Varie ed eventuali — di Stella Macera

domitilla.pirro
I racconti del SÉno
11 min readJul 22, 2016
Illustrazione di Ros

Quando una mattina, guardandomi allo specchio, ho rivisto le mie ciglia che facevano capolino sulle palpebre, ho pianto di gioia. Bagnati dalle lacrime, quei peletti luccicavano come stelle sotto la luce. Come ci sono arrivata, qui?

Dicembre 2014. Indaffarata tra regali di Natale, auguri e ferie… di colpo eccomi catapultata in una sala di radiologia per una risonanza magnetica urgente. Quel referto: un ordigno pronto a esplodere.

Prendo il telefono e compongo il numero “Professore, ho bisogno di lei. Io ho bisogno di lei”. Di solito andavo da lui come accompagnatore di una sventurata: questa volta no, accompagno me stessa. Mi visita: tutti i referti aperti sulla scrivania, lastre ed ecografie appese sulla lavagna luminosa. Non ci sono dubbi: trattasi di carcinoma duttale invasivo (bomba numero 1), vasto processo infiltrativo (bomba numero 2), fenomeni di neoangiogenesi (bomba numero 3). L’ordigno è esploso.

“Che sta dicendo e soprattutto di chi sta parlando”, pensavo mentre mi spiegava cosa stava accadendo dentro di me. Cercavo di incrociare i suoi occhi, le lacrime scendevano una dietro l’altra e le mie labbra si muovevano: ma non usciva una parola, il fiato rimaneva soffocato in gola.

Nelle sue parole, tutti gli step perfettamente delineati: intervento di mastectomia al seno destro, chemioterapia, radioterapia, fisioterapia, ricostruzione, varie ed eventuali. Non volevo pensare a cose certe. Per assurdo mi faceva meno paura e più comodo pensare al punto “varie ed eventuali”. Mi dicevo: “Va bene un po’ di sfiga, però più di quello che ha detto cosa può succedere?”. Responso? Intervento di mastectomia nipple sparing e linfoadenectomia. Cavolo: le cose o si fanno per bene o meglio lasciare stare. Il pensiero che il seno sinistro stesse bene era per me il famoso bicchiere mezzo pieno.

23 gennaio 2015. Eccoci: siamo arrivati all’appuntamento. Sveglia alle 5.30: sì, sveglia, perché io ho dormito la notte prima dell’intervento. Doccia, messa in piega: mi sono preparata come se fosse il mio primo appuntamento. Invece che biancheria intima tutta pizzi e merletti ho indossato la camiciola bianca e i calzini di cotone che in tutti i ricoveri non mi hanno mai abbandonato. Dimenticavo: ho messo anche tre gocce di profumo, avevo un appuntamento importante. Pronta. Saluti alla mamma, sempre al mio fianco, e a mio marito, che anche in quel momento ho cazziato selvaggiamente (sembrava già al mio funerale!). Mi portano in sala operatoria: ultimo momento di lucidità, ore 7.30. Primo, nuovo momento di lucidità, ore 18.30.

“In tutto questo tempo, cosa ne è stato di me?”, ho pensato. Di notte ho cercato di capire cosa fosse successo. Non con gli occhi: con le mani. Ti possono spiegare che, svuotato il seno, inseriscono un espansore per tenere la pelle tesa: ma non te ne rendi conto. Provavo a toccarmi il seno e non ci riuscivo — non per i drenaggi, per le flebo, per la medicazione, per la scatolina dell’antidolorifico. Le mie mani provavano a salire lungo i fianchi. Solo la sinistra arrivava al traguardo. La destra all’altezza del fianco scivolava via lungo la gamba. Uno, due, tre, quattro tentativi. Finalmente si è poggiata sul seno destro. Mi sono ritrovata in mano una cosa tondeggiante, dura, immobile. Lì ferma come se fosse appiccicata sul mio corpo, non dentro. Ho iniziato a urlare con tutto il fiato che avevo in gola: “Io ti ammazzo, io vinco su di te”, alternando le grida a momenti di pianto. È scattato in me un senso di ribellione.

Al risveglio post operatorio, ricordo, mi sono sentita una guerriera. Avvertivo una forza inspiegabile. Tra me e me pensavo: “Forse hanno esagerato con la morfina”. Ho voluto riprendere subito contatto con il mio corpo. Allo specchio mi guardavo, toccavo quella cosa che stava lì imponente e mi faceva quasi soggezione. Poi, progressivamente, è stato naturale accettarla. Mi sono accettata. Non per questo ho perso la mia femminilità, il mio sentirmi donna, forte anche di quell’amore che il mio compagno mi ha sempre donato facendomi sentire bellissima: con e senza capelli, con e senza ciglia o sopracciglia, con un seno vero e con un espansore.

E la convalescenza? Ombry: tra un drenaggio da svuotare e un estratto di cavolo, rapa e zenzero da preparare, la mia eterna amica Ombretta era sempre accanto a me. A cercare lo showroom di parrucche più fashion, i reggiseni più adatti, le creme, i centri di endermologie per Carlina… Carlina chi? La mia tetta espansa, naturalmente: soprannomi ne ho per tutti. Passavamo pomeriggi a studiare il modo in cui rendere il décolleté perfettamente allineato. Ma il tempo trascorreva anche tra risate, gossip, ricordi dei tempi in cui non ci perdevamo nessun concerto dei Duran Duran, Spandau Ballet, Zucchero, Renato Zero. Perché non si doveva parlare solo della malattia. Perciò eccoci a vivere assieme i trenta giorni agli arresti domiciliari, e l’ora d’aria a giorni alterni per le medicazioni a Carlina. Due volte, in assoluto, una pompatina con soluzione fisiologica. Si, il divertente era questo: gonfiare e ridimensionare la sua grandezza. Tipo revisione della macchina, aumentando e diminuendo la pressione delle ruote. Ho iniziato a coccolarla. La massaggiavo con olio alle more per evitare aderenze, per rendere la sua pelle liscia, per evitare i segni della cicatrice.

Appuntamento con l’oncologo: un sacco di numeri, da lì in poi. 6 mesi di chemioterapia, 28 sedute di radioterapia, trattamento ormonale, menopausa indotta, dettagliata spiegazione degli effetti collaterali. “Che culo!”, ho pensato. Ma lui mi ha presa per mano e mi ha portato in un nuovo mondo: quello del paziente oncologico. La mitica chemio rossa che si fa ogni 21 giorni, per esempio: il mio cancro è talmente aggressivo che a me la fanno ogni 14 giorni. “Altro che sfiga”, mi sono detta. Poi 12 sedute di taxolo, una a settimana. Ho affrontato subito la caduta dei capelli, non ho aspettato. Dopo aver scelto due parrucche, una corta e una lunga (perché, a seconda di come mi alzavo la mattina, mettevo l’una o l’altra), ho preso appuntamento con la mia parrucchiera e mi sono fatta rasare a zero. Ad accompagnarmi c’erano mio marito e Ombry: guardavo la mia immagine allo specchio e, man mano che le ciocche di capelli toccavano il suolo, mi sentivo sempre più carica. Sorridevo. Mi vedevo bella. È proprio vero: ogni scarrafone è bello a mamma sua. Non dimenticherò mai il viso della mia amica: sorriso stampato e deglutizione frequente. Mio marito, invece, aspettava direttamente fuori dal negozio. E poi saremmo noi il sesso debole?

Per i sei mesi di chemioterapia, parrucche, bandane e foulard coloratissimi. Era estate: quanto mi piaceva andare in giro con la testolina tonda tutta nuda, truccatissima e con degli enormi orecchini per far risaltare meglio la forma regolare del viso. Ho fatto varie sedute per capire come truccarmi e nascondere il colorito che solo la chemioterapia sa donarti: ho imparato ad usare i famosi prodotti di camouflage, a disegnare le sopracciglia senza il rischio di tracciare sugli occhi l’autostrada A1. Ho provato perfino a mettere le ciglia finte. Che ridere, le prime volte: mi rimanevano gli occhi incollati. Poi ho deciso che non facevano per me. La mattina, quando mi alzavo, appendevo fuori dal bagno il cartello Lavori in corso.

Ho imparato una nuova lingua, perché il cancro ha un linguaggio tutto suo: devi fare i conti con parole come emend, granulokine, soldesam, doxorubicina, ciclofosfamide, taxolo, cetirizina, angiogenesi, port-a-cath…! Ah, il mitico port, l’incrocio tra un pulsante speciale e un microchip che custodisco sotto la clavicola sinistra: ogni trenta giorni gli faccio fare la toletta. Ricordo quando lo hanno inserito. In sala d’attesa, seduto accanto a me, c’era un ometto di sei o sette anni, in tuta, con un robot in una mano e un pacchetto di caramelle nell’altra. È il mio turno, mi chiamano per entrare. E lui — con voce bassissima, con l’incoscienza di un bambino che ha già conosciuto la sofferenza — mi dice: “Non fare la femmina piagnona, non fa male, la vuoi una caramella?”. Quel piccolo grande uomo è stampato nella mia mente. È la mia fonte di energia.

Per sottopormi all’infusione della chemioterapia, entravo nel day hospital con passo felpato ma occhio aggressivo. Mi acciambellavo sulla poltrona come il mio cane nella cuccia. Indossavo il mio sorriso migliore come una corazza impenetrabile. Mi ripetevo: “Non sono una femmina piagnona!”. Portavo con me musica heavy metal e la ascoltavo a tutto volume: dovevo stordire il cancro. Disponevo la mia flotta in assetto di guerra: linfociti, globuli bianchi, Natural Killer, broncodilatatore, piastrine, globuli rossi. Eccomi, sono pronta, pensavo: “Tutti in posizione: caricaaa!”. Fissavo il medicinale che scendeva goccia dopo goccia. Era la mia bomba atomica, la mia rinascita, la mia vittoria, la mia vita. Era la morte, caro odioso Cancro, tua e delle tue cellule, della tua angiogenesi, del tuo essere diabolico. Io ero al centro della battaglia in quella stanza dove la puzza dei farmaci, del disinfettante, delle garze, dei cerotti, del dolore, dell’angoscia, della paura, dell’ansia, si trasformava in vita, speranza, fede, emozione, gioia, fiducia, condivisione. Risate, perfino. Spesso incontravo un collega di terapia che mi prendeva in giro per il taglio di capelli. Ero completamente rasata: sotto effetto di pesanti farmaci, lui ogni tanto svalvolava e chiedeva il nome del mio parrucchiere. Lo chiedeva una, due tre volte.

Ricordo la faccia perplessa dell’oncologo quando mi ha prescritto i fattori di crescita perché i miei globuli bianchi erano in caduta libera: per tutta risposta, gli ho chiesto se potevo fare anche il viscum album sotto pelle. Quello che si usa per gli addobbi di Natale, sì: io mi ci sono decorata il sistema immunitario. Non ho tralasciato niente, neanche le terapie integrate.

Dalle giornate scandite da lavoro, spesa, palestra, amici, cinema, shopping, aperitivi, ho dovuto imparare a programmare giornate completamente differenti: appuntamenti in ospedale, visite, prelievi, infusioni, riposi forzati, sedute di bellezza molto diverse. Sulla lavagna di sughero in cucina ho attaccato il piano terapeutico: la lista delle cose da non fare, da non mangiare, da limitare. Ho dovuto svuotare un nuovo ripiano in bagno per i medicinali, e altrettanto ho fatto per profumi, creme e così via.

Portati a termine i cicli di chemioterapia, faccio un bilancio. Tutto sommato non è andata male. Ho perso solo i capelli, le ciglia, le sopracciglia. Dall’estetista e dal parrucchiere andavo solo per un saluto. Le unghie sono ancora qui, anche se leggermente scure e deboli. Non ho mai vomitato, se non quando ho mangiato un chilo di ciliegie. La pelle è comunque ben idratata. Ho dovuto ricomprare un servizio di piatti e tazzine perché con le mani dolenti ed addormentate mi cadeva tutto — ma in fondo avevo già deciso di cambiarli. Ogni tanto mi ritrovavo le ginocchia sbucciate come quando, da bambina, decidevo di fare motocross con la mia bicicletta modello Graziella e ogni tanto mi spiaggiavo a terra: solo che adesso accadeva perché i piedi, come le mani, risentivano degli effetti dei farmaci. Ad ogni infusione, con la complicità degli infermieri, mi facevo fare una medicazione più o meno importante in base al regalo da estorcere. Ho completato un intero braccialetto di Pandora. Ho visto spesso l’alba perché non riuscivo a dormire: era emozionante vedere la luce che piano piano entrava nella stanza. Ho capito come funziona il midollo osseo, pur non sapendo niente di medicina, perché dopo 48 punture di fattori di crescita te lo senti, lo percepisci proprio, che sta lì che lavora. E poi non ero più nera focata come il mio pincher: la chemioterapia ha fatto scomparire il 90% della mia vitiligine. Un mese di sosta ed ecco che iniziano le 28 sedute di radioterapia: centratura e tatuaggi. Preparano un calco su misura dove io possa incastrarmi per la seduta: io che ho sempre odiato l’idea di farmi disegnare con un aghetto mi ritrovo quattro piccoli segni indelebili. Ogni giorno, stessa ora, sono lì, in attesa di entrare nella sala “acquario”: una stanza enorme tutta azzurra con degli enormi pesci disegnati sulle pareti. Nove minuti immobile, Nemo che mi fissava dalla parete a vista, il raggio rosso che partiva, attraversava la stanza e puntava su di me. Io che, fino ad allora, conoscevo solo la luce pulsata.

Una partita a scacchi in cui studiavo l’avversario e cercavo di anticiparne le mosse. Un dolore ambiguo, un prelievo, uno studio sulla tendenza dei miei geni a mutare, una TAC, una lastra. Sbaglio mossa. Scacco matto: il famoso “varie ed eventuali” che si presenta.

26 dicembre 2015. Mi sveglio con la febbre a 38,5 e delle bollicine piene d’acqua sulla fronte. Pronto soccorso. Ricovero urgente. Sfiga su sfiga: varicella e polmonite. La radioterapia ha bruciato la parte superiore del polmone. Altri numeri: 10 giorni di isolamento, di cui 4 con ossigeno. Ma io continuavo a non essere la femmina piagnona: anche con 40 di febbre, anche quando non reagivo a nessun antibiotico, anche quando la febbre continuava a salire, anche quando il torace piangeva a ogni respiro.

Come se mi fossi estraniata dal mio corpo, non riesco a descrivere il vuoto che ho sentito dentro di me quando mi sono resa conto che non stavo rischiando di morire per il cancro, ma per una polmonite. Non rispondevo ad alcun farmaco. “Se devo uscire di scena lo devo fare bene, così non vale, non può finire così, non ci posso credere”, mi dicevo. Fino a un nuovo antibiotico, finalmente quello giusto. “Devo superare anche questa, non devo mollare”. 48 ore e la prognosi è stata sciolta, proprio come io avevo sciolto la iena che è in me. Non ho dovuto neanche organizzare il Capodanno: ero in una stanza con vista fuochi d’artificio. Peccato solo che si trattasse del reparto di malattie infettive del Policlinico Gemelli.

31 dicembre 2015, ore 19.30. “Devo festeggiare quest’anno di merda che se ne va”: un po’ ne ridevo, perché non è che il 2016 iniziasse proprio sotto i migliori auspici. In un modo o nell’altro, mi sono alzata e cambiata: ho messo un pigiamino viola e bianco di CK, calzini di cotone bianchi, un po’ di profumo e un velo di cipria. Passeggiata nella stanza e via, mi sono rimessa a letto. Ho riattaccato ossigeno e flebo. Ormai ho acquistato dimestichezza. Allo scoccare della mezzanotte ho brindato con una fiala di antibiotico in vena: la febbre era sempre alta. Sicuramente ho passato il capodanno degno del più singolare last minute della storia. I fuochi d’artificio, poi, erano bellissimi.

Ho continuato a lavorare, uscire, fare sport da persona diversamente sana — o, come mi definisce il mio collega, “diversamente paracula”. Se sei diversamente sana puoi evitare riunioni noiosissime, turni, orari troppo rigidi. Sei sempre coccolata: il mio capo e i miei colleghi, oltre alla famiglia e ai miei amici, sono parte dei miei successi. E i medici sono i miei angeli. In tutto questo, i capelli continuano a crescere: ricci. Io li ho sempre avuti lisci. Ho dei seri problemi a tenerli sotto controllo, ma lo trovo bellissimo: sono i miei capelli. Quanto mi piace toccarli, trovare la combinazione per far stare ogni riccio al suo posto e poi arruffarli di nuovo, per poi ripettinarmi. Indovinate quale peluria è ricresciuta per prima? I baffetti. Non avrei mai pensato di emozionarmi alla loro visione. Ma è successo anche questo. Il ricordo del giorno in cui ho tolto definitivamente la parrucca e sono andata in ufficio, poi, mi fa scorrere un brivido lungo la schiena. Ci piango per l’emozione.

Ora, però, mi tocca chiudere il racconto: peccato, perché in sospeso ho una TAC al torace, una lombosacrale e una all’addome. Avevo ragione: la cosa più interessante sono le “varie ed eventuali”.

[L’intro a I racconti del SÉno si trova qui.]

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