Parole — di Simona De Angelis

domitilla.pirro
I racconti del SÉno
4 min readJul 22, 2016
Illustrazione di Simona De Angelis

Ho serie difficoltà a scrivere di cancro, perché quello che fa scaturire in me è un senso di repulsione. Ma se pensate che abbia unicamente a che fare col trauma della malattia vi sbagliate di grosso. Quello che mi ripugna è l’immagine della supereroina indomita, della sopravvissuta forte e valorosa, della guerriera senza macchia e senza paura. Il ruolo che la malata di cancro al seno ha ormai assunto nell’immaginario comune. Colei che ha intrapreso il cammino tortuoso e meno battuto e che ne ha tratto un grande insegnamento di vita, colei che sorride anche nelle situazioni più disperate, colei che è sempre fonte di positività. Colei che è rinata dalle sue ceneri. Colei che non teme più nulla. Colei che ci mostra quanto si possa stare bene dopo un cancro.

Ogni volta che penso a queste immagini mi rendo conto di quanto effettivamente i mezzi di comunicazione abbiano rincoglionito le persone al punto da far credere loro che nella realtà esistono le “supereroine”. Voglio dire, se penso alla descrizione sopra, penso a un film con gli X-Men, mica a degli esseri umani. Poi, per carità, se una vuole sentirsi una supereroina non ci trovo nulla di male: se identificarsi in un ruolo così la fa star bene, buon per lei. Non sono qui per imporre la mia visione della realtà alle altre però, io personalmente, non mi sento affatto una supereroina. E la questione non è nemmeno il sentircisi o meno. Il problema principale è che, da quando mi sono ammalata, ci si aspetta che io lo sia. Anzi, si pretende che io lo sia. E ogni mio tentativo di esternare come mi sento davvero viene irrimediabilmente bacchettato come vittimismo. A cui seguono infinite paternali per rimettermi in riga, se quello che dico cozza con l’immagine idilliaca, intoccabile della supereroina.

Da quando mi sono ammalata nessuno mi ha mai chiesto come mi sento davvero. Troppo spesso, in compenso, mi è stato detto come dovrei sentirmi. Nella maggior parte dei casi da persone sane. Le stesse persone sane che probabilmente, se ricevessero una diagnosi di cancro, si butterebbero dalla finestra prima ancora che il radiologo abbia il tempo di finire la frase. Nell’immaginario di queste persone, nel mio vocabolario sarebbero consentite solo parole come positività, crescita, forza, accettazione e coraggio; quando, in realtà, quello che provo io si avvicina di più a parole come trauma, dolore, rifiuto, frustrazione, incertezza e paura. A quanto pare non sono libera di provare tutto il carico emotivo che una situazione del genere comporta. Devo vivere con vergogna quello che sento, come se non fosse plausibile provare delle emozioni negative in una situazione di malattia grave. Come se davvero fosse possibile il contrario. Sono costretta ad assumere un ruolo irreale che non mi compete, che non sento mio. Una parte fittizia che, sinceramente, neanche mi piace. Anzi: che mi fa proprio schifo.

Volete sapere come mi sento davvero? Immaginate una persona in pigiama davanti al televisore con una camomilla in mano, che improvvisamente viene travolta da una tempesta spaventosa che distrugge la sua casa e la trascina via in un vortice tremendo senza appigli. Ecco. Questa sono io. Sono ancora tremante, stordita, terrorizzata. E voi mi dite che devo essere forte, che devo essere una guerriera. Avrei bisogno di cura, di rassicurazioni. Voi mi dite che devo lottare, sconfiggere. Io sono sfiancata, disperata, sfinita. Voi mi dite che devo combattere una guerra.

Ho sempre odiato le metafore belliche. Da pacifista quale sono le guerre mi sembrano, da sempre, solo inutili e deleterie. Figuriamoci quelle contro le cellule del mio corpo. Da malata, una retorica del genere mi infastidisce ancora di più perché, oltretutto, presuppone che io abbia un ruolo fondamentale nella mia guarigione. Che ingenua che sono. Io pensavo che questo ruolo spettasse alle terapie oncologiche. No, a quanto pare sono io che devo combattere, io che devo vincere la mia battaglia con la malattia. I Am The Cure, recita una nota campagna statunitense sul cancro al seno. Io Sono La Cura. Vi rendete conto del carico di responsabilità che grava su una persona malata una frase del genere, a livello psicologico?

Troppo spesso ho visto malate sentirsi responsabili, anzi, colpevoli della malattia o del suo ritorno: frasi come “Non mi era bastata la prima volta e me lo sono fatto ritornare”, “Se non sono abbastanza positiva e forte, mi tornerà”, “Se la prendi così, poi ti torna”. Incentivare una persona malata a “reagire”, a “lottare”, a “sconfiggere” non è di aiuto se tutto ciò si trasforma in una grande senso di colpa. Certo, forse a livello superficiale, dire che qualcuno ha vinto la sua battaglia contro il cancro può far sentire la persona padrona della situazione, in qualche modo attiva nel processo di guarigione. Ma un’espressione del genere non implica in fondo che chi ha perso non ha lottato abbastanza? E che, se la malattia dovesse tornare in futuro, la colpa sarà della persona stessa? Non vi pare anche un po’ irrispettoso nei confronti di chi muore o di chi sta morendo?

Quindi, avrei una proposta da farvi. Iniziamo a parlare in termini diversi. Iniziamo a dire che, se una persona muore di cancro, hanno perso le terapie, non la persona. Iniziamo a dire che le malate non sono la loro cura, che non sono responsabili della loro guarigione, che non sono qui per sopperire ai limiti delle terapie oncologiche. Iniziamo a parlare in termini realistici della malattia e non in termini idilliaci. E iniziamo a parlare di esseri umani, non di supereroine inesistenti.

Le parole sono importanti. Sarebbe il caso di iniziare a usarle correttamente.

[L’intro a I racconti del SÉno si trova qui.]

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