Pronta — di Sabina Leonardi

domitilla.pirro
I racconti del SÉno
5 min readJul 22, 2016
Illustrazione di Ros

Noia, impulso, incoscienza. Sono giorni ormai che ti arrovelli sui motivi che potrebbero averti indotto, in un giorno qualunque di una settimana qualunque, a rispondere a un invito quanto mai bizzarro: un corso di scrittura creativa!

Il riferimento al qualunquismo dei giorni (uso improprio del termine: lo so, lo so) potrebbe forse far protendere verso la prima ipotesi: la ricerca di un diversivo in giornate scandite dal lavoro e poi dal lavoro e poi da beghe di ogni genere, roba non proprio spassosa e appagante. Ma la noia non è un movente credibile. La noia è parte di te, nella noia ti crogioli. Accidia è il tuo secondo nome, eppoi come suona bene quella litania sul tuo triste destino che, ahimè, non ti ha fatto nascere Reinhold Messner.

L’impulso, forse, è una spinta più verosimile. Non riesci a mettere a fuoco l’esatto momento in cui hai pigiato il tasto rispondi alla mail di invito al corso, quella pagina così accattivante, tutta rosa: in effetti, a pensarci bene non ricordi proprio di esserti vista mentre scrivevi quella mail.

L’incoscienza — tra le tre — è la motivazione più convincente. Come puoi aver pensato di partecipare ad un corso gratuito di scrittura creativa, senza nessun timore che ti si chieda di pagare pegno, senza che qualcuno prima o poi pretenda che tu scriva qualcosa? Ma guarda un po’ che razza di ingenuità. Non è da te: ma come è potuto succedere? La distrazione di un momento ed eccoti qui. Come uscirne, ora? Giorni passati alla ricerca di una soluzione: dai, hai scherzato, mica potrai passare tutti i week-end del mese di giugno a Roma per il corso di scrittura; ma come farai, c’è il week end programmato a Procida, poi a Luglio è impensabile andare, troppa gente.

Ed eccolo, il fatidico sabato mattina. Una mattinata uggiosa foriera di tanta pioggia con la vocina che ti indica la via: “Girati dall’altra parte, con calma, avvolgiti nel piumone e continua serenamente a fare quello che ti riesce meglio: dormire!” E invece no, a questo punto lo sdoppiamento di persona è compiuto. La senti per la prima volta nitidamente: una forza sconosciuta prende il sopravvento e ti catapulta in un gazebo umido e inospitale con tanta gente sconosciuta, forse spaventata come te, ma sicuramente con motivazioni degne di questo nome.

Si stenta a cominciare: forse un colpo di fortuna annullerà il corso per abbattimento di un fulmine sul tetto della casupola che ci ospita, forse l’insegnante non si presenterà… macché. Eccola, individuata e schedata pure: non sembra certo appartenere a un genere che fa sconti. Aiuto! Si comincia. Tipe toste, loro, quelle sì che sono storie da raccontare: accidenti, hanno mille vissuti diversi, hanno progetti interrotti da riprendere con più energia che mai. Che meraviglia perdersi nei racconti, negli occhi umidi, nella forza di giganti mascherati da fatine.

Ecco. Arriva il tuo turno. Dai, racconta. Racconta perché, di tutte le illustrazioni messe a disposizione come pretesto per presentarti, quel tenero folletto sotto una palla di vetro è l’immagine che ti ha scelta, più che farsi scegliere: racconta che anche tu, come lei, guardi gli altri vivere da lì sotto. Racconta che osservi tutto con un filtro che appanna ogni emozione. Racconta. E piangi. Piangi e senti qualcosa dentro che si scioglie. Piangi e vorresti non fermarti più. Uno di quei bei pianti che ti lavano dentro, ti svuotano. Poi, accorgiti che ti guardano tutti e che finalmente ti vedono anche. E ti sorridono, addirittura!

Ti senti piena di energia: immagini che sì, forse qualcosa la puoi pure scrivere se riesci ad accantonare quel perfezionismo esacerbante per cui o scrivi come Virginia Woolf o non se ne fa niente! Questa giornata ti è proprio piaciuta. Ti senti felice. Vai e cerca la piccola vocina indolente che stamattina voleva lasciarti abbandonata sotto quel piumone: dille che, sì, tra voi è stato bello, che, sì, in molti momenti ti ha anche supportato, ma che ora non hai più bisogno di lei. Dille pure che ora hai altre esigenze e che andrai finalmente alla ricerca dello spirito del sopraccitato pioniere dei ghiacci.

Sembra facile, ma la vocina si ripresenta quando meno te lo aspetti e cospira contro di te. Ti invita alla fuga e ai sotterfugi, insinua dubbi e incertezze. Ti convince che non è ancora troppo tardi per darti alla fuga, che hai tanti impegni, che devi lavorare, che non hai da scrivere, che non ci sono posti sufficientemente silenziosi dove poter trarre l’ispirazione necessaria e per finire, con una clava in mano pronta ad assestarti un colpo ben piazzato, ti dice che no, non hai proprio niente da raccontare!

E allora ricomincia la lotta tra te che vuoi buttarti e provarci e te che ti nascondi, che non osi e vuoi solo rifuggire sotto la palla di vetro. Ma vai avanti e continui, tra un esercizio di scrittura e l’altro, a tentarle tutte per non affrontare la prova.

Poi capisci. Capisci che è la storia della tua vita, il racconto che stai tentando di infilare in tre cartelle da 1.800 battute. Scrivere quel racconto significa buttarsi a capofitto nella vita: e farlo con il serio rischio di fallire, di non piacere, di essere giudicati e soprattutto giudicarsi non adeguati (agli standard di Virginia Woolf, chiaramente). Scrivere quel racconto significa fermarsi un attimo, pensare al passato, avere nostalgia; significa sentire il dolore che ti blocca il respiro e non saperlo esprimere che con queste parole, e riuscire a fregarsene perché sono le tue e per questo sono le più belle del mondo. Non bisogna necessariamente aver scalato le quattordici cime del pianeta che superano gli 8000 metri per scrivere racconti, e non è neanche necessario che la penna appartenga alla scrittrice di Mrs. Dalloway.

Le tue parole, quando sono sincere, hanno mani e piedi. Possono toccare, possono camminare. Crescono con te e adesso sono pronte, come sei pronta tu, a dare vita a una storia. Adesso ci sei. Adesso ci sono. Adesso prendo il volo… Sono pronta a raccontare.

[L’intro a I racconti del SÉno si trova qui.]

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