare le occasioni ulteriori di indagini e paure, sono passati quattro anni. Se mi spoglio nello spogliatoio della scuola di danza, oggi può succedere che le ragazze che non sanno non si accorgano di nulla. È un lento percorso verso la normalità fisica, il mio: un percorso di allontanamento dalle paure, dalla gravità della malattia.

Ricordo il settembre 2012 in cui prendevo appuntamenti per la settimana successiva all’intervento, certa di volere e di potere fare tutto. Non era incoscienza. Era proprio un’enorme volontà di cancellare l’intervento, molto invasivo ma non temuto, affrontato con la sensazione di essere invincibile. Con molta calma, un po’ per non pensarci, alternavo agli impegni corsi professionali, viaggi bellissimi, acquerelli, volontariato, le doverose tappe per ricostruire una forma accettabile. In realtà, una forma molto più vicina all’ideale rispetto a come era.

Il primo intervento è consistito in un pezzettino in meno: la riduzione di un seno rimasto grande dopo l’allattamento, quart (quadrantectomia). La mia bambina, otto anni allora, giocava con le parole e si era inventata la nonulide: la malattia della mamma era la parolina affettuosa e per nulla spaventosa con la quale codificare il nodulino da cui tutto era partito. Che questa cosa quasi simpatica fosse la stessa che aveva portato via sua nonna, molti anni prima che lei nascesse, mia figlia non lo sapeva. Che fosse la causa del mio senza, non ne aveva idea. Perché i racconti che le facevo su sua nonna parlavano di una lunga malattia: ora invece la mamma faceva tutto come prima, guidava, lavorava, non sembrava affatto ammalata. Quindi la malattia del senza, quella che l’aveva tanto spaventata, non aveva nulla a che fare con la nonulide della mamma. La paura della morte che la coglieva di sera era solo in relazione alla scoperta che la mamma era vissuta senza la propria mamma: niente a che vedere con il presente. Così era. Così la vivevano tutti. Io, lei e tutto il resto della pur consapevole famiglia.

Solo molti anni dopo, e durante un ricovero del padre, mia figlia ragazzina chiederà all’improvviso cosa succede, se il padre morirà, quale malattia ha avuto la mamma veramente. Nella mente adolescente si condensano improvvisamente informazioni e parole come chemio, radio, oncologia, prima sdrammatizzate e mai capite.

Se penso alla conclusione di questa lunga avventura, dopotutto, la trovo paradossale: ho ottenuto e accettato un seno di consistenza e forma paragonabile all’ideale. Lo stesso su cui, da tredicenne, ogni giorno cambiavo giudizio: a volte la posizione era troppo alta, a volte troppo laterale. Lo stesso che era stato argomento di ironia e scherzi con i compagni di scuola quando, in gita a Positano, avevo comprato un bellissimo costume da bagno rosso, di stoffa con i tradizionali ricami locali: il seno era troppo piccolo e morbido per essere contenuto dal tessuto ricamato, non elastico. Ridevamo perché era troppo informe e troppo inconsistente. Chissà: sarà stata già allora la natura della ghiandola, che in fervente attività ha poi prodotto varie deviazioni e che per ben tre volte ha finito con l’attirare l’attenzione di chirurgo, radiologo e senologo.

L’ho messo sottotiro con controlli serrati appena diventata maggiorenne: ogni volta è stato bloccato prima di diventare veramente preoccupante, o pericoloso sul serio. Insieme ai medici abbiamo combattuto con calma per nove anni, agendo sempre appena sorgevano dubbi. Fino alla terza volta: la terza, quella in cui il chirurgo ha ammesso che se si fosse ripresentato non avremmo avuto più armi. Non potevamo prevederne l’aggressività futura, quindi abbiamo deciso per la sostituzione del tessuto morbido con due protesi, quelle che avrebbero portato il seno finalmente compatto nella giusta forma. C’è un pizzico di rimpianto, per quella morbidezza di budino.

E pensare che, prima di parlare con i medici delle protesi, avevo immaginato una soluzione molto personale per sostituire il vuoto: avrei voluto inventare una scultura unica, mia, fatta di qualche materiale tecnologico come il plexiglass, oppure metallo o ancora legno scolpito. Una soluzione per non nascondere, ma trasformare in autonomo oggetto fisico un’esperienza di cui non vergognarsi. Invece di una protesi nascosta, la chiave per mostrare l’accaduto, un po’ come la benda o l’uncino di un pirata. Il sapore e il gusto dell’avventura, insomma: quelli che mi porto in tutti i miei viaggi.

[L’intro a I racconti del SÉno si trova qui.]

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