Una vita vissuta — di Nilufar M.

domitilla.pirro
I racconti del SÉno
7 min readJul 22, 2016
Illustrazione di Ros

Non avrei mai immaginato di abbracciarlo — sì, proprio lui — in Italia, in casa mia, dopo più di trent’anni. Tra le lacrime mi dice: “Perdonami se…”, poi una piccola pausa. Lo interrompo: “No, non ora. Ne parliamo in un altro momento”. Gli faccio vedere la casa. Nota subito la mia chitarra. La prende e comincia a suonare: canta LaLa LaLa Gole Laleh. La canzone mi riporta all’infanzia. Mi riporta a Teheran, in Iran. Mi torna in mente quando andavo all’asilo con mia sorella; le risate, i giochi e i litigi, quando qualche volta doveva prendersi cura di me visto che era la maggiore. Poi il trasferimento da Teheran alla città di mio padre, l’ultimo bacio e la sua morte quando avevo undici anni. Ricordo la guerra tra Iran e Iraq, i bombardamenti, la partenza di mia sorella per l’Italia. Mi metto a piangere. Questa ninnananna in persiano mi faceva piangere anche quando me la cantava mia madre da piccola, in realtà. Lui smette di suonare e mi abbraccia di nuovo. Piangiamo insieme. Gli chiedo di cantarmi un’altra canzone. Lui esegue. Mi calmo. Prendiamo un tè e parliamo della mia chemio e di quella di mia sorella. Lo riaccompagno alla metro. Ci promettiamo un altro incontro.

Io sono Nilufar: il mio nome significa ninfea. So che la realtà supera sempre la fantasia, ma non avrei creduto fino a questo punto.

L’anno scorso è arrivato uno tsunami nella mia famiglia: quasi contemporaneamente, io e mia sorella ci siamo ammalate di cancro. Quando ho letto per la prima volta la risposta dell’esame citologico, a novembre, era come se non l’avessi voluta comprendere. Per qualche giorno il mio cervello non voleva accettare la malattia. Non poteva essere vero. Una notte mi sono alzata dal letto di colpo, ho preso un quaderno e ho cominciato a scrivere. Le parole venivano da sé. Ho scritto i fatti, le mie paure, la mia rabbia, il mio dolore. Ma anche le mie gioie: nessun rimorso né rimpianto, negli ultimi anni. Le risate tra me e mia sorella, nonostante tutto; il gusto della cioccolata fondente in bocca; il calore di un abbraccio; la gioia di perdermi negli occhi della mia nipotina. Poi ho iniziato a portarmi il quaderno dietro ovunque andavo. Scrivevo ciò che sentivo.

Sono proprio questo tsunami e una combinazione del caso che hanno portato lui a farmi visita in Italia. Vivo qui dal 1985. A soli diciott’anni, la vita mi ha messa di fronte a una scelta: tornare in Iran o rimanere in Italia. Mentre la prima scelta era un libro aperto, la seconda era un bel salto nel buio. Il buio mi spaventava da morire, ma ero certa di non voler rileggere quel libro: né aperto, né chiuso. Non mi restava che fare il salto.

Ricordo ancora il momento in cui sono entrata per la prima volta nella stanza della dottoressa. Mi batteva forte il cuore. Non sapevo esattamente di che cosa si trattasse. Mi ha chiesto il mio nome, così ho iniziato a parlare. È durato un minuto: come mi chiamavo, da dove venivo, come ero arrivata in Italia. Poi, il silenzio. Non per l’italiano che ancora non avevo imparato bene; è che non mi veniva in mente nulla da dire. Tutto il resto del tempo, quasi quarantanove minuti, in silenzio. All’uscita dalla sua stanza ero sconvolta. Non avevo detto nulla, ma ero sconvolta. Nel tratto di strada per tornare a casa inciampavo in continuazione. Dopo di allora, diversi altri incontri sono stati come il primo. No, peggio: cinquanta infiniti minuti, tutti in silenzio. Superati quelli, ho iniziato ad aprirmi pian piano. È proprio vero, sono una ninfea: a volte mi chiudo in me stessa, altre volte mi apro.

Una volta in Italia, avevo iniziato un percorso di psicoterapia seguendo il consiglio del papà dei bambini ai quali facevo da babysitter: anche lui soffriva di fortissime emicranie, e solo così era riuscito a guarire.

L’anno dopo mi sono iscritta all’università. Avevo diciannove anni. Non so perché, ma mi vergognavo profondamente del mio matrimonio e del divorzio. Mi sentivo in colpa per tutto ciò che avevo subìto. Per poter sopravvivere in Italia ho cancellato dalla mente i nove mesi vissuti in Inghilterra. La psicoterapia, durata tre anni, non mi aveva comunque dato gli strumenti per metabolizzare l’incubo vissuto. Con i compagni dell’università non ne ho parlato mai.

Con uno sforzo immenso ho imparato l’italiano studiando sui testi universitari. Man mano mi sono avvicinata alla cultura italiana. Con la mia forza di volontà, e grazie all’affetto di mia madre e mia sorella, ho preso la laurea in Ingegneria. Sono entrata nel mondo lavorativo a ventinove anni. Dopo qualche anno ho iniziato a fare volontariato in Amnesty International. Ero diventata la responsabile di un gruppo, quindi organizzavo raccolte di fondi e di firme: ero coinvolta in diverse attività. Un anno ho partecipato all’Assemblea Generale. Era l’anno dedicato alla violenza sulle donne. Conoscevo bene la campagna, avevo già organizzato parecchie attività in merito. Ma quel giorno era diverso. Mi sono messa seduta insieme ad altri compagni in sala. A vedere il video sullo schermo gigante ho sentito un terremoto dentro di me. Mi sono alzata di colpo, sono uscita dalla sala, sono scappata via, sono arrivata in albergo, mi sono chiusa in camera e sono scoppiata a piangere. Mi era tornato tutto addosso.

A diciassette anni, quando abitavo ancora in Iran, il fratello di una mia amica aveva chiesto a mia madre la mia mano. All’epoca era culturalmente normale, per le ragazze iraniane, sposarsi a un’età giovanissima. Avevo già altri spasimanti, ma conoscevo lui e la sua famiglia: dopo la morte di mio padre, ci erano stati molto vicini. In quel periodo lui viveva in Inghilterra e veniva in Iran solo ogni tanto; aveva ventott’anni e tutte le carte in regola per essere un “buon partito”. Certo, non sapevo cosa significasse il matrimonio e in che cosa consistesse il rapporto con un uomo. In ogni caso, se non con lui sarebbe successo con qualcun altro. Mi sentivo come un sassolino dentro un fiume: la corrente mi trascinava via. Quindi mi sono sposata con lui per procura. Quando l’aereo che mi portava in Inghilterra era decollato, avevo provato un’emozione fortissima, un nodo alla gola. Anni dopo ho realizzato che si trattava del dolore di lasciare la propria terra e tutto ciò a cui ero legata, e della paura di andare verso l’ignoto. Arrivata in aeroporto, appena avevo visto mio marito che mi si avvicinava da lontano, ero stata colta da una strana sensazione: mi era crollato il mondo addosso. Così, senza una spiegazione. Non capivo cosa fosse l’emozione negativa dentro di me.

Siamo arrivati a casa con un taxi. Era già notte. A vederlo nudo ho provato tanto disgusto e paura. Si è avvicinato a me e mi ha presa. Per entrare in me ha spinto con forza. Sentivo un dolore atroce: nelle ovaie, nella vagina, dappertutto. Non volevo lui né il suo corpo. Più mi irrigidivo più lui aumentava la pressione. Piangevo, urlavo. In seguito, ogni volta è successa la stessa scena. Ho iniziato così la mia vita matrimoniale. Nel quotidiano mi ordinava come mi dovevo comportare con gli altri, come vestirmi. Mi aiutava con l’inglese, ma nello stesso tempo mi annullava ogni volta che sbagliavo a capire o non ero in grado di formulare una frase corretta. Le sue urla nell’orecchio mi graffiavano l’anima. A volte però era anche molto dolce, quindi si creavano dei momenti di tenerezza. Quest’alternanza tra il bene e il male mi confondeva le idee. Mi ero quasi abituata a essere trattata male, al dolore fisico e al mio pianto disperato. A un certo punto, tra un litigio e l’altro, mi aveva picchiata con un ombrello. I segni delle sue mani e dell’ombrello rotto su di me sono andati via molto tempo dopo. Non volevo essere picchiata per il resto della mia vita. Dovevo fare qualcosa. Con l’aiuto di mia madre ero riuscita a scappare da lui e raggiungere mia sorella in Italia.

Ecco: il terremoto sorto in me durante l’Assemblea Generale, circa vent’anni dopo questi eventi, era la consapevolezza delle violenze sessuali, verbali e fisiche subite.

Lui l’ho odiato per diversi anni. Poi dentro di me qualcosa è cambiato. Mi sono resa conto che forse la presenza di mia madre per qualche settimana, a casa, durante quel periodo di convivenza, aveva inciso sul nostro rapporto; e che probabilmente neanche lui si rendeva conto di ciò che succedeva. Avevo bisogno di perdonarlo. In questi trentadue anni ci eravamo già sentiti al telefono qualche volta. Da questo è nato l’incontro a casa mia.

Quando mi vede, mi abbraccia e mi chiede perdono non gli dico che dentro di me l’ho già perdonato. Lo rimando al prossimo incontro: quel giorno non so ancora niente di questo racconto. Ma nulla capita per caso. Al prossimo incontro troverò modo di leggerglielo.

Prima di iniziare la chemio mi sono tagliata i capelli una prima e una seconda volta. Mi volevo abituare pian piano all’idea. Dopo circa dieci giorni dal primo ciclo li ho tagliati cortissimi. Una settimana dopo è arrivato il momento critico che temevo tanto. Mi sono alzata dal letto. Ho avvertito qualcosa. Sono entrata in bagno e mi sono chinata sul lavandino. Ho toccato la testa con le mani. Una valanga di capelli che cascavano senza fermarsi. Improvvisamente ho cominciato a parlare ad alta voce: “Andate via. Non ho più bisogno di voi. Ho bisogno di novità. Mi voglio liberare di tutto ciò che non mi appartiene più”. Ho cominciato ad aprire i cassetti, gli armadi. A mettere in ordine e buttare via un sacco di roba. In cantina avevo accumulato tantissime buste, cose inutili. Via tutto. Mi sono liberata anche di un mobile: occupava tanto spazio sul balcone, ma dentro conteneva poco.

Negli anni ho raccontato a qualcuno del mio matrimonio e delle violenze, ma in maniera esplicita o implicita chiedevo di non parlarne con altri. Il cancro e la perdita di capelli mi mettono a nudo. Grazie al cancro ho scoperto che, oltre alla mia famiglia, diverse persone mi vogliono bene. Con il loro sostegno pratico, il loro calore e l’abbraccio e con la loro preghiera mi hanno aiutato ad affrontare la chemio.

Mia sorella, che aveva il tumore al cervello, non ce l’ha fatta.

Con la ragione non trovo un senso a tutto questo. Percepisco invece la bellezza della vita nel bene e nel male, nella gioia e nel dolore, in salute e in malattia. Nella sua straordinaria imperfezione. In fondo la chemio non è altro che veleno vitale.

[L’intro a I racconti del SÉno si trova qui.]

--

--