Farfalle — di Antonella Graziani

domitilla.pirro
I racconti del SÉno
6 min readJul 22, 2016
Illustrazione di Ros

Riusciamo a comprendere il miracolo della vita solo quando lasciamo che l’inatteso accada: ho sempre amato questa frase di Paulo Coelho, ma non avrei mai immaginato di sentirla così mia.

Per me, l’inatteso ha avuto le sembianze di una malattia — la malattia — diagnosticata pochi giorni prima di Natale: un regalo del tutto inappropriato lasciato per sbaglio sotto l’albero, per così dire.

Tornando a casa dopo il colloquio coi medici, pensavo a come avrei potuto dare a mia madre la notizia che stavo ancora tentando di metabolizzare. Con calma, poi, avrei pensato a come dirlo ai miei figli. (Con calma… che pretesa! Non immaginavo proprio che non avrei avuto né la calma né tantomeno il tempo.) Una madre ti sgama subito, basta una leggera sfumatura nel tono della voce. E la mia, di voce, aveva una strana esitazione: come dire a una donna di più di ottant’anni che stai per essere operata? Qualcosa tipo “C’è un nodulino che sarebbe meglio togliere per capire bene cos’è”, e altri fiocchetti del tutto inutili? Ma aveva capito benissimo, lei. Tentava di farmi coraggio per telefono, immaginando perfettamente che in quel momento una valanga mi stava travolgendo e cercavo un appiglio a cui aggrapparmi.

Ho scritto valanga, vero? È che è difficile trovare un’immagine adatta a descrivere come ti senti quando ti dicono che hai un cancro. È difficile, per me, trovarne una davvero convincente. Lasciami cercare le parole adatte.

Potrei dirti che è un treno in corsa che ti arriva addosso all’improvviso: sbaraglia le tue difese, ti costringe a confrontarti con la fragilità e, soprattutto, con la paura di non farcela, di non riuscire a percorrere fino in fondo una strada piena di ostacoli che vedi tutta in salita.

La diagnosi all’inizio sembra scontata: una quadrantectomia, poi un po’ di chemio, un po’ di radio e passa la paura. Salvo poi, magari nel pieno di un giro di shopping consolatorio, com’è successo a me, ricevere la chiamata alle armi di un assistente del professore. “Sa, signora, il Prof. vorrebbe parlare con lei, prospettare altri scenari…”.

Mi cadono le buste dalle mani e resto impietrita. Un filo di voce per commentare che l’esame istologico sarà stato un disastro e percepire la risposta imbarazzata del giovane dottore. Viene decisa in tutta fretta una mastectomia e contestuale ricostruzione con lembo addominale. Una tecnica all’avanguardia, dicono: il risultato sarà del tutto naturale. Provo a controbattere, con voce ancora più flebile, se lo stile amazzone non sarebbe più semplice: mi toglierei il problema da ambo i seni e tornerei a casa più leggera. Sguardo esterrefatto della chirurga: percepisce la mia preoccupazione e tenta anzi di convincermi dicendo che in estate, al mare sfoggerò una linea invidiabile. Torno a casa e scoppio a piangere come una fontana urlando che non voglio operarmi, perché ho una fottutissima paura di poter rientrare nel 3% di rischio ischemico del lembo.

Che me la sia tirata da sola? Secondo appuntamento chirurgico: dopo un’ora dal ritorno in camera, ischemia del lembo! Mi riportano di corsa in sala operatoria, dove trascorro l’intera notte, per poi risvegliarmi, miracolosamente viva, all’inizio della mia nuova, seconda vita.

Da quel momento sono catapultata in un’altra dimensione: un universo parallelo in cui il tempo è scandito da interventi chirurgici, chemioterapia, radioterapia, TAC, PET, controlli a tappeto — parole che entrano di prepotenza nella mia quotidianità, stravolgendo ogni certezza.

Quando poi, con la prima TAC, mi accorgo che l’amico ha combinato guai anche al fegato, mi sento sprofondare. L’oncologa ci scherza su e mi dice che sono una paziente modello, non mi faccio mancare niente. Mi si offre un altro bel piattino: intervento al fegato, da stabilire se prima, durante o a fine chemio (ipotesi preferibile). Tutto sta a vedere se ci arrivo, a questa benedetta fine chemio.

Se mi chiedo il perché di tutto questo, mi accorgo che una risposta non esiste: mi ritrovo improvvisamente in trincea, a combattere contro un nemico invisibile che sta barricato dentro di me e si nutre del mio stesso sangue. Perché la malattia è anche una battaglia lunga, estenuante. Per fortuna si realizza solo alla fine, però: prima si è troppo impegnati a lottare.

Sarà per questo che, di quel periodo, ricordo solo frammenti? Ce n’è uno in particolare che mi torna ancora in testa come il mantra che è stato: ancora oggi, a distanza di tempo dalle giornate interminabili di quel febbraio, ricordo la prima volta che ho sentito La fine. Il titolo di una canzone, s’intende.

Ero bloccata nel traffico, come spesso accadeva nelle frenetiche giornate della mia vita precedente. Naturalmente ero anche arrabbiata per i soliti casini lavorativi e familiari. A pensarci ora, mi sembrano lontani anni luce: mi chiedo come potessi prendermela così tanto per cose che adesso mi sembrano davvero inconsistenti. Mentre ero alla guida, la radio mi distrasse all’improvviso. A colpirmi allora fu più che altro una certa rabbia che trapelava dal testo. Si accordava alla mia. In seguito, dopo l’intervento, è stata la speranza a conquistarmi. Mentre stavo immobile a letto, contando i minuti senza avere idea di che cosa sarebbe successo, mi ripetevo quelle parole: Vorrei che fosse oggi in un attimo già domani, per ri-iniziare, per stravolgere tutti i miei piani: perché sarà migliore e io sarò migliore, come un bel film che lascia tutti senza parole.

Grazie a Dio domani è arrivato. Non so se sono diventata migliore: sinceramente poco importa. So che ogni mattina, quando mi sveglio, sono felice perché mi è stato donato un altro giorno. La sfida è provare a essere migliore: provarci per me, provarci per coloro che mi vivono accanto. Vivo una seconda vita in cui tutto è diverso da prima: dal colore dei capelli che sono ricresciuti al modo di vedere e sentire ogni cosa.

Eccole, ecco le immagini che cerco. Credo che la malattia sia una falce: ti aiuta a tracciare un solco netto tra ciò che c’era prima e ciò che ti trovi a vivere dopo. Mette una distanza tra te e tutto ciò che in qualche modo non ti corrisponde più — siano persone o situazioni di vita. Recide ogni sorta di costrizioni: perché è anche togliere un pesante mantello che ti impediva i movimenti o una benda che non ti consentiva di vedere. È perfino la possibilità di provare nuovi passi su un percorso del tutto sconosciuto: ogni giorno, adesso, è una tappa di un viaggio non programmato. Non so dove mi porterà. Voglio proseguire senza troppe soste, con un bagaglio leggero fatto di curiosità, amore per la vita e, inevitabilmente, paura. Perché sono un funambolo in precario equilibrio sulla vita: perfetta metafora, questa, per la tensione emotiva che mi accompagna spesso. Un esame, un controllo, un dolore improvviso? Subito scatta l’allarme.

È quando sto così male che mi regalo un mantra diverso, nuovo e antico — parole che mio padre ci ripeteva spesso, da ragazzi: Nella vita ci sia sempre concesso di sognare. Mi piace immaginare la dimensione del sogno come un battito d’ali di farfalla: impercettibile, ma capace di portarti molto lontano. Tra tutti, il sogno più importante al quale sono rimasta aggrappata con tenacia è stato restare accanto alle persone che amo: veder crescere i miei figli, condividere i loro progetti. E, ora, tornare a vivere. Percorrere strade sconosciute con tutto il coraggio e la determinazione necessari per dire a me stessa: ci sono. Sto qui. Ho combattuto, sto ancora combattendo e lo faccio con tutte le mie energie. Perché non solo voglio vivere: da adesso voglio vivere bene.

Qui sta la meraviglia: rivolgere occhi nuovi verso l’essenziale. La stella cadente che attraversa il cielo in una frazione di secondo non ha in sé una bellezza totalizzante? E il tramonto che incendia gli occhi e il cuore con i suoi colori? E l’arcobaleno dopo il temporale, che ci conforta con un abbraccio di speranza, non racchiude in sé mille promesse di armonia e di pace? Sono immagini effimere e irripetibili: proprio per questo uniche, preziose. E solo a immagini simili voglio rivolgere, d’ora in poi, la mia completa attenzione: perché non è da tutti lasciare che l’inatteso accada. Assistere al miracolo. Vedere realizzato il proprio sogno più importante. E, soprattutto, saper tenere gli occhi spalancati per godersene, ora, ogni riflesso.

[L’intro a I racconti del SÉno si trova qui.]

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