Resistenza — di Rita Z.

domitilla.pirro
I racconti del SÉno
6 min readJul 22, 2016
Illustrazione di Ros

Giugno 2011: tra pochi giorni partirò per le vacanze, destinazione Rimini.

Mi piace starmene seduta in piscina a guardare la gente. Di Rimini mi piace l’odore e quell’aria retrò degli alberghi del posto. E invece no, cambio di programma, cancella tutto: niente mare né risate né atmosfera retrò. Mi trovo catapultata in ospedale, il piano è meno due, niente sole, ne luce, solo quella artificiale. La sala d’attesa è asettica, le facce sbalordite, spaventate. Chissà la mia. Aspetto di conoscere lui, colui che mi dirà cosa ho. Se non mi piace me ne vado.

E invece no, sono rimasta. Lui è entrato con il suo camice bianco, è stanco, sono le 19.30, profuma di pulito, parla piano, non vuole ferirmi né farmi più male di quello che già sopporto. È un cavaliere senza macchia e senza paura, ha il camice bianco al posto dell’armatura, una siringa al posto della spada. È lì per me, per ammazzare il drago che tenta di divorarmi. Ho messo un reggiseno verde, come la speranza, sono abbronzata, ho i capelli lunghi e gli occhi lucenti. Lui non sa cosa dire, è dispiaciuto e io cerco di mostrarmi serena, so quanto deve essere difficile dire certe cose. E così gli chiedo di ammazzare il drago il più in fretta possibile. Lui mi accontenta. Di lì a pochi giorni è tutto finito.

7 ottobre 2011: Policlinico Gemelli.

Mi è stato applicato il porter, servirà nei prossimi 5 anni per poter effettuare la chemio. La chemio è mia amica: insieme al cavaliere senza macchia né paura proveranno ad ammazzare il drago che tenta di sbranarmi.

Il cavaliere senza macchia ha detto che il mio sarà un percorso difficile, nel deserto, ma che insieme riusciremo nella missione. L’oncologo invece, ieri sera, mentre smanettava con il cellulare, mi ha dato una serie di numeri e percentuali: una casistica nefasta nel mio caso, non più di 3 mesi di vita.

Ma allora mi chiedo per quale cazzo di motivo ho dovuto soffrire così tanto per applicare il porter? Ho talmente paura che non riesco a camminare, come riuscirò ad arrivare a casa? E così telefono al cavaliere senza macchia, che mi invita ad andare al 9 piano dalla dottoressa Carnevale. La psicologa, cioè.

Carnevale? Magari è uno scherzo.

Ho la camicia celeste interamente macchiata di sangue, dopo l’applicazione del porter mi hanno portata in una sala gelata per farmi una radiografia, i fili sono stati inseriti tutti al posto giusto. Che culo.

Ma io come li rimetto a posto, i fili della mia vita?

Arrivo al 9 piano dal -2 dove era allora il reparto senologia, né sole, né luce, né finestre.

Non mi ricordo come ho fatto. Lo chiamano stress post-traumatico. Mentre cammino, o forse volo, vedo la gente che mi guarda con stupore: magari non è facile, oggi, incontrare in ospedale una bella donna con la stella da Sceriffo appuntata sul petto e la camicia sporca di sangue, per giunta.

La letteratura ci vuole emaciate, impaurite, prive di forza: invece no. Oggi piove, e io ho comprato da un ambulante un ombrello verde. Quando le lacrime del cielo si uniranno alle mie stringerò fra le mani la speranza. La speranza non si vende. Io ce l’ho in testa, e cammino ugualmente a testa alta.

La dottoressa Carnevale è una donna dai modi gentili: è giovane, ma pare comprendere perfettamente ciò che le dico. Non so come faccia, dal momento che non so neppure io cosa stia dicendo. E così mi invita a far parte di un gruppo di 15 donne: “terapia di gruppo”, la chiama.

L’unico gruppo che al momento conosco è il mio: ARH+. Tante amiche infatti dopo la notizia del cancro sono sparite; né una telefonata, né una mail, né una visita.

Abbandonata in una terra di nessuno decido di entrare a far parte del gruppo.

Il gruppo è formato da varie specie di donne, tutte molto strane.

C’è la ricercatrice universitaria, l’insegnante, la manager, quella che ha sempre mangiato bio, la moglie di un medico che appena ha saputo del cancro se l’è filata a gambe levate. Non sta bene avere la moglie con una sola tetta! La vedova di un eroe di Nassirya che il giorno dopo con una valigia piena di regali per lei e i tre figli sarebbe tornato a casa. Una madre i cui figli si sono giustamente arrabbiati perché lei non portava più a spasso i cani, e allora tutte le sere dopo aver cucinato, lavato i piatti, rimesso in ordine la stanza da pranzo lei se ne va in camera da sola a vedere la tv. Arresti domiciliari.

Poi c’è una ragazza giovane, la mascotte del gruppo, così saggia e consapevole purtroppo. La pazza che non ha capito un piffero e cura il cancro come un raffreddore, quella che ha un nuovo compagno e si sente in colpa per il suo cancro. Come farà il compagno? Questo è il suo cruccio.

E poi sono arrivata io, in un gruppo formatosi mesi prima, senza capelli, senza parrucca, senza sopracciglia, senza ciglia. Spiego loro che abbiamo a che vedere con un drago, e che io lo voglio guardare in faccia per quello che è. Non voglio vincere una battaglia, ma la guerra! È un drago grande e grosso, ma finirà in un angolo a constatare la mia vittoria. Magari sarà divertente anche per lui, perché è bello lottare contro qualcuno che non s’arrende.

Con il gruppo abbiamo intrapreso un cammino doloroso, ed insieme abbiamo deciso che un corso di scrittura creativa sui percorsi della medicina narrativa ci avrebbe aiutato.

Marzo 2016: Policlinico Gemelli, di nuovo.

A mio cognato Elio è stato diagnosticato un cancro al pancreas. Viene mandato all’ottavo piano, percorso marrone, oncologia. A testa alta, insieme, andiamo. Io so come entrare nella terra di nessuno senza farsi troppo male. Scopro che qui non c’è un cavaliere senza macchia, ma questo già lo immaginavo: non è semplice incontrarne uno. Al suo posto tanti oncologi (strana razza) che smanettano sul cellulare, ce n’è uno che ogni tre o quattro parole dice “Oh, yes!”.

Come farà ad uccidere il drago che lo vuole sbranare? Ma Elio è un capitano, sono anni che va per mare, e noi — la famiglia — con lui. Saprà navigare anche queste brutte acque? Spero con il cuore di sì.

Tutto si trasforma, pure l’ospedale. Il policlinico Gemelli è diventato Fondazione Gemelli. La Fondazione, capisco, è un ente costituito da un patrimonio pre-ordinato al perseguimento di uno scopo non di lucro. La Fondazione Gemelli, con forte indirizzo carismatico cattolico, aderisce alla missione del suo Padre fondatore Agostino Gemelli con una gestione manageriale efficace ed efficiente.

5 giugno 2016: Fondazione Gemelli — Pronto Soccorso. Di nuovo.

Elio sta male. Nonostante la gravità dobbiamo aspettare ore prima che qualcuno venga ad aiutarci. Il drago incalza! Qualcuno finalmente arriva. È stanco, ha tante ore di lavoro sulle spalle, troppo dolore anche per lui. Il Pronto Soccorso è un girone infernale. Il personale è poco, sempre meno, non ci sono letti e nemmeno barelle. Pensare di arrivare in reparto è una chimera. Alle 4 del mattino, dopo dieci ore di inferno ed una trasfusione di sangue, veniamo sbattuti fuori. Un taxi ci riporterà a casa. “Molti, col passare del tempo, s’erano abituati, non ci facevano più caso, ma io no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d’un bianco nauseante e senza squame”: io no che non mi sono abituata. Le brave ragazze affrontano la vita, e quelle come me… quelle come me la vincono.

[L’intro a I racconti del SÉno si trova qui.]

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