L’arcobaleno — di Irene Magnanimi

domitilla.pirro
I racconti del SÉno
5 min readJul 22, 2016
Illustrazione di Alessandro

La prima volta che ho sentito il termine carcinoma fu quando il medico lesse il referto dell’esame istologico di mia madre, nove anni fa. All’epoca non conoscevo il significato di questo termine: io il maledetto intruso lo avevo sempre chiamato tumore. Nella mia famiglia era entrato anni prima colpendo più volte mia zia Giovanna, e nel momento in cui si è intrufolato in mia madre c’era mia zia che ancora combatteva.

Il giorno in cui il professor Franceschini del reparto di senologia integrata dell’ospedale Gemelli lesse il mio referto, il giorno in cui — di nuovo — riecheggiò nella stanza il termine carcinoma, mi sentii persa. La prima reazione fu quella di uscire dalla stanza, dal reparto, dall’ospedale e respirare.

Seguirono giorni di sgomento, paura, ansia per tutta la mia famiglia; io mi chiudevo in bagno a piangere per non far sentire i singhiozzi a mio figlio di quattro anni.

Arrivai a toccare il fondo. La disperazione mi aveva trascinato in un pozzo buio nel quale la luce si intravedeva a malapena: a stento riuscivo a respirare. Ma, dal fondo, l’unica azione che puoi intraprendere è la risalita.

Poco dopo iniziai le cure, prima fra tutte la chemioterapia. Il primo giorno che sono entrata in quel reparto tremavo; nel vedere le colleghe che effettuavano l’infusione, iniziarono a solcarmi le guance due lacrime. Una volta accomodatami sulla poltrona, scomparvero magicamente: avevo iniziato a pensare a mia madre e mia zia, a come loro avevano affrontato il mio stesso cammino. Fu in quell’istante che capii che la lotta era iniziata. Identificai il maledetto intruso, perché per combattere e soprattutto vincere qualsiasi battaglia bisogna conoscere bene il proprio nemico: e una forza sconosciuta contagiò anche me.

Il liquido del farmaco scendeva lentamente. Lo avvertivo scorrere nel mio corpo mentre iniziava a far terra bruciata, ad annientare tutto ciò che incontrava sul suo percorso; inizialmente fui terrorizzata da questo carrarmato chiamato chemio, poi diventai felice e ansiosa di sottopormi alle sedute perché la mia principale arma erano proprio le terapie.

Il percorso di cura è stato scandito dal mio passo spedito: testa alta e sorriso stampato, nell’entrare a ogni seduta. Ho conosciuto molte donne, mie colleghe di sventura, instaurando con loro amicizie che perdurano tuttora: ho chiacchierato, riso, scherzato sia con i medici sia con le infermiere, allacciando rapporti amichevoli e di fratellanza con quelli che considero i miei alleati nella guerra per la vita. (Quante risate con la dottoressa Cristina, una guida e perfino una complice nello sdrammatizzare gli effetti collaterali di una terapia che di divertente non ha proprio nulla!)

È stato un lungo percorso durante il quale ho avuto modo di riflettere sulla mia esistenza, riorganizzarla e soprattutto ricucirmela addosso come un abito su misura: ho creato una lista contenente tutto ciò che intendo realizzare in futuro, ciò che finora che non avevo intrapreso perché troppo impegnata a occuparmi di tutti tranne me stessa.

Tra le tante voci, la prima che sto realizzando è proprio mettere nero su bianco la mia lotta e il modo in cui l’ho affrontata; e l’obiettivo è anche quello di raccontare il ruolo di mia mamma Maria e mia zia Giovanna, perché è solo grazie ai loro insegnamenti, alla loro dignità e alla loro forza nell’affrontare il maledetto intruso se ho potuto fronteggiare quest’esperienza traendone tutto ciò che di buono potevo trarre.

Con la stessa urgenza voglio provare a raccontare di mio marito Roberto, un uomo fedele che mai mi ha fatto sentire brutta o malata: anzi, ha ironizzato su tutto ciò che poteva, guarendo la vanità di chi guardandosi allo specchio vedeva un’estranea, restando sempre pronto al mio fianco e dandomi sostegno e forza. E come non raccontare, assieme a lui, di Pierina e Alessandro, suoceri affettuosi che hanno sostenuto materialmente e fisicamente tutta la famiglia, accudendomi come figlia loro.

Racconterei anche delle amiche che mi hanno incitata e amata: in particolare la mia sorella di vita, Mariagiovanna, che mi ha sostenuto e aiutato moralmente e fisicamente. Penso alla volta in cui ha espresso il desiderio di accompagnarmi alla seduta di chemio: ero titubante, all’inizio. Vedendola motivata, ho ceduto: un giorno siamo entrate in ospedale mano nella mano. Uscendo mi ha ringraziata per due motivi: per averla resa partecipe di quello che stavo vivendo e perché da quell’esperienza traeva lei stessa un insegnamento fortissimo. Amare se stessi e la vita.

Ultimo ma primo in assoluto, vorrei raccontare di mio figlio Alessandro, che in questa difficile avventura mi ha dimostrato una sensibilità e una maturità spiazzanti, considerata la giovanissima età. Ricordo quando, in un pomeriggio freddo e ventoso di dicembre, mi si è avvicinato mentre ero stesa sul letto. Coprendomi di baci e di abbracci, mi ha detto: “Mamma, se hai bisogno di qualcosa chiamami”. Mi è bastato quell’istante a comprendere che lui, prima di me, aveva capito che il gioco che gli avevamo raccontato era tutto fuorché un gioco.

Non è stato semplice star dietro agli innumerevoli alti e bassi della terapia; non è stato semplice rialzarsi quando il fisico non reagiva e non collaborava. Non è stato semplice nascondere a mio figlio quanto male stava in realtà la sua mamma; non è stato semplice neanche per mio marito restare accanto a una donna che mutava fisicamente e mentalmente. Nulla di tutto questo è stato semplice, no: ma al contempo non è stato neanche impossibile. Ho utilizzato ogni grammo di forza per riemergere e combattere da vera guerriera: difendendomi dal mio nemico, rimanendo guardinga, cercando di stare sempre un passo avanti a lui nei momenti di debolezza, sferrando colpi di chemio alla risalita delle forze. Non sono una superdonna, sia chiaro, né mi ritengo migliore di altri. Nemmeno penso d’aver affrontato quest’esperienza nel modo migliore. D’altra parte, qual è il modo migliore? Ognuno reagisce in base al proprio carattere e al proprio modo di affrontare in generale la vita, credo. Questa è la mia testimonianza: questo è il mio modo.

Oggi sono alla terza seduta di radioterapia. La lotta non è terminata, naturalmente, ma io continuo a entrare anche in questo reparto con il sorriso stampato. È la mia arma micidiale. Dopotutto, ho sempre descritto la mia esistenza come un arcobaleno: nei momenti migliori ho sempre immaginato di attraversare i colori più tenui, mentre in quelli peggiori i colori più forti. Resta il fatto che, finché non lo si attraversa per intero, non si può dire di aver vissuto.

[L’intro a I racconti del SÉno si trova qui.]

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